La piccola sinagoga dei miracoli nel cuore di Milano

Ebraismo

di Fiona Diwan

▶ Viaggio nelle sinagoghe di Milano 2a puntata

L’Oratorio Sefardita Orientale di via Guastalla è stato il primo tempio sefardita di Milano, aperto nel 1958. Un luogo leggendario che radunò i profughi in fuga dal Medioriente con il loro ebraismo melodioso, nostalgico e dolente. Uno charme orientale ancora intatto. Un luogo vitale e senza tempo, oggi vivace e in crescita. Di padre in figlio, inseguendo tradizioni, ricordi, desideri che, tra queste mura, a volte, trovano ascolto

Quelli che ogni mattina giungono alla spicciolata lo sanno: anche oggi ci sarà minian, come tutti i giorni. Al fatto di non essere in molti in fondo hanno fatto l’abitudine. «La chiamiamo in modo scherzoso la “sinagoga dei miracoli” e difatti, ogni volta, il minian si materializza e accade. Da lunedì a venerdì ecco un piccolo miracolo, facciamo Tefillà e poi colazione, tutti insieme, con brioche fresche e caffè», racconta con un sorriso Ovadia-Abdo Hamra. Siamo nell’Oratorio Sefardita Orientale di via Guastalla, piano seminterrato, seguito dalla famiglia di rav Shlomo Haddad, dai suoi figli Moshe e Avraham (che officiano), nonché appunto da Ovadia Hamra e dai suoi figli. In questi ambienti si celebra l’abbraccio tra Sefarad e Ashkenaz, un bel matrimonio tra la dimensione chassidica e quella mediorientale, il Baal Shem Tov che incontra Rabbi Meir Baal HaNes, l’elemento mistico e taumaturgico dei primi Rebbe del Chassidismo con la tradizione miracolistica dei maestri sefarditi del Kinneret. Non a caso il Nussach Sefarad è il libro ritualistico ashkenazita per eccellenza, anche se porta nel titolo la parola Sefarad.

Ci sono sinagoghe opulente, più muscolari e sicure di sé. Qui si respira un tempo dolce e intenso, una lentezza d’altri luoghi e d’altri tempi. «Questa sinagoga è la madre di tanti altri templi milanesi. Da qui, dalla gente che la frequentava, hanno preso vita tante altre sinagoghe della città. Il rito è sefardita siriano ma tutti quelli in grado di officiare possono salire sulla Tevà e esercitare la chazanut», spiegano rav Moshe Haddad e Ovadia Hamra. Ed è proprio Ovadia-Abdo a preparare un kiddush dello Shabbat tra i più gustosi, con i suoi must e specialità, dai ceci caldi con il cumino e aglio all’insalata di melanzane con noci, aglio e prezzemolo, fino al humus o al babaghannuj siriani. I figli di Ovadia, David e Avram, insieme ai rabbanim Moshe, Avraham e Eli Haddad, officiano ogni Shabbat, mentre rav Joseph Haddad, figlio di rav Heshuà Haddad z.l., officia durante i chaggim, a Rosh HaShanà e Kippur. «è stato il primo tempio sefardita di Milano, nato nel 1958. Tra i fondatori ci sono mio padre, Nissim Cohen, Joseph Soued, Rafful Silvera, Albert Missri e Shaul Legziel», dice Solly Cohen, gabbai e veterano del tempio. Nell’Aron riposano 15 Sefarim di grande pregio, d’argento istoriato, con corone dorate e rimmonim che sono vere opere d’arte, donati in più di 60 anni dai tanti frequentatori. I sostenitori e habituèes si ritrovano qui ogni Shabbat, come fu per i loro genitori, e siedono nello stesso scranno di allora: sono Sami Legziel, Joe Taubi, Alberto e Jo Djemal, Sami e Maurice Soued, Johnny Mesrie, Elie Metta, Edwin e Andrea Aripol, Haim Eman, Sami e Maurice Soued, Ezra Hazan, Nissim Hafez, Kiko Ellmann, Solly Cohen e tanti altri; per loro Ovadia prepara, ogni Rosh Chodesh, una grande tavolata, una seudà speciale per ogni capo-mese (offerta sempre da Johnny Mesrie). «Lo spirito di questo tempio? Ciò che lo caratterizza? Il fatto che si stia tutti insieme, anziani, giovani, sapienti. Un tempio intergenerazionale dove anche i giovani a Minchà possono preparare dei Divrei Torà», spiega con dolcezza e modi gentili un sorridente rav Moshe Haddad. È riuscito a coniugare la Chassidut Chabad con il rito sefardita siriano «perché la Chassidut è rivolta a tutti, un modo per lavorare sulla nostra parte profonda e nascosta della Torà; ma anche per riuscire a lavorare sull’interiorità e governare la parte pulsionale che abita in ciascuno di noi, una strada lunga e insieme corta questa – a seconda da dove e da come la si prenda-, come diceva il Baal haTanya, grande Maestro del Chassidismo», dice rav Moshe Haddad. Del resto, fa notare ancora rav Moshe, per secoli il mondo sefardita ha studiato appassionatamente lo Zohar, un punto di riferimento specialmente in Marocco da cui proviene anche la sua famiglia (dal villaggio di Tabya vicino a Marrakesh), terre di grandi mequbbalim e studiosi, come ad esempio il Baba Sali. Un tempio oggi in crescita, che riesce ad attrarre ebrei che non hanno mai messo piede in un Bet haKnesset e che abitano in zona centro e non solo, come è accaduto a Shavuot e a Purim, e come accadrà a Rosh haShanà e a Kippur.

