Al Conservatorio di Milano un grande Shlomo Mintz

Spettacolo

C’è qualcosa che va oltre ogni possibile apprezzamento artistico, nello straordinario concerto che il violinista israeliano Shlomo Mintz ha regalato al pubblico milanese nella sala grande del Conservatorio Giuseppe Verdi. L’esecuzione di quello che ormai è considerato unanimemente il leader dei grandi violinisti dei nostri tempi è stata indimenticabile e ha tenuto il pubblico della Società del Quartetto (la sala era gremita) con il fiato sospeso dalla prima nota della Sonata di Mozart in programma alla struggente conclusione dell’ultima composizione di Sostakovic, quella mitica sonata per viola e pianoforte conclusa alla vigilia della morte del grande compositore russo ed eseguita per la prima volta a Leningrado nel 1975 all’indomani della sua scomparsa.
Tutto il mordente della grande musica salisburghese, tutto il testamento della grande musica del ‘900 in un solo archetto, quello di un violinista come Mintz che in questo percorso faticoso, intenso non ha esitato, poco prima dell’intervallo, a fare una visitina a Beethoven per un piccolo fuori programma prezioso e fulminante, elargito senza farsi pregare a un pubblico estasiato.
Ma al di là delle abilità musicali di Mintz (straordinario anche l’apporto della pianista ungherese Adrienne Krausz), largamente riconosciute sulle scene di tutto il mondo, c’è un qualcosa di tipicamente israeliano nelle maniere semplici e dirette di questo artista, che è nato a Mosca, ha fatto l’Alià con la sua famiglia ad appena due ani e da allora non ha mai smesso di percorrere le vie del mondo.
La sua fedeltà agli ideali puri, semplici, concreti, continua a fondersi con la capacità di destreggiarsi con gli esempi più complessi che la nostra cultura contemporanea ha elaborato. La Sonata per viola di Sostakovic ne costituisce un esempio, come compendio in tutti i suoi tre movimenti forse insuperato di citazioni, di rielaborazioni, di riflessioni e di vertiginose difficoltà tecniche.
E c’è qualcosa di tipicamente israeliano nella capacità di passare con naturalezza dell’estremamente semplice all’estremamente complesso, dai palcoscenici dove si affrontano gli spettatori più esigenti al campo del kibbutz. Lo stesso campo del kibbutz Eilon dove Mintz, estate dopo estate, incurante degli altalenanti flussi turistici che in questi anni per paura delle tensioni mediorientali hanno lasciato Israele ingiustamente al margine, continua a chiamare giovani da tutti i continenti. E a insegnare la cosa più semplice e più difficile del mondo: che complessità e trasparenza, arte e natura, creazione e impegno sociale, Israele e le alte genti, possono coesistere e contribuire a rendere migliore la nostra vita su questa terra.

Guido Vitale (direttore@mosaico-cem.it)

Shlomo Mintz

Nato a Mosca nel 1957 e emigrato con la famiglia in Israele due anni dopo, Shlomo Mintz ha debuttato a undici anni con la Israel Philharmonic e a sedici alla Canergie Hall di New York. Ha iniziato gli studi con Ilona Feher in Israele, proseguendoli grazie all’aiuto della American Israel Cultural Foundation, alla Juilliard School di New York con Dorothy Delay e Isaac Stern.
Considerato uno dei maggiori violinisti del nostro tempo, è ospite regolare delle istituzioni musicali di tutto il mondo anche in qualità di violista e direttore d’orchestra.
Nel 2000 è stato in tournée, nella duplice veste di direttore e solista, con la Brabant Orchestra, con l’Orchestra de Euskadi in Spagna e in Giappone con la Kioi Orchestra. Ha inoltre diretto la Royal Philharmonic Orchestra, NHK Symphony Orchestra e l’Israel Philharmonic Orchestra.
Nel 2001 è stato protagonista di una serie di concerti in Portogallo, Italia, Belgio, Olanda e negli Stati Uniti con la St. Louis Orchestra.
Appassionato camerista suona in trio con il pianista Itamar Golan e il violoncellista Matt Haimovitz. Dal 1989 al 1993 è stato direttore musicale della Israel Chamber Orchestra con la quale ha registrato i Concerti per violino di Vivaldi. Dal 1994 al 1998 è stato consulente artistico e direttore ospite principale della Maastricht Symphony Orchestra; con questo ensemble è stato protagonista di un concerto eseguito con il violino appartenuto a Niccolò Paganini.

