Purim, la gioia dopo la salvezza

Ebraismo

di Rav. Alfonso Arbib

La festa di Purim è molto particolare. Da una parte è la più sfrenatamente allegra dell’anno ebraico. D’altro canto però è preceduta da un digiuno e ricorda un tentativo di sterminio del popolo ebraico.

Haman ordina l’uccisione in un solo giorno di tutti gli ebrei dell’impero persiano (e si tratta della quasi totalità della popolazione ebraica dell’epoca). Haman è l’unico prima di Hitler a progettare una “soluzione finale del problema ebraico”.

La salvezza del popolo ebraico da una terribile persecuzione è il motivo principale dell’allegria di Purim, in cui riaffermiamo con forza e con gioia che “Am Israel Hai” (il popolo d’Israele è vivo).

A Purim però non si festeggia soltanto la sopravvivenza fisica del popolo ebraico ma anche la sua capacità di vivere ebraicamente in “Galut” (Diaspora, esilio).

Tutta la storia di Purim si svolge in Galut e anche dopo la salvezza gli ebrei continuano a vivere in Persia. Il Galut, nella tradizione ebraica è metaforicamente identificato con il buio e con la notte. Nella diaspora il popolo di Israel rischia di perdere la propria identità e la speranza di salvezza.

Questo pericolo è ben presente nella storia di Purim.

La Meghillà comincia con un racconto apparentemente superfluo, quello del banchetto del re. A questo banchetto partecipano anche gli ebrei e, secondo il Midrash, bevono il vino servito nei recipienti depredati nel Bet Hamikdash. Questo atto rappresenta; oltre che una profanazione del Santuario, la perdita della speranza di una futura ricostruzione.

Gli ebrei però recuperano la loro identità ebraica e la speranza proprio nel momento del pericolo.

R.Y. Hutner afferma che il popolo ebraico a Purim ha imparato a muoversi nel buio e questa capacità sarà la chiave della sua vita futura in attesa di vedere il sorgere dell’alba.