Molti dicono, oggi, che tra queste pareti sembra soffiare uno spirito di santità, un ruach hachodesh percepibile. Un atmosfera fuori dal tempo. Molti degli scranni che un tempo furono brulicanti di preghiere e parole, sembrano giacere come sotto un incantesimo, un velluto rosso dispiegato sulla nostalgia di un intenso passato. Negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, queste mura scoppiavano di salute, gente e confusione: accoglievano le famiglie in fuga da Nord Africa, Medioriente, ebrei giunti da Libia, Marocco e Libano, da Siria, Turchia, Egitto, Grecia. All’epoca della Grande fuga, negli anni tra il 1946 e il 1975, nessuno perse troppo tempo a piangere lungo i fiumi di Babilonia, né ad appendere cetre alle fronde dei salici. Prese armi e bagagli, abbandonate le case e i mobili, – dalla Hara di Tripoli al Wadi Abu Jamil di Beirut al quartiere di Jamilie ad Aleppo -, in tanti sarebbero balzati su navi o aerei, per raggiungere zii o cugini già inurbati a Milano. Le famiglie Meghnagi, gli Abravanel, i Balassiano, gli Hazan, gli Hafez, gli Uziel, i Blanga, i Shammah (la lista rischierebbe di essere lunghissima), affollarono a tal punto questa sinagoga che si era dovuto addirittura sfondare il muro della adiacente sala delle feste (oggi sala Jarach) e installare dei pannelli scorrevoli per ingrandire l’ambiente. A quel tempo, le signore, nel matroneo, dovevano arrivare presto per trovare un posto a sedere. I bambini, a decine, correvano caricati a molla nei corridoi esterni, mentre il vecchio parnas Enriquez li inseguiva nel vano tentativo di farli stare buoni. Madri risplendenti e giovani, dallo stile profumato e un po’ carico delle giovani spose d’oriente -, si godevano la fitta chiacchiera del sabato e non c’era figlio, per quanto piccolo e piangente, che potesse rubare loro quel momento di piacere e socialità.
Oggi, queste mura riflettono le ombre e l’animazione di un tempo; gli habituèes si godono la pace dello Shabbat, immergendosi, adesso come ieri, nella melodia orientale e nella dizione dei teamim alla maniera di Beirut o Damasco, in memoria della voce del hazan Marco Telio z.l. o di Rav Yeshuà Haddad z.l., quando pregavano alzandosi sulla Tevà, con quell’accento tremolante capace di rievocare, in un sussulto di emozione e dolcezza, l’infanzia di tutti.

Da sempre, la preghiera è una forma di meditazione collettiva e individuale, il tempio un luogo dove canalizzare energie spirituali in modo condiviso e potenziato. Ogni tempio è un luogo di lode, ringraziamento e richiesta, ma anche di ricordo e di pentimento. La liturgia ebraica, tra le più complesse e articolate che esistano, prevede e codifica tutti questi momenti. Ci sono istanti in cui la forza della concentrazione, la densità delle speranze e delle aspirazioni sono così forti da diventare quasi solide, tridimensionali. Accade anche qui, in questo Oratorio leggendario della Milano ebraica e delle sue migrazioni, testimone dell’ondata mediorientale di ebrei che lasciarono millenarie terre d’origine per approdare qui nel Dopoguerra. Un teatro di ricordi, di ringraziamento, di pentimenti, si diceva. Richieste a volte anche esaudite. “Lev nishbar ve-nidkè Elohim lo tibzè”. «Un cuore spezzato e stritolato, Signore, non disprezzerai», scriveva il salmista. È quello che si chiama l’Avodà she-ba balev, il culto del cuore. Come nel caso della signora Coen. Lei qui ci è venuta per anni a invocare un matrimonio “kasher” per l’unico figlio maschio, ormai 48enne, che non smetteva di perder tempo tra happy hour con amici e disinvolte ragazze milanesi di bell’aspetto. Qualcuno lassù ascoltò, qualcun altro si adoperò per combinare un incontro solo apparentemente “casuale”, e arrivò finalmente la ragazza giusta, con annesso matrimonio sotto la chuppà e rottura del bicchiere. C’è ancora la storia di Monsieur Tarrab, detto Mussi (i nomi sono d’invenzione), venuto da Damasco, mai diventato veramente ricco ma accomodato in una placida agiatezza («Non darmi troppo, ti prego, non darmi poco; dammi solo il giusto», pregava sempre, e così era stato). Ma una mattina, il fisco, che evidentemente la pensava diversamente, decise di bussare alla sua porta. Un anno di Tributaria piazzata in ufficio, un incubo; fatto sta che per mesi, prima del matrimonio dell’unica figlia, aveva supplicato che i suoi conti correnti fossero sbloccati onde poter pagare la festa. Poi, qualcosa era accaduto, il denaro era stato liberato giusto in tempo, festa, catering, vestito e mutuo, tutto poteva essere pagato. C’è anche la storia di Madame Saltiel che con indefettibile devozione, ci fosse il sole, vento o pioggia, la si vedeva qui tutti gli Shabbat dei suoi 85 anni di vita. Negli ultimi tempi lasciava trasparire una richiesta silenziosa: che il più giovane dei suoi figli, divenuto rabbino, potesse finalmente avere una sinagoga tutta sua. Non fece in tempo a vederla, ma oggi suo figlio dà vita a un tempio pieno di luce, di gente, di bambini. Dice la Signora Anna: «Vengo da tre mesi, tutti i sabati. Mi trovo bene, posso pregare senza distrazioni, posso concentrarmi, seguire bene la lettura della Torà, e dare forza a me stessa e a ciò che il mio cuore chiede. Che cosa chiede? Una guarigione, per una persona cara. Un giorno, conoscendo la mia difficile situazione, qualcuno mi suggerì di venire qui, in questo luogo. Eccomi qua, sono venuta; la chiamano la sinagoga dei miracoli, non lo sapeva?»