Mi sento un ebreo della Diaspora

Ebraismo

di Marina Gersony

Scrittore, sceneggiatore e regista, Etgar Keret è nato a Tel Aviv nel 1967. Fondatore della scuola letteraria nata in Israele nella seconda metà degli anni Novanta, per molti critici è il simbolo dell’attuale generazione di scrittori israeliani. Tradotto in diverse lingue, viene apprezzato per la sua scrittura spassosa, originale e irriverente. («È un genio», The New York Times). I suoi libri e soprattutto i suoi racconti rimangono impressi per i personaggi bizzarri, surreali e a volte assurdi. «Sono le storie più comiche, nere e struggenti che ho letto da molto tempo», dice di lui l’amico e collega americano, in genere parsimonioso nell’elargire complimenti, Jonathan Safran Foer. A Keret – di cui è appena uscito in Italia All’improvviso bussano alla porta (Feltrinelli. Traduzione di Alessandra Shomroni), abbiamo rivolto alcune domande su cosa vuol dire essere ebrei oggi, sulla differenza tra un ebreo della Diaspora, un ebreo israeliano e non solo.

«Israele è il Paese anti ebraico per eccellenza – sintetizza a suo modo l’autore -. Mi spiego meglio: quando Herzl venne in Israele, l’obiettivo era di «eliminare l’ebraismo» dagli ebrei, ossia di creare uno Stato laico popolato da laici. All’inizio ci furono gli agricoltori, poi nacque l’esercito e poi, via via, una tecnologia sempre più evoluta e raffinata. Nel frattempo è arrivata gente da tutto il mondo. Oggi in Israele è più facile trovare un ristorante cinese piuttosto che ebraico».

Lei si sente più ebreo, israeliano o entrambe le cose?

«Mi sento profondamente ebreo. Più ebreo che israeliano. È la mia identità primaria. Essere ebrei it’s a way of thinking, è un modo di pensare. La tradizione ebraica ama il pensiero critico, l’argomentazione. Perfino con Dio si dibatte e si discute. Guardiamo i grandi pensatori e intellettuali ebrei, da Marx a Freud ad Einstein: hanno deciso di non seguire l’onda e di mettere in discussione il pensiero dominante dell’epoca. Riguardo agli ebrei della Diaspora, hanno una doppia identità: nazionale ed ebraica. Spaziare da un’identità all’altra è un’abilità che consente loro di entrare e di uscire da realtà diverse. È questo il modo in cui io percepisco il mondo. E che mi rende molto più vicino agli scrittori americani del passato, del presente e del futuro. Sono figlio di due sopravvissuti all’Olocausto. Forse per questo mi sento più affine agli scrittori della Diaspora. Con loro ho molte più cose in comune. Gli scrittori israeliani moderni – che apprezzo senz’altro ma nei quali non mi riconosco – sono in genere più rigidi nella loro identità, più orientati a scrivere sulla collettività e meno delle loro percezioni. I miei punti di riferimento sono Kafka, Isaac Bashevis Singer, Shalom Aleichem. Nella mia scrittura i valori israeliani attraversano i valori ebraici: racconto storie intrise di ironia e del tipico senso dell’umorismo ebraico; un umorismo per sdrammatizzare, per esorcizzare la paura, per sopravvivere e ridere di se stessi resistendo al mondo senza diventare patetici. Esprimendo sempre e comunque compassione e amore».

Chi sono gli ebrei assimilati?

«Penso che in molti Paesi un certo establishment sia molto rigido. Spesso non offre alternative che consentano alle persone di esprimere liberamente il proprio pensiero. Negli Stati Uniti sono sempre più numerose le associazioni ebraiche che stanno richiamando i giovani ebrei a riappropriarsi delle loro identità, tradizioni e appartenenze “smarrite”. Andare in Sinagoga soltanto a Kippur non basta. Mia sorella è ultra-ortodossa e vive a Meah Shearim. Ha 11 figli e nove nipoti. Mia moglie è atea e viviamo nella laica Tel Aviv. La nostra è una famiglia allargata che è l’emblema dell’israelianità. Mio figlio di sei anni un giorno ha detto: “La mamma è atea, la zia crede troppo in Dio e noi due, papà, in cosa crediamo”? Penso che essere ebrei, almeno per me, significhi vedersi e percepirsi come tali. È una questione intima. Personalmente mi sono sposato in modo religioso. L’assimilazione ha diversi gradi: un’ebrea può sposare un non ebreo e crescere il proprio figlio nel modo più ebraico possibile. Le opzioni, insomma, sono diverse…».