Shlomo Mintz è patrono e tra i fondatori del Keshet Eilon International Violin Mastercourse in Israele, un programma estivo per giovani violinisti di talento che da tutto il mondo convergono a Kibbutz Eilon. Tiene inoltre master class in tutto il mondo. È stato membro di importanti concorsi internazionali quali Cajkovskij di Mosca (1993), Queen Elisabeth di Bruxelles (1993 e 2001). Nell’ottobre 2001 è stato presidente di giuria al concorso Wieniawski di Poznan in Polonia.
Dal 2002 è direttore artistico del Sion Valais International Music Festival e presidente di giuria al Sion Valais International Violin Competition in Svizzera. Nel 1984 gli è stato assegnato il premio dell’Accademia Musicale Chigiana di Siena; ha inoltre meritato il Diapason d’Or e, in campo discografico, il Grand Prix du Disque, Gramophone Award e Edison Award. Nel 2005 sono stati pubblicati i concerti di Mozart incisi con la English Chamber Orchestra con la quale è stato protagonista di una lunga tournée europea, e ha inciso le sonate di Brahms con Itamar Golan. Suona un Guarnieri del Gesù ed una viola Carlo-Giuseppe Testore del 1696.

Wolfgang Amadeus Mozart
(Salisburgo 1756 – Vienna 1791)
Sonata in si bemolle maggiore K 378
per violino e pianoforte
Sonata in la maggiore K 526
per violino e pianoforte

Dmitrij Sostakovic
(San Pietroburgo 1906 – Mosca 1975)
Sonata op. 147
per viola e pianoforte

Wolfgang Amadeus Mozart
Sonata in si bemolle maggiore
K 378 per violino e pianoforte

Mozart scrisse molte sonate per violino e pianoforte. Sono più di quaranta se si includono alcuni lavori di dubbia autenticità o rimasti allo stato di frammento incompiuto. Sono distribuite nel tempo in modo regolare, dal primo periodo creativo (1762, età di sei anni) fino alla maturità (1788, tre anni prima della morte).
Registrano molto bene il mutamento dello stile e la trasformazione del genere.
Con i suoi lavori giovanili, Mozart entra in un momento di importanti cambiamenti. Sta scomparendo la grande scuola del Settecento barocco, con ruolo preminente al violino ma con un cembalo dalle funzioni concertanti e non solo accompagnanti.
È il modello di Johann Sebastian Bach, applicato per buona parte del Settecento, anche nelle varianti “galanti” dei suoi figli e relativi seguaci. Ai tempi di Mozart, i ruoli solistici si invertono. Il cembalo, o il suo perfezionato successore fortepiano, finiscono col prevalere. Lo strumento melodico (violino, flauto) scivola in un ruolo sempre più subordinato, talvolta perfino ad libitum. È il caso di molte sonate di Johann Christian Bach, il figlio minore di Bach, al quale fa riferimento
anche il giovane Mozart quando per la prima volta si avvicina al genere.
Più tardi il linguaggio di Mozart si evolve, il rapporto fra violino e pianoforte si riequilibra. Nascono le sonate della prima maturità, quelle scritte durante l’infelice soggiorno parigino del 1778 (K 296, 301, 302, 303, 305). Non è molto diverso, solo più evoluto, lo stile delle cinque sonate (K 376, 377, 378, 379, 380) che Mozart scrive negli ultimi mesi prestati al servizio del principe arcivescovo di Salisburgo,
prima cioè di abbandonarne la corte per fare il libero artista a Vienna, ricevendo come compenso un calcio nel sedere sferrato (si dice) dall’intendente, conte Arco.
Il programma di stasera inizia appunto con uno di questi lavori, che ben rappresenta una fase importante della produzione violinistica di Mozart. La Sonata in si bemolle maggiore K 378 è anzi la prima della cinquina, composta nei primi giorni del 1779, appena rientrato a Salisburgo da Parigi. È una delle più popolari in assoluto, grazie alla ricchezza delle melodie e alla straordinaria (per il tempo) fantasia armonica. Il primo tempo ha non meno di quattro temi differenti, intrecciati fra loro con assoluta perfezione tecnica, evitando contrasti drammatici e trovando incredibili eufonie fra le corde sfiorate del violino e quelle percosse del pianoforte (anzi fortepiano). Tutto fiorito di dialoghi fra strumenti paritetici è il sognante secondo movimento, uno dei più belli mai scritti da Mozart prima della grande maturità viennese. Infine, il “Rondò” chiude all’insegna del virtuosismo esecutivo e della gioia di fare musica insieme, con un gusto concertante che bene riassume lo spirito vero della grande età galante, nel momento in cui irrompe il classicismo preromantico.

