Fino al 20 maggio al Museo Ebraico di Bologna una mostra su Carlo Vitale

di Anna Lesnevskaya

Carlo Vitale.Auotoritratto
Carlo Vitale, Autoritratto

Dopo le mostre di Antonietta Raphaël, Carlo Levi ed Emanuele Luzzati, il Museo Ebraico di Bologna continua il percorso dedicato ai pittori italiani del Novecento di origine ebraica con la personale del milanese Carlo Vitale (1902-1996).

L’esposizione, inaugurata il 10 marzo alla presenza della direttrice del Museo, Vincenza Maugeri, e di Guido Cribiori della galleria d’arte milanese Studiolo, porta all’attenzione del pubblico 13 oli, due acquerelli e sei incisioni appartenenti per la maggior parte al periodo della massima espressione dell’artista che va dal 1927 al 1949. La mostra sarà aperta fino al 20 maggio.

Vitale, influenzato da un lato dagli impressionisti francesi, e dall’altro dai pittori italiani del primo Novecento, ha elaborato uno stile unico, contraddistinto da eleganza e semplicità. I quadri esposti a 20 anni dalla morte del pittore, sulla cui vita manca ancora uno studio approfondito, si potranno ammirare fino al 20 maggio.

Diplomato al Liceo Berchet di Milano, sin dalla tenera età scoprì la sua vocazione per la pittura. In famiglia la pittura non era considerata un mestiere vero, così nel 1924 si laureò in Chimica a Pavia. Contemporaneamente portò avanti gli studi artistici all’Accademia di Belle Arti di Milano, dove ebbe tra i suoi maestri Rocco Lentini, che lo influenzò profondamente. Nell’anno della sua laurea, dopo aver partecipato giovanissimo alla Biennale di Venezia, continuò a studiare pittura a Roma, dove prestava il servizio militare, con Domenico Cucchiari, e in seguito a Firenze con Felice Carena, un altro dei suoi maestri.

Il livello di eccellenza raggiunto da Vitale si percepisce nella natura morta del 1930 esposta al Museo Ebraico di Bologna. Tra la fine deli anni Venti e negli anni Trenta il suo studio milanese in Via Bronzetti divenne un salotto colto frequentato da artisti e intellettuali, come Mario Sironi e Piero Gadda Conti, poeta e scrittore, oltre che cugino di Carlo Emilio Gadda, ritratto insieme allo stesso Vitale in uno dei quadri esposti.

“La famiglia di mio papà era inserita benissimo nella società italiana – racconta la figlia del pittore, Adriana –. Era non solo una famiglia agiata, ma anche molto colta, tanto che tutti i figli erano laureati e sapevano suonare uno strumento musicale”. Le leggi razziali furono per Vitale, come per tanti altri ebrei italiani, una rottura inaspettata e dolorosa.

Nel ’36 dovette modificare il proprio nome per poter partecipare alla mostra in occasione delle Olimpiadi di Berlino. E lì che disegnò il leggendario pugile Max Schmeling, noto per le sue amicizie col mondo ebraico. Allo stesso anno appartiene anche l’intenso ritratto di Helene Ratmansky, giovane ebrea polacca rifugiatasi in Italia con la famiglia. Del ’40 invece sono i due drammatici autoritratti del pittore, nei quali si percepisce la sua solitudine e l’isolamento.

Nel 1939 Vitale si trasferì a Parigi, città che ha amato più di tutte le altre. Nel 1944 fu costretto a rifugiarsi con la moglie Irma Shulz, soprano finlandese, nei campi profughi in Svizzera. Ricorda la figlia Adriana, nata lì: “Gli svizzeri separarono i miei genitori, e due giorni dopo la mia nascita, mio padre mi visitò scortato da un soldato svizzero”.

Al rientro in Italia nel 1945, niente fu come prima. Il clima culturale era cambiato, Vitale aveva una famiglia e due figli da mantenere. Con le incisioni che si guadagnò da vivere e proprio in quella tecnica esplorò maggiormente la sua ebraicità, affrontando, tra gli altri, dei soggetti come Il sogno di Giacobbe e Le figlie di Lot e la statua di sale. Vitale si spense a Camogli dove si ritirò negli ultimi anni della sua vita.

MUSEO EBRAICO DI BOLOGNA
10 marzo | 20 maggio 2016

orari
da domenica a giovedì 10.00 – 18.00
venerdì 10.00 – 16.00
sabato e festività ebraiche chiuso

ingresso libero