Storia prima felice poi dolentissima di Lev Semionovich Vygotskij, il “Mozart della Psicologia”

di Antonella Castelnuovo

Perseguitato da Stalin, genio e mito pedagogico del XX secolo, Vygotskij è oggi oggetto di rivisitazione storica grazie alla pubblicazione dei Taccuini, testo da cui emerge la potente impronta ebraica del suo pensiero. Morto poverissimo, a soli
37 anni, aderì alla Rivoluzione Russa senza mai parteciparvi, in nome di una “liberazione” ebraica che non avvenne mai

Per troppo tempo abbiamo letto in modo incompleto e impreciso le opere di Lev Semionovich Vygotskij, psicologo russo tra i grandi del Novecento, soprannominato il “Mozart della psicologia” perché, oltre alla genialità assoluta, morì giovane e fu considerato “un enigma” in quanto la fluidità dei suoi concetti ben si presta a molteplici letture. La storia della sua vita e la circolazione in Occidente delle sue opere si sono intrecciate spesso con lacune e imprecisioni, ma oggi, grazie alla traduzione in inglese dei celebri Taccuini, Vygotskij finalmente si riappropria del vero volto, rimasto fino ad ora invisibile: quello della propria ebraicità. Aspetti questi emersi recentemente da alcune rivisitazioni dell’opera, ma soprattutto grazie alle notazioni più intime recentemente pubblicate in russo grazie a un lavoro certosino di due autori: Ekaterina Zaversneva e Renè van der Veer.
Dalla minuziosa ricostruzione dei suoi Taccuini, emerge oggi con forza il vero motivo per cui la sua teoria cognitiva, originale, rivoluzionaria e quanto mai scomoda, fu ostacolata e repressa dal Partito Comunista Sovietico: ovvero l’inveterato e indebellabile antisemitismo russo. I Taccuini sono finalmente la fonte che ci aiuta a capire l’avventura intellettuale così creativa ma sfortunata di Vygotskij.
Quali furono dunque le sue “colpe”? Nonostante le molte ipotesi formulate, è alla fine nel suo essere ebreo che va ravvisato il “peccato originale”: Vygostkij fu ostacolato e infine messo al bando a causa delle proprie origini. Le molte traduzioni, interpretazioni e travisamenti sul piano letterale e storico ora trovano finalmente una spiegazione, ma c’è voluto quasi un secolo per arrivarci. Dobbiamo essere consapevoli che – come afferma lo studioso Luciano Mecacci – “il mito di Vygotskij era stato costruito su un castello deformato ad arte”. E ciò non stupisce se consideriamo il contesto dove Vygotskij visse e lavorò, la Russia nel periodo della Rivoluzione, dove negli anni a venire il Partito comunista censurò e mise al bando le cosiddette “scienze borghesi”, come ogni altro scritto non in linea con l’ideologia di Stato.
Paradossalmente, l’antisemitismo ci aiuta oggi a ridefinire la figura di Vygotskij: che non è più soltanto, come si pensava finora, il giovane psicologo brillante e sfortunato perseguitato dalla sorte. Vygotskij diventa il paradigma del destino di molti intellettuali ebrei dopo l’emancipazione in Europa, perseguitato e ostracizzato proprio in quanto ebreo illuminato, come Freud e altri, avanguardisti, spiriti liberi percepiti come pericolosi. A ben riflettere, tutta la vita di Vygotskij è stata una lotta per la sopravvivenza, sia fisica che morale, e questo sforzo lo portò ad aderire al Marxismo: fu proprio il Metodo Dialettico a permettergli di conciliare contraddizioni e conflitti, creando sintesi creative che la sua originalità intellettuale trasformò in nuovi orizzonti per la psicologia e per lo sviluppo umano.