Wolfgang Amadeus Mozart
Sonata in la maggiore K 526
per violino e pianoforte

Con il trasferimento a Vienna, Mozart entra nel terzo e ultimo decennio creativo. Coglie il senso degli esperimenti di Haydn nella formulazione di un nuovo principio costruttivo (la “forma sonata”) e giunge a un modello di sonata per violino e pianoforte che rappresenta il vertice di tutta un’epoca artistica, segna il passaggio dal Classicismo musicale di fine Settecento al nascente Romanticismo dell’Ottocento. Dopo le ultime sonate di Mozart, l’esperienza di Beethoven viene naturale (anche se le sue prime sonate presentano ancora la dicitura per “pianoforte con accompagnamento di violino”). Non sono tante, queste ultime sonate.
Abbiamo appena ascoltato un assaggio della serie (K 376-380) che in parte coincide con l’arrivo a Vienna nella primavera del 1781. Seguono un preludio e fuga alla maniera bachiana camuffati da sonata (K 402) e infine i tre ultimi capolavori, composti in momenti separati e senza altro obiettivo che la realizzazione di nuova musica. Solo la prima sonata della terna (K 454) fu scritta su commissione della concertista virtuosa Regina Strinasacchi; anzi la parte pianistica fu improvvisata da Mozart durante la prima esecuzione, il 29 aprile 1784 e fissata su carta solo
qualche tempo dopo. Le altre due vennero alla luce senza apparente motivo contingente. Nella Sonata K 526 che ascolteremo, e che forse è anche la più amata della terna, la raggiunta equivalenza fra i due strumenti trova addirittura un “manifesto” nell’attacco
del primo movimento: il tema principale è esposto in simultanea da violino e pianoforte. I dialoghi della sezione di sviluppo – poi – finiscono col riportare in pari una bilancia che, nell’esposizione, era stata un po’ favorevole al pianoforte.
L’ampio movimento centrale è perfetto nell’alternare ogni idea musicale fra i due strumenti. A sua volta, il “Presto” finale concede spazi generosi allo scintillante virtuosismo di entrambi. C’è insomma un’idea precisa, oltre che nuova, delle risorse tecniche di questa combinazione strumentale. Chi verrà dopo ne terrà il dovuto conto. Beethoven trasformerà il dialogo in contrasto. I romantici svilupperanno armonie e tecniche. Ma il modello mozartiano non sarà mai messo in discussione. Per sapere di più sui tempi e luoghi della Sonata K 526 leggiamo
Wolfgang Hildesheimer: «L’ultima composizione scritta prima della fine del Don Giovanni, probabilmente l’ultima interruzione alla sua stesura, fu la Sonata per pianoforte e violino in la maggiore (K 526, 24 agosto 1787), sulla cui origine sappiamo
tanto poco quanto sulla sua destinazione. Un incarico? Ma per chi? A noi dà l’impressione di una pausa di respiro, un attimo di introversione prima del grande spettacolo del Don Giovanni, del quale non c’è alcuna anticipazione, nonostante la tonalità vicina. Dal Don Giovanni anzi pare condurre ancora una volta
decisamente lontano. Persino il passaggio in re minore dell’“Andante” in re maggiore ci sembra un re minore differente da quello del Mozart che ha scritto la sonata per se stesso. Il Don Giovanni era ancora ben lontano dalla conclusione, il viaggio a Praga imminente, la situazione economica precaria. Abbiamo prove
sufficienti per ritenere che Mozart appartenesse a coloro che un eccesso di lavoro stimola al lavoro, a tal punto che accettano di buon grado di caricarsi di ulteriori incombenze. Ma forse le cose erano diverse, forse solo un qualche violinista aveva bisogno di un buon pezzo per la sua accademia, magari per il prossimo giovedì, e gli ha chiesto: “Ehi, Mozart, non potresti…?”. E Mozart poteva. Che questo stupendo brano sia diventato una delle sue sonate più significative non esclude che sia stato composto nel giro di poche ore, per pura cortesia».

