La versione di Benny Morris

Certe volte la storia è propria buffa: colui che per anni, per via delle sue ricerche, è stato accusato di voler distruggere uno dei miti fondativi dello Stato di Israele, di screditare il suo paese agli occhi del mondo, è colui che oggi, proprio alla luce di quelle ricerche, si ritrova davanti alla platea internazionale a difendere il suo paese dalle accuse del leader palestinese Abu Mazen.

Abu Mazen, Mahmoud Abbas, il 16 maggio ha chiuso le celebrazioni della Naqba palestinese, con un articolo sul New York Times dal titolo “The Long Overdue Palestinian State”, la lunga attesa dello stato palestinese. In esso oltre a fornire la “sua” versione dei fatti del 1947-1948, Abbas attribuisce ad Israele la responsabilità del fallimento, in questi anni, dei negoziati di pace (“abbiamo negoziato con lo stato di Israele per venti anni senza arrivare nemmeno vicino alla creazione di un nostro stato autonomo”).

Benny Morris, uno dei maggiori studiosi israeliani delle vicende del 1948 e della questione dei rifugiati palestinesi, ha pensato di dover rispondere in qualche modo alla ricostruzione dei fatti proposta da Abbas. Così, è intervenuto sulla rivista americana The National Interest.com, per rimettere a posto le cose, o, se non altro per dare ai lettori anche la “sua” versione dei fatti, così come ha potuto ricostruirla sulla base dei documenti d’archivio israeliani. Un intervento, peraltro sollecitato anche da un commento dell’editorialista di The National Interest, Paul Pillar, il quale ha definito l’articolo di Abu Mazen sul New York Times, meritevole di essere letto in quanto “parla di alcune delle più importanti verità di questo conflitto”. Secondo Benny Morris la versione di Abu Mazen merita di essere letta invece proprio per la ragione opposta: perché mette in luce le bugie e le distorsioni dei fatti su cui, per decenni si è basata la politica delle elites  palestinesi.

Data l’importanza delle voci e dei temi affrontati, abbiamo pensato di riproporre le risposte di Benny Morris alle affermazioni del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmud Abbas.  Le versioni integrali degli articoli si possono leggere sul New York Times e su The National Interest.

I profughi palestinesi

Abu Mazen: i palestinesi lasciarono le loro case e la loro terra perchè costretti dall’esercito israeliano. Abu Mazen a questo proposito ricorda la propria personale esperienza quando nel maggio del 1948, all’età di tredici anni, insieme alla sua famiglia dovette lasciare Safed in Galilea per rifugiarsi in Siria. Migliaia di palestinesi subirono la stessa sorte, scrive, e per anni tutti loro hanno sperato di far ritorno nella nella loro patria. Finora però “questo diritto fondamentale è stato negato loro”.

Benny Morris: “Gli arabi di Safed non furono espulsi, bensì abbandonarono la città perché si trovava sotto i colpi di mortaio dell’Haganah – che poi la conquistò il 9-10 maggio 1948. A Safed, afferma Morris, non ci fu nessuna “espulsione”.

La risoluzione ONU del novembre 1947 sulla spartizione della Palestina.

Abbas: nel novembre 1947 i palestinesi accolsero positivamente la risoluzione Onu per la spartizione della Palestina. Subito dopo però – aggiunge Abu Mazen –  “le forze sioniste espulsero dai loro territori gli arabi palestinesi per assicurare agli ebrei la maggioranza della popolazione del nuovo stato”.  Seguirono poi l’intervento degli eserciti arabi, la guerra e nuove espulsioni. La conclusione, osserva Abbas, è che “lo stato palestinese da allora fino ad oggi è rimasto una promessa non mantenuta”.

Morris: gli stati arabi, come anche la leadership palestinese (Haj Amin Al Husseini) si opposero alla spartizione della Palestina, poichè ritenevano che essa dovesse essere assegnata per intero al popolo arabo. Infatti quando il 29 novembre l’assemblea generale votò per la spartizione, non solo si ebbe il rifiuto di quella soluzione da parte dei rappresentanti palestinesi, ma cominciò l’attacco alla popolazione ebraica da parte delle milizie palestinesi che volevano impedire la nascita del nuovo stato ebraico. Gli eserciti arabi, sostennere i palestinesi e per settimane sabotarono i rifornimenti dell’esercito ebraico. Alla fine, però, quest’ultimo riuscì ad avere la meglio e 300.000 palestinesi furono allontanati (“displaced”) dalle loro case e dalle loro terre.
Il 15 maggio 1948 quando Israele dichiarò la propria indipendenza, gli eserciti di Egitto, Siria ed Iraq invasero la Palestina ed attaccarono lo stato ebraico. L’esercito giordano occupò  a sua volta la West Bank e Gerusalemme est – i territori che, in base alla risoluzione del 29 novembre dovevano diventare il cuore dello stato palestinese. I palestinesi in quel frangente non dichiararono la propria indipendenza e il governo giordano, per parte sua, non consentì loro di stabilire uno stato; anzi si annettè i territori appena conquistati. L’Egitto nel frattempo aveva preso e teneva sotto il suo controllo la striscia di Gaza. Israele nei mesi che seguirono riuscì a contenere gli eserciti nemici fino a respingerli, spiega ancora Benny Morris. Nel corso di quella guerra, circa 400.000 palestinesi furono allontanati dalle loro case:  alcuni furono effettivamente espulsi  (come accadde per esempio a Lidda e a Ramla nel luglio 1948); ad altri invece fu “consigliato” (“advised”) di andarsene dagli stessi leader arabi (per esempio a Haifa nell’aprile del 1948, e a Majdal ad ottobre). La verità  comunque è che la gran parte dei 700.000 palestinesi che secondo Abu Mazen furono espulsi, semplicemente se ne andarono spontaneamente, per timore di essere catturati o di essere arruolati.