IL POGROM DI GOMEL E LA DISILLUSIONE
Con la scoperta dei Taccuini, ripercorrere l’infanzia e la vita ebraica di Vygotskij diventa una tappa obbligata per capire non solo chi fosse veramente, ma soprattutto per approfondire aspetti della sua opera, frutto di una sintesi originale e di una condizione esistenziale di frontiera: Vygotskij si sentiva parte di due mondi, entrambi a lui cari, quello dell’ebraismo e quello della madre Russia che egli ammirava, ma di cui non sentì mai di far parte completamente. Un rifiuto vissuto con dolore. Una disillusione cocente.
All’eta di 8 anni, nella cittadina di Gomel, Vygotskij bambino assistette a un pogrom: in quell’occasione ci furono sei morti, ma sarebbero stati molti di più se gli ebrei non si fossero organizzati in squadre di autodifesa uccidendo alcuni assalitori. Furono 36 i membri della comunità ebraica arrestati dalle autorità russe e messi in carcere; il padre di Vygotskij fu coinvolto come avvocato nella difesa della Comunità, ma l’episodio lasciò il segno. Il giovane Lev aveva capito che, per i russi, gli ebrei non avevano diritto a niente.
Adolescente, la seconda esperienza discriminatoria accadde con l’inibizione, in quanto ebreo, di iscriversi al ginnasio statale russo. Una cocente delusione. Ripiegò sul ginnasio privato ebraico, scelta obbligatoria che offriva ai giovani ebrei una calda atmosfera e un buon livello di insegnamento, ma che certo non rispecchiava le ambizioni di apertura e universalismo a cui era stato abituato Lev. Iniziato agli studi dalla madre Cecilia, un’insegnante in pensione che si dedicò all’istruzione dei suoi 8 figli, fu affiancato da un tutore privato per lo studio del tedesco, francese, greco e latino, oltre che dell’ebraico. Furono anni in cui il giovane Vygotskij esplorò la “questione ebraica” soprattutto dal punto di vista storico e letterario. Il destino del popolo ebraico fu esaminato storicamente attraverso un “gruppo di studio permanente”, durante il quale Lev e le sue sorelle insieme ad altri compagni, approfondirono questi temi alla luce del pensiero filosofico occidentale. In questo periodo, stava emergendo il “concetto di nazione”; il ruolo giocato dalle minoranze etniche nei grandi imperi divenne argomento di dibattito politico anche tra Vygotskij e il suo gruppo, insieme alla lettura degli scritti di Renan, Graetz, e della Torà.
Fu proprio l’amore per la storia ebraica concepita come trasmissione di esperienze da una generazione all’altra, ledor vador, a indirizzarlo nella ricerca di un metodo, un approccio storico-culturale applicato alla psicologia in contrapposizione alle teorie comportamentiste dell’epoca. La tradizione ebraica dunque diventò per lui una Weltanschauung, un modo di interpretare il mondo, ma anche un supporto psicologico per superare le sofferenze e le delusioni cui andava incontro. Questi concetti non lo abbandonarono mai e negli anni successivi egli continuò a scrivere per un giornale, Novyi put’, commentando gli eventi storici del suo tempo e riflettendo su ciò che potevano implicare per il popolo ebraico. Così, quando nel 1916 si verificarono moti e discriminazioni antiebraiche, egli volle fare il parallelo con il 9 di Av, giorno del digiuno per la distruzione del Tempio di Gerusalemme. Così scriveva: “esiste una bella e commovente tradizione di un profondissimo e valido significato, una leggenda secondo la quale, nel giorno di grande sofferenza, esattamente in questo giorno, il Messia nascerà…”.
In quegli anni formativi, lo studio della letteratura russa portò Lev a un’altra scioccante rivelazione: anche i giganti della letteratura russa erano antisemiti. Scrisse così Dostojesky e la questione ebraica: “… è strano ed incomprensibile che la letteratura russa, che promuove il principio dell’umanesimo, mostri così poca umanità nei confronti della descrizione dell’ebreo, di cui l’artista non sente mai l’umanità…”. Questi stessi argomenti furono precursori per la sua Psicologia dell’arte, testo in cui Vygotskij sviluppa criteri rigorosi di interpretazione letteraria. Nonostante il diploma e la medaglia d’oro per gli studi, nonostante meriti e talento lo rendessero idoneo di default all’iscrizione all’Università di Mosca, Lev viene rifiutato. Solo un colpo di fortuna gli permetterà di accedere al prestigioso ateneo. Una fortuita vincita alla lotteria, grazie a cui, casualmente, il suo nome viene sorteggiato. Il caso e non il merito aveva deciso per lui. Ma anche qui Vygotskij doveva assaggiare il pane della discriminazione e la precarietà del destino ebraico. Se i brillanti successi agli inizi di carriera gli permisero di studiare e lavorare all’Università di Mosca, – conquistando l’ammirazione dei più illustri colleghi- , già negli Anni Trenta Vygotskij diviene il bersaglio della violenta repressione politica del regime stalinista, il suo nome sulla lista nera. Un epilogo che rese ancor più tristi e difficili gli ultimi anni di vita, minato dalla tubercolosi che lo porterà alla morte giovanissimo a soli 37 anni, lasciando ai posteri una teoria psicologica e cognitiva tra le più innovative. La sua morte fu l’ultima tappa di una vita dove la consapevolezza di essere diverso rappresentò un elemento costante.