Dmitrij Sostakovic
Sonata op. 147
per viola e pianoforte

La Sonata op. 147 è l’ultimo lavoro in assoluto completato da Sostakovic, fra 10 giugno e 5 luglio 1975, poco più di un mese prima del fatale attacco respiratorio dovuto ai polmoni malati che arrestò un cuore provato da tanti anni di complicazioni
fisiche e morali. Col senno di poi, questa Sonata può davvero essere letta come testamento musicale di Sostakovic. Lo autorizza non solo il carattere sobrio, grave, malinconico della scrittura, che in altre circostanze si potrebbe correlare
al suono proprio dello strumento viola. Sono le tante citazioni dirette di precedenti lavori propri e altrui disseminate in questa partitura che fanno pensare al riepilogo di un’intera esperienza artistica e umana. Il primo movimento è un lungo dialogo interiore, condotto in modo quasi indipendente da pianoforte e
viola. I punti d’incontro fra gli strumenti sono minimi, talvolta solo casuali, il dialogo è quasi inesistente, le sovrapposizioni sono rare. È la componente sperimentale di Sostakovic che si esprime in questo “Moderato”, ripartendo dalla
matrice originaria “russa” così come era stata definita dall’amatissimo Musorgskij. Nel secondo tempo, “Allegretto”, ricompare quel motorismo stralunato e parodistico condito di fulminanti invenzioni timbriche che è l’altra componente
essenziale del linguaggio di Sostakovic. È quasi ritorno, però beffardo e sarcastico, non malinconico, ai mitici anni Trenta, quando tutto sembrava permesso
allo straordinario talento musicale del ventenne musicista, prima che la scure della censura staliniana calasse violenta a determinare i percorsi artistici successivi. Fra i tanti segmenti melodici e ritmici che percorrono questo “Allegretto” compare una citazione della propria opera I giocatori (1941, da Gogol, incompiuta) e non mancano omaggi (e ironie) per i mostri sacri della musica d’avanguardia di quegli anni, con Prokof ’ev e Stravinskij in prima fila. La maggiore concentrazione di “ricordi” si ha, non a caso, nel finale. Alla tredicesima battuta ecco Beethoven, con il pianoforte di Sostakovic che ricorda a lungo la
Sonata “Al chiaro di luna”. Poco dopo ecco qualche accordo della beethoveniana Quinta sinfonia. Poi ancora frammenti del Concerto per violino di Alban Berg, passaggi della Quarta sinfonia di C?ajkovskij, melodie di Rachmaninov, armonie di Wagner. E citazioni di tanti lavori propri, dalla giovanile opera Il naso fino al Tredicesimo quartetto per archi. Ciascuno di questi frammenti passa con dolcezza e scalda col tepore della riconoscenza un percorso musicale che ha tutti i brividi
e i pallori di un crepuscolo invernale. Una lunga cadenza del solista confonde definitivamente ogni percorso. Il cammino riprende solo per consentire un ultimo sguardo al passato, a un tempo commosso e sarcastico. La Sonata è dedicata
a Fiodor Drujinin, violista del Quartetto Beethoven di Mosca, cui Sostakovic telefonò il 25 giugno 1975 dalla sua dacia vicino a Mosca per informarlo che stava componendo una nuova sonata per viola e chiedergli alcuni suggerimenti di tecnica
esecutiva. I due si sentirono ancora il 4 luglio seguente e da allora in poi il violista si mise allo studio del difficile spartito nella speranza di farne udire il suono al compositore. Non fece in tempo. S?ostakovic? spirò il 9 agosto. Fu
Drujinin, con il pianista Mikhail Muntian, ad eseguire la Sonata per la prima volta in pubblico, il primo ottobre 1975, a Leningrado.

