Nedo Fiano

Nedo Fiano – Nel maggio del 1944, Nedo Fiano, ebreo italiano, arrivò con suo padre sulla banchina di Auschwitz. Tutta la sua famiglia fu deportata e sterminata. Oggi Nedo Fiano è un testimone. Scrive, racconta e interviene in alcune delle innumerevoli occasioni di incontro rese possibili in tutta Italia dalla celebrazione del Giorno delle Memoria. Quello che segue è un suo messaggio, ma contemporaneamente anche l’abbozzo di un autoritratto che aiuta a comprendere alcuni tratti di un destino tragico e straordinario al tempo stesso.

Porto con me – da sempre – l’odore, il buio, l’orrore e la ferita di quel tempo lontano.
Lotto ancora e recito la parte di un uomo comune, come tanti altri. Ma sento spesso un inferno dentro, anche se cerco di apparire sereno e felice.
Amo la mia famiglia sopra ogni altra cosa.
In vista ormai della settecentesima conferenza nelle scuole, mi sento ancora là, nel luogo del lutto.
Ho una ricca e vivace vita interiore da cui attinguo il mio essere di ogni giorno.
Penso, leggo e scrivo, ma sono sempre là, tra i fili spinati e lì resterò fino alla fine della mia vita.
Ogni giorno apro gli occhi su un mondo difficile e spesso ostile, ma anche pieno di stimoli e tentazioni. Mi rimbocco le maniche, accetto la sfida e mi batto.
Ho tre figli molto più bravi di me, che portano il seme di Birkenau che ho loro trasmesso.
Mia moglie conforta e sorregge il mio travaglio quotidiano.
Malgrado tutto, amo vivere per il meglio e il più giusto. Non solo per sopravvivere.
Da sessant’anni le mie mani sono sporche di “quella” terra maledetta di Birkenau – nulla può il sapore quotidiano della vita.
Vivo spesso la contraddizione di apparire sereno – come in una scena teatrale – mentre nel mio corpo si agita un travaglio inestinguibile.
Ciò detto, non fumo e non bevo, detesto il gioco delle carte e i locali rumorosi. Non amo il calcio.
Non ho padroni tranne me stesso, ma riesco a fronteggiarmi.
“L’incontro che ha cambiato la vita” – non ricordo chi l’ha detto – “è quello con la mia volontà”.
Infatti al limite estremo della mia vita nel lager, appresi quanto fosse importante non arrendermi alla disperazione, neppure nella catastrofe.
Infatti c’è sempre una via di scampo.
Io la trovai.

Nedo Fiano
Milano, gennaio 2005

Questo è un brano dal libro
“A 5405 Il coraggio di vivere”
Monti Edizioni, Varese 2003
di Nedo Fiano

(…) Dovevamo dare risposte monosillabiche, ma tranquillizzanti, ai deportati che arrivavano e ripulire i loro vagoni per eliminare ogni traccia di quanto vi era accaduto. Un lavoro duro per l’impatto con un’umanità dolorante e impaurita, ma che ci dava l’occasione di mangiare qualcosa del cibo abbandonato dalle persone che avevano dovuto discendere precipitosamente dai vagoni, prima di andare a morire. Esposti inermi al freddo, alla fame, alla violenza, agli SS e ai loro cani assassini, al fango e alla pioggia, eravamo tutti candidati ad una morte precoce. Politici, musicisti, scrittori, contadini, militari, sacerdoti, gente comune, zingari, omosessuali, mendicanti, prostitute, alcolizzati, persone affette da malattie veneree e testimoni di Geova, tutti condividevano le nostre pene e il nostro destino, anche se spesso in termini e in misura diversi. Un mondo di miseria, di sporcizia, di fame e di terrore ci assediava senza requie: il nostro corpo doveva far fronte ad una vita fisica e psichica devastante. E non sempre era vincente. Anzi. Posseduti contemporaneamente da tante emozioni violente, non eravamo più noi stessi, ma il prodotto di un mondo da incubo, irreale, i cui fili erano tenuti dagli SS. Molti di noi erano trasformati da questa lotta senza quartiere in violenti, ladri, vili e traditori. Altri, invece, riuscivano a mantenere saldi i propri principi. Per sopravvivere era essenziale avere un lavoro in qualche modo privilegiato. (…)

