Aprire il dialogo, progettare il futuro

Feste/Eventi

 

L’argomento “Politiche culturali comunitarie oggi” oggetto di questo incontro-dibattito è quanto di più impegnativo, ma anche quanto di più soggettivo si possa concepire. Ognuno di noi può fornire una risposta diversa e nessuno potrà mai dimostrare di aver ragione. Innanzitutto mi viene spontaneo rilevare che questo Moked, come i precedenti, rientra ed è un’espressione delle scelte di politica culturale compiute dall’Unione delle Comunità attraverso il Dipartimento Educazione e Cultura.

Non mi dilungo a descriverne le caratteristiche, perché ne abbiamo già parlato al momento dell’apertura dei lavori e che potrei riassumere nella frase che durante i Moked vogliamo affrontare gli argomenti difficili e pericolosi, perché siamo convinti che sarebbe ancor più pericoloso non trovare il coraggio di affrontarli. Infatti, quale sarebbe il significato del silenzio?

Vorrebbe dire che siamo talmente disorientati da aver perso quella che è sempre stata la principale caratteristica ebraica: la propensione al confronto e al dibattito.

Vorrebbe dire che si sono accumulate tante di quelle paure, rispetto a un confronto aperto, che la nostra comunicazione e il nostro dibattito sia verso l’interno che verso l’esterno restano come paralizzati, ingessati e quindi atrofizzati.

L’Unione è impegnata a combattere queste tendenze e anche a fare un passo ulteriore, senza tuttavia rinunciare all’approfondimento culturale, in quanto vogliamo essere anche realizzatori attivi e pragmatici di fatti concreti. Non vogliamo sviluppare una cultura che rimanga nel chiuso di gruppi ristretti, di alcune aule e non coinvolga la totalità della popolazione ebraica; questo lusso potrebbero permetterselo eventualmente delle associazioni private, ma non l’Unione e le Comunità che devono rappresentare tutti.

Se c’è, se esiste un’elite culturale, chiediamo a questa elite di scendere nelle strade, di entrare nelle case, di semplificare non i concetti fondamentali e i contenuti, ma il linguaggio, per diventare comprensibile a tutti e permettere a tutti di partecipare e di lavorare insieme, per contrastare il forte e preoccupante allontanamento di tante persone e di tante famiglie.

Invece di costruire barriere, vogliamo costruire percorsi privilegiati di avvicinamento. Non sto proponendo alcuna rinuncia o deroga ai nostri principi, sto solo auspicando che una parte maggiore delle nostre risorse sia utilizzata a favore delle persone e delle famiglie più in difficoltà, più fragili, più insicure e meno identificate dal punto di vista ebraico.

Auspichiamo che questo lavoro avvenga, qualunque sia la causa delle difficoltà senza discriminazioni, senza intenti punitivi o sanzionatori e senza la pretesa di giudicare nessuno.
Mi piacerebbe che dal dibattito che spero si sviluppi dopo queste nostre iniziali esposizioni, emergesse una vostra valutazione, un giudizio espresso da un gruppo più allargato.

Formulo una precisa domanda: ritenete voi che questo rilancio positivo, questa riconquista di posizioni, di persone, di gruppi, sia una sterile utopia, o che invece siano maturate le condizioni che la possano rendere possibile?
E’ la stessa domanda che chi ricopre cariche in ambito comunitario e ha quindi il dovere e la responsabilità di scegliere le strade più giuste e opportune per il governo delle nostre istituzioni, pone a se stesso ogni giorno.

Ritengo che stiamo vivendo un periodo che, come tutti quelli di rapida trasformazione, offre grandi opportunità e contemporaneamente espone a grandi rischi. Tengo a precisare subito di non far parte del nutrito gruppo dei pessimisti, al contrario ritengo che per il mondo ebraico nel corso degli ultimi 70 anni si siano aperte prospettive e si sia verificato un grande rafforzamento in campo politico, culturale e sociale.

Ritengo che sia indispensabile per noi tutti prendere coscienza che si è aperta una grande occasione, che non ha precedenti nella nostra storia. Ritengo che i modelli del passato, sui quali si sono formati e hanno impostato la loro vita i nostri antenati, debbano essere aggiornati tenendo conto delle nuove situazioni.
Nel corso dei secoli XIX e XX in Europa è stato messo in discussione e si è incrinato il concetto dello Stato governato da un potere assoluto, monarchico e teocratico.

Contemporaneamente la condizione degli ebrei, una parte della società fino ad allora isolata, discriminata e perseguitata, ha subìto una graduale trasformazione. Attraverso percorsi non sempre lineari si è affermato il principio della libertà e dell’eguaglianza fra tutti i cittadini indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa e dall’essere o meno credenti.