Enzo Beacco

Il ritorno di Shlomo Mintz: violino e viola, passione e perfezione

È saggio che un’associazione musicale ospiti con regolarità alcuni artisti. Il mondo della musica trae alimento dalla ricca e variopinta schiera di personaggi che calcano le scene, ma il pubblico ha piacere di trovare ogni tanto un punto di riferimento sicuro, per non rimanere frastornato nel chiassoso moltiplicarsi di esperienze e stili. Molte persone, tra coloro che frequentano le sale da concerto, hanno provato senza dubbio un piacere mescolato a una leggera commozione nel riascoltare un musicista con il quale si è cresciuti. Il tempo, trasformando il corpo e la personalità dell’artista come ha fatto con noi, rende il ritorno un evento più vivo e sentito, come se l’ascoltatore fosse ansioso di scrutare nel personaggio che gli sta di fronte il modo in cui le cose sono cambiate e quali segni ha lasciato il loro passaggio. Shlomo Mintz suonò la prima volta al Quartetto nel 1983. Era poco più che un ragazzo, armato della tenera spavalderia di una mano infallibile e di un suono già velato da una patina di malinconia. Tutto, nel suo modo di esibirsi, dimostrava energia e una felicità immediata di suonare. Anche la bella testa bionda, con la svettante banana di capelli spessi come fili d’oro, pareva un cappello agitato con forza, per salutare il mondo. Mintz arrivava preceduto dalla fama di una registrazione dei 24 Capricci di Paganini che era sufficiente, anche dimenticando i 17 anni dell’esecutore, a procurargli dappertutto un’accoglienza con pifferi e tamburi. Si attendevano da lui le meraviglie e Shlomo puntualmente teneva fede alle promesse procurando soddisfazioni violinistiche di prim’ordine, sicuro, impeccabile e generoso.

Nel corso degli anni il suo violino ha cominciato a cantare anche storie di genere diverso, più serie, intime e avvolte da una nostalgia di cui forse solo lui conosceva la ragione. Il pubblico del Quartetto imparava poco a poco a conoscere un uomo diverso, più sensibile al dettaglio e attento alle ansietà della vita. Basta con Paganini, basta con il violinismo da funamboli, basta con il repertorio per accattivare la folla. Per Mintz era arrivato il tempo della riflessione, del desiderio di scavare nell’umanità di un brano musicale per trovare, da bravo talmudista, una perla di saggezza. Poco a poco il baricentro dei suoi interessi si è spostato in direzione di Mozart, com’era avvenuto anni prima per Isaac Stern, l’autentico maestro spirituale di Mintz. Scomparso il grande patriarca della musica degli ebrei americani, Mintz ha forse sentito il dovere di non lasciar cadere nel silenzio quel dialogo cordiale, caldo e profondo che Stern aveva intessuto, nell’ultima fase della sua vita, con il più inafferrabile degli autori classici.
Questa volta sarebbe proprio il caso di considerare quanto sia diventata importante per Mintz la dimensione cameristica. Il pianoforte di Dmitri Alexeev, dotato di grazia e rapidità felina sulla tastiera, è invitato non solo ad alimentare la conversazione con la consueta presenza di spirito e la distaccata eleganza, ma anche a incarnare il carattere più segreto e forse più autentico dei due autori in programma, Mozart e Šostakovi?. Pare che Mozart, eccellente ma recalcitrante violinista, preferisse suonare la viola in quartetto. Meno estroverso era il gesto, più al centro del pensiero musicale si radicava lo strumento, pensava lui. È difficile evitare la tentazione di trovare una somiglianza tra quest’attitudine di Mozart e l’amore per la viola di Mintz, soprattutto perché il termine di paragone è costituito da una pagina tanto densa di emozione quanto scevra di luccicanti volgarità come la Sonata per viola di Šostakovi?. In questa musica limpida e rarefatta ogni suono racchiude un pensiero, ogni nota corrisponde a una parola. Šostakovi? amava la vita con la stessa forza che ha animato fino all’ultimo la musica di Mozart, anche quando la morte sembrava rendere il mondo tragico e assurdo. Son cose che Mintz, arrivato alla soglia dei cinquant’anni, racconta meglio oggi di trent’anni fa.

Oreste Bossini