(…) La nostra vita era sempre in pericolo. Si poteva morire per il sadismo di un SS, per un ordine eseguito in ritardo, per una punizione senza ragione. Ammalarsi, però, era il timore di tutti: un Häftling malato era condannato alla camera a gas. Sul lato nord, a fianco del Campo degli zingari e del Kanada, fra i crematori III e IV, c’era a Birkenau il Krankenbau, un complesso di quattordici baracche destinate ad ospitare circa duemila prigionieri ammalati. Lì, forse, portarono mio padre esausto e ridotto a pelle e ossa. Esito a chiamarlo ospedale, in quanto era piuttosto un luogo di orrore, l’anticamera delle Camere a gas, che emanava un tanfo orribile di escrementi e corpi in decomposizione. Insomma, una vera e propria area della morte. Raramente accadeva che i prigionieri ricoverati nel Krankenbau ritornassero nel Campo principale. Infatti ogni trasferimento aveva un’unica destinazione, la morte per gas. La dissenteria, seguita dal tifo, era tra le cause principali di mortalità. Poi c’erano fratture agli arti procurate da percosse, ferite al cranio e infiammazioni polmonari. Non erano disponibili né medicinali, salvo 10/15 compresse di Aspirina per 800/900 ammalati, né bendaggi, sostituiti dalla carta igienica. Gli infermieri più attivi riuscivano talvolta a procurarsi medicinali, promettendo a chi glieli forniva di aiutare qualche specifico ricoverato. C’era frequentemente la possibilità di trovare qualche medicamento al Kanada. Talvolta i medici si adopravano per trafugare medicinali dall’ospedale riservato agli SS. Nascondevano ammalati e debilitati falsificando con grande rischio cartelle mediche e occultavano prigionieri condannati al Crematorio. Naturalmente potevano salvare solo un numero limitato di persone, e il problema più drammatico era quello di scegliere chi aiutare fra le centinaia di condannati. Era una posizione molto difficile, e il grande eroismo di quei medici fu condotto con determinazione nel nome della loro deontologia professionale. Nel Krankenbau venivano effettuate periodiche selezioni soltanto tra gli ebrei – i paria del Lager – per mandarli a morire. Il terrore era costante, perché nessuno – malato, convalescente o guarito – poteva considerarsi al riparo da quel rischio estremo. Mengele aveva qui la Baracca 15 dove eseguiva i suoi satanici esperimenti su bambini gemelli, mentre in altre baracche venivano fatte sperimentazioni di ogni tipo sui prigionieri, soprattutto a fini militari (…)