L’atroce beffa è stata che, nel percorso tortuoso verso la conquista della parità dei diritti, gli ebrei abbiano dovuto subite la più grande e la più atroce persecuzione di tutti i tempi, sfociata in un vero e proprio tentativo di sterminio totale. Mentre la Shoah distruggeva circa un terzo del popolo ebraico, maturavano le condizioni per la nascita dello Stato di Israele che si realizzava esattamente 60 anni fa. Dal punto di vista della collocazione geografica, si è verificato in questo periodo un notevole spostamento del baricentro da oriente verso occidente; le comunità ebraiche sono emigrate dai Paesi a maggioranza islamica e da quelli dell’Europa orientale principalmente in Europa occidentale e in America, cioè verso i Paesi nei quali le garanzie liberali e democratiche nei confronti delle minoranze erano certe e consolidate. Ma non si è trattato solo di uno spostamento fisico, in realtà gli ebrei sono diventati una componente determinante della società, della cultura e dei costumi occidentali.

Il mio ottimismo deriva e si basa proprio su due elementi principali: il primo è il ruolo e l’integrazione nella civiltà occidentale, il secondo è la creazione dello Stato di Israele. Si sono infatti aperte prospettive impensabili fino a pochi decenni fa per il ruolo e per la vita degli ebrei nel mondo. Per la prima volta, dopo molti secoli, abbiamo un futuro programmabile, per la prima volta possiamo avere una prospettiva non solo rivolta allo studio del nostro passato, con la preoccupazione di sopravvivere nel presente e senza nessuna certezza per il futuro. Oggi, come mai nel passato, abbiamo un ruolo importante da svolgere all’interno della società e del mondo in cui viviamo. E abbiamo anche i mezzi per realizzarlo.
Oggi, come mai in passato, lo svolgimento di questo ruolo non solo non è negato, ma al contrario ci viene insistentemente sollecitato. La società nella quale viviamo ci interpella continuamente e ci chiede di svolgere una funzione di riferimento. Non voglio esagerare, né voglio presentare una situazione idilliaca, perché incertezze e pericoli sono ancora presenti. Ma è innegabile che i rapporti di forza sono notevolmente cambiati a nostro favore.
Le stesse correnti antisemitiche appaiono confuse e spiazzate da questo nuovo equilibro. Esempi emblematici vengono vissuti ogni anno nel corso delle celebrazioni della Giornata europea della Cultura ebraica e del Giorno delle memoria.

Ma prendiamo in esame anche ciò che accade in questi giorni a proposito della Fiera del Libro di Torino.
Di fronte alla minaccia di boicottaggio è insorto un forte schieramento di persone e di gruppi che si sono affiancati a noi per contrastare coloro che vorrebbero negare il diritto all’esistenza di Israele e della sua cultura.

La grande novità non è che ancora esista l’antisemitismo, sia palese che mascherato da antisionismo. La grande novità è che la società italiana ha creato con noi un fronte compatto e deciso che ha capovolto in positivo la situazione e ha attribuito alla celebrazione del sessantesimo anniversario dello Stato di Israele altri e più profondi significati. Di fronte a questa grande opportunità di apertura, di comunicazione, di interreazione con la società circostante ci viene spontaneo chiederci se noi stessi siamo pronti, adeguatamente formati, sufficientemente attrezzati, o se invece non dobbiamo riqualificarci e aggiornare i nostri strumenti per svolgere un ruolo politico e culturale così importante, nuovo, complesso.
L’Unione ha già deciso di accettare questa sfida, di non arretrare e di mettere in campo molte nuove iniziative sul fronte della comunicazione e dell’informazione.

Il passo successivo deve essere quello di aprire un dibattito con i nostri rabbini e con tutte le risorse culturali di cui disponiamo per rinsaldare le nostre basi e la nostra identità per raggiungere un obbiettivo che è al di sopra delle possibili divisioni interne: uscire definitivamente dal ghetto, o dai diversi ghetti dai quali siamo già usciti fisicamente, ma non sempre totalmente dal punto di vista culturale e psicologico. Dobbiamo essere pronti a cogliere questa irripetibile occasione che è anche l’occasione per debellare o almeno indebolire l’antisemitismo. Dobbiamo fornire il nostro contributo di civiltà alla società nella quale viviamo e che ce lo richiede insistentemente, anche perché è confusa e frastornata dall’impressionante velocità raggiunta dallo sviluppo scientifico e sociale.

Forse si è creata un’aspettativa che non possiamo deludere, che dai nostri princìpi antichi, ma sempre attuali, possano emergere per tutti riferimenti chiari e risposte valide ai tanti dubbi e alle crisi che tormentano l’uomo moderno.