Di che cosa parliamo quando parliamo di nuovo populismo?

Opinioni

di Claudio Vercelli

Di paura, di angoscia e di un pericoloso azzardo politico

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Il linguaggio di senso ed uso comune è spesso stiracchiato. L’uso ripetuto, a volte senza cautele, di certe parole, ne depotenzia il loro significato, facendogli perdere aderenza con la realtà. Così con il ricorso, a volte ossessivo, ad espressioni come «popolo». Come ai suoi derivati. Per definire un ampio spettro di forze politiche, in Italia, in Europa, in diversi paesi del mondo, si parla infatti di «populismo». Non da oggi. Tuttavia, in questi ultimi anni è diventato un termine inflazionato. Non tutto il populismo viene necessariamente per nuocere. Un esempio, tra i tanti, è quello che rimanda alla Presidenza di Franklin Delano Roosevelt la quale, per l’accentramento decisionale che la caratterizzava, per il costante richiamo al consenso popolare, le continue conflittualità con i poteri federali, insieme ad un più generale stile d’azione e di pensiero, da alcuni politologi e storici è stata annoverata – per l’appunto – tra le espressioni del populismo novecentesco. Con un’accezione positiva, poiché Roosevelt fu una figura decisiva nell’affrontare la Grande depressione nella quale erano caduti gli Stati Uniti negli anni Trenta del secolo scorso.
Oggi il populismo si presenta come un discorso contro agli assetti e agli equilibri emersi con la globalizzazione sociale ed economica. La sua forza sta non solo nel cavalcare disagi e malumori ma nel dichiarare di volere riconoscere una legittimazione alla moltitudine di persone che appella e mobilita in quanto «popolo sovrano», contrapponendolo alle élite, colpevoli di nutrire indifferenza, se non ostilità, verso i suoi interessi.

Alle tendenze oligarchiche, presenti nelle nostre società come nell’Unione europea, che affidano le decisioni più importanti a gruppi di interesse e poteri ristretti, si contrappone quindi una concezione giacobina della rappresentanza politica, quella della cosiddetta «democrazia diretta», basata sul legame immediato, passionale, umorale tra il leader onnisciente e la massa dei suoi sostenitori. I nessi tra ciò che chiamiamo «crisi economica», declino delle sovranità nazionali e impoverimento del ceto medio costituiscono una miscela fenomenale, che alimenta con forza e costanza questo processo.

Per una parte crescente di cittadini, che si sentono messi ai margini e quindi spiazzati dai cambiamenti in corso, quel che conta è recuperare un orizzonte dentro il quale sperare di avere ancora uno spazio di protesta e di rappresentanza. Il meccanismo populista raccoglie tale bisogno e lo tramuta, all’intero di un sistema politico che sempre più spesso dà voce e campo alla spettacolarizzazione, in una vera e propria “messa in scena”, quella del popolo arrabbiato che rivendica il repentino capovolgimento dei rapporti di forza.

Il populismo contemporaneo nega alla radice la complessità delle nostre società. La sua logica è infatti rigorosamente binaria: sì o no, giusto o sbagliato, vero o falso e così via, raccogliendo facilmente un buon seguito tra quanti si sentono minacciati da quelle trasformazioni della loro vita di cui subiscono gli effetti ma sulle quali non possono incidere in alcun modo. Dà così rilievo al senso di alienazione, di marginalità e di espropriazione che attraversa le nostre società. Molto spesso, tuttavia, ciò che sta alla sua base non è un processo razionale bensì un’identificazione emotiva. Il problema qual è, il più delle volte? Il fatto che dietro questi atteggiamenti vi sia la paura. Quella di non avere un domani. Il radicalismo populista riempie questo vuoto, dà forma e sostanza alle angosce collettive, le guida verso obiettivi mirati, ossia capri espiatori, ridisegna l’orizzonte introducendovi promesse, speranze così come invettive e proscrizioni. In questo, per più aspetti, è ciò che resta della politica dopo la sua stessa consunzione a promessa illusoria. Rischiando, però, di rivelarsi a sua volta un azzardo.