Se Vygotskij di fatto rimase profondamente legato all’ebraismo, perché allora abbracciò il Marxismo? Sappiamo che non fu una decisione facile né automatica: deluso dagli angusti conflitti dei gruppi politici ebraici che litigavano a Gomel, dopo aver vissuto una profonda crisi personale, Vygotskij si interessò alla Rivoluzione del 1917, anche se non partecipò mai ad alcuna attività politica. Sapeva che i moti rivoluzionari avrebbero portato libertà e opportunità per la popolazione ebraica creando condizioni che nessuno dei suoi avi aveva mai conosciuto. Tuttavia, nonostante l’adesione al Marxismo, Vygotskij rimase sempre un eterodosso, una voce fuori dal coro, un outsider, e non si piegò mai alle pressanti richieste di concepire una Psicologia Marxista e così piegare la dottrina psicologica a quella politica. La sua integrità scientifica non gli permise di aderire a questo progetto: per lui le due sfere obbedivano a principi e leggi diverse, con buona pace dei capi della Rivoluzione russa per i quali la trasformazione della società doveva andare invece di pari passo con la trasformazione della scienza, e la psicologia doveva essere riscritta in base a concetti ispirati al Materialismo Storico.
Inizialmente tuttavia, Lev pensò di aderire. Sperava nella redenzione egualitaria delle minoranze etniche di cui egli, in quanto ebreo, faceva parte. La sua adesione al Marxismo nasceva dall’esigenza di trovare uno spunto per la formulazione di quella metodologia dialettica che gli avrebbe permesso di superare non solo i conflitti personali, ma anche il rapporto tra Mente e Spirito che stava teorizzando nella sua teoria psicologica. In questo ambito, egli fu influenzato non solo da Hegel ma soprattutto da Spinoza, che cominciò a leggere dall’età di 16 anni e che assunse a modello.
Dopo la Rivoluzione di febbraio, con la totale abolizione delle leggi discriminatorie contro gli ebrei – tra cui l’eliminazione formale della famigerata Zona di residenza istituita dagli Zar e dove gli ebrei erano stati costretti a risiedere-, egli scrisse un articolo su un giornale ebraico, esprimendo le sue paure: “L’eccitazione dei momenti storici che stiamo vivendo non è solo l’emozione di un giorno di festa e di grande gioia per essere stati liberati dal giogo del passato, ma è in gran parte l’eccitamento per la paura di guardare al nostro futuro… Non siamo ancora pronti per essere liberi, per parlare liberamente, la nostra coscienza non ha ancora digerito le trasformazioni che si sono verificate. E infatti la nostra vecchia anima vive ancora nel suo vecchio corpo. Questo nuovo giorno ci ha trovato impreparati…”.
Vygotskij parlava al plurale riferendosi al popolo ebraico, paragonando la Rivoluzione russa all’uscita degli ebrei dall’Egitto per la conquista della libertà, ma di fatto stava parlando di se stesso, cosciente che il suo destino era indissolubilmente legato a quello della sua gente. Nonostante l’acquisita libertà potesse rappresentare un momento di svolta, nel profondo della sua coscienza albergavano paure che negli anni successivi si sarebbero rivelate giustificate. Fu infatti per un solo decennio dopo la Rivoluzione Bolscevica che gli ebrei poterono godere di opportunità economiche e occupazionali, ricoprendo incarichi istituzionali.

Stalin gli chiese di elaborare una psicologia marxista
Ma le nuove libertà acquisite comportarono un prezzo da pagare: la Rivoluzione comunista deprivò gli ebrei del proprio culto e dell’educazione ebraica di cui avevano sempre goduto. Con la crescente pressione politica, Vygotskij fu visto come un individuo non allineato al regime. Il clima di sospetto che si stava creando attorno a lui era giustificato dal fatto che il suo metodo era considerato “borghese”, unito a una visione politica di “nazione” inaccettabile per gli schemi politici del tempo. Vygotskij auspicava un nazionalismo plurale, dove potessero coesistere le diverse culture presenti sul territorio; per Stalin invece si trattava di promuovere la panrussificazione della cultura, della società, della scuola. Inoltre la sua mente fertile e inquisitiva lo portò a frequentare la società psicoanalitica russa che plaudiva la fondazione di una psicologia marxista. Di nuovo, come durante l’infanzia, si ritrovò a essere considerato diverso e stavolta non tanto in quanto ebreo quanto per le sue idee, in polemica con il dogmatismo di Stato. La depressione e la malattia che lo minavano da anni lo portarono a dire: “Voglio morire, non mi considerano un marxista sincero”. Quando pochi anni dopo sentì la morte avvicinarsi davvero, scrisse una breve nota appuntata su un taccuino, dopo aver terminato la sua ultima opera, Pensiero e Linguaggio: “Questa è la mia ultima opera. Io morirò sulla vetta, come Mosè, guardando la Terra promessa, senza mai entrarvi. Perdonatemi amate creature. Tutto il resto è silenzio”. Anche in punto di morte egli sentì l’ebraismo come punto di riferimento, come fece durante tutta la sua vita; ma scelse di chiudere con la celebre frase di Amleto, il cui mito lo aveva accompagnato durante la sua tribolata esistenza. La sua ultima opera uscì postuma nel 1934 e fu censurata per circa 30 anni; circolò nuovamente, tradotta in inglese, nel 1963. Oggi, Vygotskij è sepolto a Mosca nel cimitero degli eroi, a Novodevočij, dove si trovano i personaggi russi illustri. Non c’è né un segno, né una lapide, che ricordi la sua origine ebraica.

Antonella Castelnuovo è studiosa di Pedagogia, docente di Mediazione Linguistica all’Università la Sapienza di Roma, docente al Corso di laurea triennale in Studi Ebraici UCEI