(…) Avevamo lavorato duro per trasferire sui camion centinaia di valigie, mentre i nostri occhi vagavano con partecipazione tra quella povera gente impaurita, che sarebbe stata gassata e cremata nel giro di poche ore. “Dove siamo? Dove ci portano? Cosa ci faranno?”, erano le domande angosciate di ognuno. “Non vi accadrà niente. State tranquilli, andrete a fare una doccia. Coraggio!”. Malgrado cercassimo di tranquillizzarli (potevamo, forse, dir loro la verità? A cosa sarebbe servito?), erano posseduti, divorati dalla paura. Il gruppo si dirigeva, tra grida e pianti, verso alcuni SS che sceglievano i deportati da mandare a morire e quelli da far provvisoriamente sopravvivere. Forse non avevano capito il loro destino, ma gli abbracci fra i coniugi, fra i vecchi e i giovani, fra i figli e i genitori, erano di un’intensità che noi tutti avevamo provato sulla nostra pelle. Queste scene si ripetevano a centinaia ogni giorno e producevano stanchezza e lacerazione in tutti noi che – in fondo – ci sentivamo non solo coinvolti, ma anche colpevoli col nostro silenzio di fronte alle grida e alle lacerazioni dei nostri correligionari. E se avessimo detto loro la verità, cosa sarebbe cambiato? Forse una carneficina di gente inerme di fronte a tanti soldati armati fino ai denti. Il 30 giugno arrivò un convoglio dall’Italia e nel gruppo di deportati intravidi mia nonna Gemma, che si guardava attorno, senza riuscire a capire dove fosse capitata. Mi diressi verso di lei, ma ero emozionato a tal punto che svenni. I miei compagni mi raccolsero e mi occultarono per qualche minuto sotto un cumulo di valigie. Rinvenni poco dopo, ma la nonna si era già allontanata col suo gruppo, verso gli ufficiali SS addetti alla selezione. Non ci fu più nulla da fare. Nonna era andata a morire. Era stata arrestata nella casa di riposo per ebrei a Firenze, il 6 aprile 1944. Alla fine del mio turno, mi accadde un giorno di incrociare un gruppo di deportati che, scortati dagli SS e dai loro cani, venivano condotti al Crematorio per il loro tragico destino. Dal gruppo si sollevò una voce: “Ciao, Nedo, dove ci stanno portando?”. Sorpreso che qualcuno potesse individuarmi in quella confusione, subito riconobbi Bruno Coen, un impiegato della comunità ebraica di Firenze che conoscevo molto bene. “Non ti preoccupare, Bruno, vi stanno portando alla doccia. Stai tranquillo!” Credo di avergli dato un po’ di coraggio, ma non ebbi risposta, perché il gruppo si era rapidamente allontanato e perché era proibito conversare tra i gruppi. Però il dubbio rimase. Anzi, rimane. Se gli avessi detto la verità, poiché il suo destino era ormai segnato e non era possibile cambiarlo, l’avrei soltanto terrorizzato. Eppure l’interrogativo rimane ancora. Non riesco ad assolvermi e neppure ad incolparmi. (…)

(…) Gli SS non erano dei superuomini, ma degli squallidi personaggi che evitavano i rischi della prima linea al fronte di guerra, pagando tale salvagente con un devastante mestiere sanguinario. Erano individui insensibili e corrotti, ai quali il nazismo, con un lungo training, aveva annullato nella psiche gli istinti morali. La guarnigione SS di sorveglianza ai Campi di Auschwitz I, Auschwitz II-Birkenau, Auschwitz III-Monowitz e sotto-Campi dipendenti contava circa tremila unità maschili, più una quantità modesta di personale femminile per il FKL (il Campo femminile). Le loro funzioni erano varie: dalla scorta agli Aussenkommandos (squadre al lavoro fuori dal Campo) al presidio sulla Rampa, dalla sicurezza in generale al Kanada, ai Forni Crematori, alle garitte, al territorio immediatamente circostante. I loro alloggiamenti erano delle baracche di legno luminose e confortevoli, con camerette piuttosto spartane (le ho viste quando per due giorni sono stato distaccato a far pulizia!). Gli ufficiali abitavano, invece, in case e ville requisite alla popolazione locale. La palazzina di due piani della Kommandantur di Birkenau, nella stessa area delle baracche, era vis à vis della Lagerstrasse B. Gli SS, fuori dagli orari di servizio, trascorrevano il tempo libero nei locali delle loro baracche, oppure nei pressi della Stazione di Auschwitz dove era organizzato per loro un luogo di ritrovo con musica e prostitute. Per lo sport disponevano nel Lager di un campo da football, uno di pallavolo e di una piscina. Nei mesi estivi andavano a nuotare anche nella vicina Sola, affluente della Vistola. Per noi gli SS erano senza volto, poiché non avevamo nessuna opportunità di scambiare neppure un semplice sguardo con loro. Il nostro riferimento erano le loro uniformi e i loro gradi. I loro cani dobermann erano minacciosi, arcigni. Erano stati istruiti a saltarci addosso e a strapparci i genitali, per poi leccare il sangue del prigioniero stramazzato al suolo, che moriva con urla disperate. (…)