Trent’anni da Entebbe

Trent’anni da Entebbe L’anniversario della spedizione a Entebbe del 4 luglio 1976, missione compiuta per liberare i 100 ostaggi ebrei che si trovavano sull’aereo 139 dell’Air France dirottato dai terroristi, ha coinciso quest’anno con una situazione non proprio sovrapponibile, ma che comunque scuote le coscienze per alcuni risvolti similari.
Si tratta della crisi che vede il giovane caporale israeliano rapito nella Striscia di Gaza. Ma a modo di vedere delle personalità riunite per la sessione commemorativa alla Knesset la posizione di Olmert e il rifiuto di negoziare sono conformi allo spirito di Entebbe: la politica Israele è ferma nel non accettare compromessi col terrorismo o gli assassini.
La vicenda di Entebbe toccò allora un nervo scoperto di ogni ebreo. Quando l’aereo atterrò e i dirottatori cominciarono a separare i passeggeri ebrei dagli altri, non potevano non tornare alla mente quelle altre infami selezioni che avvenivano ad Auschwitz.
Solo che questa volta gli ebrei non erano più soli e impotenti, ora c’era la loro dignità e capacità di difendersi. Uno dei capi della resistenza ebraica del Ghetto di Cracovia che nel 1942 guidò la rivolta disse che la sua disperata battaglia non sarebbe servita se non a guadagnare tre righe in un libro di storia. Anche il raid a Entebbe si meritò la sua menzione sui libri di storia, ma non fu una battaglia perduta: fu piuttosto l’epica impresa di uno Stato ebraico sicuro di sé, determinato soprattutto a salvare ebrei quando e dovunque essi si trovassero in pericolo.
E ora, Israele ha di nuovo scatenato il suo esercito per riportare a casa un soldato. L’impresa di Entebbe tuttavia non solo riempì i cuori di orgoglio e fece sentire “ogni ebreo un dito più alto”, ma mise in luce quella particolare sensibilità che caratterizza le relazioni fra Israele e gli ebrei di tutto il mondo. Se i nemici di Israele non riescono a colpire lo Stato si rivolgono a bersagli più vulnerabili, bersagli ebraici all’estero.
Pensiamo all’attentato del 1994 del gruppo terrorista Hezbollah – verosimilmente con l’appoggio dei servizi di intelligence iraniani – contro il centro AMIA della comunità ebraica di Buenos Aires che provocò la morte di 85 persone. Questo per dire che noi ebrei siamo un tutt’uno.
Il raid di Entebbe fissò anche un alto modello morale e ci ricordò che la forza militare deve essere impiegata solo e soprattutto per salvare vite umane. E ora che gli ebrei sono di nuovo in armi devono essere molto cauti a usare questo loro potere. I mezzi non devono diventare mai un fine. In questa occasione, viene ricordato ancora che gli aerei che riportavano verso la salvezza gli ostaggi liberati avevano a bordo anche la salma di Yoni Netanyahu, fratello dell’ex primo ministro, comandante dell’unità che era caduto durante la missione. Il loro messaggio è che la libertà non si guadagna senza pagare un prezzo.