«Come manna dal cielo»: l’etica del cibo

di David Piazza

Cibo etico e sostenibile, che vieta lo spreco, l’accumulo, la rendita: la metafora della manna, il nutrimento del deserto (e del cambiamento), ci racconta il nostro limite, i nostri bisogni e una “giustizia alimentare”

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(English text at the bottom)

Dopo un mese di incredibili miracoli che lo avevano trascinato dalla schiavitù alla libertà. Dopo il Mar Rosso che aveva inghiottito gli aguzzini d’ieri. Dopo l’acqua di Marà e poi delle fonti di Elìm, la massa di persone uscita dall’Egitto affronta il terribile e sterminato deserto di Sìn. Le lamentele si fanno più forti e si arriva quasi alla bestemmia: “Magari fossimo rimasti in Egitto dove c’era carne e pane in abbondanza!”. Ed ecco l’ennesimo colpo di scena, questa volta però destinato a durare nel tempo fino all’arrivo in Terra promessa: la manna.
«…Ecco Io farò piovere per voi un nutrimento dal cielo, il popolo andrà a raccoglierne giorno per giorno quanto gli è necessario, in tal modo Io potrò sperimentarlo se egli vuole ubbidire alla Mia legge o no. Ma nel sesto giorno della settimana, quando prepareranno ciò che avranno portato dal campo, si troverà doppia razione del raccolto giornaliero». (Es. 16, 4-5)
Sono questi i versetti che introducono l’arrivo della manna, il cibo miracoloso che sosterrà la scomposta folla degli ex-schiavi fuggiaschi e senza legge che deve ancora diventare Popolo. E’ la folla che ha vissuto centinaia d’anni nella terra dove vige la più crudele tra le leggi della natura, «Cavallo e cavaliere» (Es. 15, 1), quando cioè il forte prevarica sul debole e, peggio ancora, ogni debole ha sempre qualcuno più debole su cui rifarsi.
Però il lungo e faticoso corso d’aggiornamento nel deserto, prima ancora che con la promulgazione delle regole sul Sinài, inizia con la distribuzione di un cibo gratuito e particolare. Un’etica che sembra passare prima dallo stomaco e dal bisogno e poi dalla testa e dai Comandamenti. Un’etica che stabilisce le regole per chi fa parte di una specie di club.
Prima regola del Club: la manna cade ogni giorno. Esiste un Dio (anche se non lo vediamo) che regola il mondo e soprattutto sostiene i deboli e i bisognosi. Senza differenze. Senza razioni o tessere annonarie. Nella ricchezza e nella povertà. D’estate e d’inverno. Tuttavia, racconta il Midràsh, anche nella sua gratuità universale, la manna qualche piccola distinzione la faceva. Cadeva alle porte della tenda dei Giusti e cadeva invece più lontano per quelli che tanto giusti non erano e che quindi dovevano faticare un po’ di più. Perché dopo l’odio gratuito e indistinto subìto in Egitto si cominciasse a immaginare un mondo dove fare il Bene non solo fosse cosa buona e giusta, ma anche conveniente.
Seconda regola del Club: la manna si può raccogliere solo per quanto è necessario. Quanto necessario per chi mangia tanto, e quanto è necessario per chi mangia poco. È vietato l’accumulo, il mercato nero, la rendita, perché ogni grammo in più di quel “necessario relativo” e diverso per ciascuno, marcisce. È un cibo etico e sostenibile perché vieta lo spreco, quindi ne va assaporata ogni briciola perché fino al giorno dopo non ce ne sarà altro. Nel Talmùd (TB Yomà 75b) si fa un gioco di parole col versetto dei Salmi (78, 25) dove la manna viene chiamata “pane degli angeli”. Non dovremmo leggere “angeli” (avirìm) ma piuttosto “membra” (evarìm), perché era un cibo miracoloso che veniva completamente assorbito dalle membra del corpo. 40 anni nel deserto senza bisogni del corpo, secondo il Midràsh. 100% nutrimento, 0% scarto.
Terza regola del Club: solo una volta a settimana, prima dello shabbàt, la manna non solo cade in misura doppia del “necessario relativo”, ma stranamente deve essere cucinata e conservata per un altro giorno, contravvenendo la seconda regola. E non cade affatto nel settimo giorno, contravvenendo anche la prima regola. Già verso la fine della schiavitù in Egitto, secondo il Midràsh, gli ebrei avevano conosciuto lo shabbàt. Ma allora era solo servito ad alleviare le sofferenze. Non avevano capito la potenza eticamente rivoluzionaria di un giorno che stabiliva che soltanto in un mondo dove c’è un solo Padrone supremo che ordina di fermarsi, non possono esistere altri padroni capaci di decidere della vita e della morte di altri uomini, loro simili. Ed è proprio in ricordo di questa “doppia porzione” nel deserto, che gli ebrei di tutto il mondo, da migliaia di anni, mettono sulla tavola dello shabbàt una doppia porzione di pane. Ora però, proprio quando stavamo pensando che la manna fosse solo l’espressione peculiare di una folla disordinata che stava diventando un Popolo, il commentatore Rashì (cfr. Es. 16, 21) ci spiega che anche la manna non raccolta non andava sprecata. Diventando liquida veniva consumata dagli animali e quando questi animali venivano a loro volta consumati dai popoli della Terra, questi diventavano beneficiari del cibo miracoloso. Una perfetta catena alimentare etica, quindi, dove il particolarismo riesce a diventare universalismo e dove anche gli scarti assumono una dignità prima sconosciuta.
Tuttavia anche i Maestri del Talmùd (TB Yomà 74b), si rendevano conto che la manna era sì un cibo ideale, ma che doveva necessariamente rimanere confinato all’esperienza del deserto. Un percorso, ricordiamo, che nel “Piano A” doveva durare poche settimane e invece si protrasse in un “Piano B” per altri 40 anni dopo l’episodio, dalle conseguenze catastrofiche, degli esploratori.
«Rabbì Amì e rabbì Assì discutevano. Uno diceva: chi ha da mangiare in tasca non è simile a chi non ha da mangiare in tasca. L’altro diceva: Chi vede e mangia non è simile a chi non vede e mangia».
I due Maestri ci stanno spiegando tutta la misura dell’abisso che divide l’alimentazione animale e “naturale” da quella umana e “culturale”. Per il primo, la manna era sì un cibo miracoloso dispensato dall’Alto, giorno dopo giorno, ma dobbiamo capire che anche la fede ha un costo pesante. È la terribile filosofia del “frigorifero vuoto”, come spiega rav Mordekhai Elon. L’uomo, a differenza degli animali che campano alla giornata, oltre a mangiare qui e ora, ha assoluto bisogno di poter programmare che cosa mangerà in futuro.
Il secondo Maestro pone invece l’accento su un’altra lezione che può insegnare anche a noi, oggi, la metafora della manna. Questa, infatti, assumeva miracolosamente il sapore di quello che si aveva desiderio di mangiare quel giorno. Voglia di pollo arrosto? La manna profumava di pollo arrosto. Voglia di cuscus? La manna aveva il sapore di cuscus. Tuttavia, visivamente, era sempre la stessa solita manna. Ogni giorno lo stesso aspetto. L’uomo però, a differenza degli animali, non mangia solo con la bocca, ma mangia anche con gli occhi. Lo sanno bene anche i grandi chef che sanno stuzzicare non solo il palato, ma anche il senso estetico dei loro clienti. Se ne è accorta la NASA quando ha dovuto inventare il cibo per gli astronauti. Aggiunge infatti ancora il Talmùd: «Dicevano i Maestri: In futuro ognuno dovrà rendere conto per ogni cosa che i suoi occhi hanno visto e che non ha mangiato.» (TY Kiddushin 4:9, 66d)
Ma è soprattutto nei limiti della manna che risiede un profondo senso etico. L’uomo dovrebbe sempre sentirsi avviato verso una prospettiva di crescita. Deve saper porsi dei limiti, ma saper sempre guardare responsabilmente al futuro. La manna è un sussidio assistenziale divino, ma è solo una preparazione alla vita vera che la folla di ebrei fuggitivi, diventata ormai Popolo, dovrà affrontare una volta giunta nella Terra promessa. La manna, che è stata un cibo non-cibo per un popolo non-popolo, in un luogo non-luogo (il deserto), finirà infatti esattamente quando il “vero” popolo ebraico, sotto la guida di Giosuè, attraverserà il Giordano per entrare nella “vera” Terra.