Nell’estate del 1948, aggiunge ancora Morris, il governo israeliano decise di non permettere agli arabi che se ne erano andati, di fare ritorno alle loro case, per il semplice fatto che essi erano da considerarsi come “nemici” (non avevano forse attaccato la popolazione ebraica e tentato di distruggere lo stato appena sorto?).

“Abbas non fa menzione di ciò nel suo articolo, perché vuole dipingere i palestinesi solo come delle vittime.  I palestinesi, scrive ancora Benny Morris, furono i principali responsabili di quanto accadde subito dopo l’approvazione della risoluzione del 1947: l’assalto alla comunità ebraica scatenò la reazione sionista dalla quale derivò il collasso della società palestinese e la nascita della questione dei  rifugiati palestinesi. “I popoli pagano per le loro aggressioni ed errori, e questo è quel che è accaduto in Palestina” conclude Morris.

La campagna di Abu Mazen per il riconoscimento unilaterale dello Stato palestinese da parte dell’assemblea generale dell’ONU

Abbas: “Ci rivolgiamo alle Nazioni Unite per assicurarci il diritto di vivere liberi nel rimanente 22 % della nostra patria storica, poichè in 20 anni di negoziati con Israele non siamo mai arrivati nemmeno vicini alla realizzazione di uno Stato indipendente. I palestinesi si rivolgono così “alla comunità internazionale affinchè questa la assista nel conservare l’opportunità di una fine sicura e pacifica del conflitto con gli israeliani”.

Morris: nel 2000 fu offerto ai palestinesi un compromesso di pace che prevedeva una soluzione binazionale: essa fu rifiutata da Abu Mazen (appoggiato da Arafat); nel 2008 il primo ministro Olmert propose come via d’uscita dal conflitto una soluzione statale palestinese che Abu Mazen ancora una volta rifiutò. In entrambi i casi lo stato palestinese proposto avrebbe compreso il 94% della West Bank, e l’intera striscia di Gaza, la metà araba di Gerusalemme inclusa metà o 3/4 della città vecchia. Ciò che i governi israeliani chiedevano in cambio era il riconoscimento di Israele.
Abbas (e Arafat) rifiutò quel compromesso perchè non voleva e “non vuole una soluzione binazionale bensì l’intera Palestina, perciò non ha alcun interesse a negoziare con Israele”. L’affermazione di Abu Mazen secondo cui per i palestinesi la “prima opzione è il negoziato” è falsa. L’anno scorso Netanyahu, sulla spinta delle pressioni di Obama, ha congelato gli insediamenti nelle colonie; ciononostante non si è arrivati a nessun tipo di negoziato. Abbas ha trascinato le cose, e Netanyahu, che rifiutò di estendere ulteriormente il blocco degli insediamenti, venne percepito dall’opinione pubblica internazionale come il responsabile delle tensioni in atto.

Ciò che vuol fare Abu Mazen ora, scrive Morris – è di ottenere uno stato palestinese senza pagare il prezzo del riconoscimento di Israele. “Una volta che i palestinesi avranno il loro stato nella West Bank e nella Striscia di Gaza, lo useranno per nuovi attacchi, politici e militari contro Israele”. E l’attacco più forte sarà la pretesa di vedere applicata la risoluzione 194 del 1948 sul ritorno dei rifugiati palestinesi nelle loro terre. Una pretesa che  riporterebbe in Israele 5-6 milioni di persone fra rifugiati del 1948 e  loro discendenti. Se questa richiesta venisse accolta, conclude Morris, Israele semplicemente smetterebbe di esistere come tale: l’attuale popolazione ebraica sarebbe infatti nettamente inferiore a quella araba; gli ebrei sarebbero minoranza all’interno del loro stesso stato. Questo d’altra parte “è l’obiettivo dei palestinesi e questa la verità che Abbas propone e persegue”.