 

Like manna from Heaven: the ethics of food

Following a month of amazing miracles that had liberated them from slavery to freedom, the Jewish people escaped Egypt only to face the terrible and endless Sinai Desert. Yet again another miracle happened: the showering of manna from heaven. The prodigious food was used by the Jewish folk according to three main rules.

First rule. Manna falls every day. There is a God, even though we cannot see him, that rules the world and that especially helping the weak and the needy, without reservation. However, even if it was a gift, this food made some distinctions between its recipients. It fell next to the tents of the righteous but further for the less righteous of men because it was clear that to act in a good way is not only just, but also appropriate.

Second rule. One collects only the manna that is necessary for ones sustenance. It is forbidden to horde or sale it on the black market because every extra unnecessary gram will rot. It is an ethical and sustainable food because it forbids waste. For this reason we must savor it, eating every single crumb, because there will not be more until tomorrow.

Third rule. Once a week, only, just before Shabbat, double the Manna will fall, but oddly it also must be cooked and kept for the following day contradicting the second rule. It doesn’t fall at all on the seventh day, also breaking the first rule.

Manna is a divine sustenance, but it is only a preparation for “real life” – that the Jewish people, now having escaped Egypt, are coming into their own right – becoming one people who will face a new Promised Land.

Manna, which was a “non-food” food for “non people” people in a “non-place” (the desert) will end exactly when the “real” Jewish people, now under the leadership of Joshua, cross into the Jordan to enter the “real” Earth.

(trad. Roberto  Zadik)