Identikit del pensiero populista

di Claudio Vercelli

[Storia e controstorie]
Su che cosa si basa? Uno: “il popolo ha sempre ragione”. Due: “basta fumosità politiche, viva la concretezza…”. Tre: “c’è sempre un nemico da abbattere…”

 

Si parla di «onda populista» e non a torto anche se, come capita il più delle volte per le parole troppo spesso usate, nel tentativo di tutto dire e comprendere si rischia di nulla spiegare all’atto concreto. Una formidabile definizione, coniata non molto tempo fa, qualifica il populismo come quel regime politico e culturale dove si ha democrazia senza Costituzione. In parole più semplici, si hanno libertà senza diritti. No, non si tratta di un rebus per studiosi e ricercatori. Le Costituzioni da sempre esistono per vincolare il potere, ossia per imbrigliare il desiderio di arbitrio che spesso accompagna coloro che lo detengono. I diritti nascono anche da questo riscontro: senza dei limiti all’esercizio dei poteri, si rischia il ritorno all’assolutismo dei più potenti, quindi allo loro esclusiva volontà.

La democrazia è molte cose, ma nelle nostre società è soprattutto un criterio di partecipazione e di condivisione nella formazione delle scelte che riguardano l’interesse pubblico. Anche per questo attraverso la democrazia si dà corso alla politica, non come volontà di uno bensì dei molti. Ma questa stessa volontà rischia, qualora non sia vincolata (ovvero, che stia «nei limiti» della legge costituzionale), di diventare una sorta di pericolosissimo assoluto. Detto questo, le norme non sono mai imperiture, granitiche perché immodificabili. Sono infatti il prodotto dei loro tempi, in qualche modo fotografandone lo spirito condiviso. Così anche per le Costituzioni che, nella storia, infatti cambiano.

In cosa differiscono, allora, i populismi odierni rispetto ad altre forme di partecipazione democratica? Ci sono alcuni aspetti da tenere in considerazione. Il primo di essi è la convinzione che il «popolo» sia una sorta di vero e proprio organismo vivente, composto da milioni di individui, dove l’analogia tra di essi corrisponde ad una sorta di totale identità: «uno vale uno», è stato detto, poiché a ciò non si conferisce tanto l’eguaglianza assoluta tra le persone quanto una sorta di volontà condivisa, che si esprimerebbe in un solo senso e in maniera irrevocabile, indiscutibile, insindacabile. Per chi si riconosce in una dottrina populista, ciò che è chiamato popolo ha ragione a prescindere. Esso stesso incarna il senso della giustizia, che in qualche modo gli appartiene poiché innata. Il che implicherebbe, per la politica – affinché sia in piena sintonia con il comune sentire – di rappresentarne e dare sostanza da subito, e senza troppi giri di parole, alle manifestazioni di volontà. Quanto si contrappone tra queste ultime e la prima, è quindi inteso in senso negativo. Anche per questa ragione si parla allora di «disintermediazione»: ossia, fare a meno delle tante mediazioni esercitate dai corpi intermedi, ovvero dalle organizzazioni, ma anche dalle istituzioni, che raccolgono i mille rivoli in cui si esprime costantemente tale volontà, quindi incanalandola e poi indirizzandola verso obiettivi concreti.

La democrazia rappresentativa è quindi diversa dalla democrazia diretta: la prima si basa per l’appunto su una serie di passaggi, mentre la seconda postula il fatto che sia possibile dare immediato riconoscimento, e quindi soddisfazione, alla volontà collettiva. Il secondo aspetto è il fatto che qualsiasi populismo per avere tangibilità, per esistere, necessita di riconoscersi in una figura fisica, in un leader che è, prima di tutto, un essere umano. Il «capo» raccoglierebbe in sé, nel suo pensiero, nella sua azione, nella sua stessa condotta, il giusto sentire del popolo. Ne sarebbe come una sorta di sintesi, incarnata in un’unica figura di riferimento. Qualcuno di rassicurante, poiché, mentre le istituzioni sono impersonali, l’individuo, invece, garantisce la fisicità del decisore. Che è delegato in tale funzione essenzialmente come espressione diretta del popolo.

Il terzo elemento è il costante richiamo alla concretezza, contrapposta alla riflessività e all’intellettualismo. L’una e l’altra cosa, infatti, sono spesso viste con grande diffidenza, come se si trattasse di inutili complicazioni o, peggio ancora, modi per manipolare sapientemente la stessa volontà collettiva, svuotandola dei suoi più autentici contenuti. Non è che il populismo non si doti di un suo pensiero, ovvero di un’ideologia politica di riferimento, ma in genere la fa corrispondere con la stessa volontà popolare, dichiarando come superate o nocive quelle idee che non corrispondono alle sue posizioni.

Il quarto fattore è la ricerca di un nemico, comunque un acerrimo avversario, contro il quale scagliare il suo potenziale di mobilitazione collettiva. Ciò serve non solo come valvola di sfogo nella gestione delle tensioni, con cui ogni società deve costantemente misurarsi, ma per dare, anche in questo caso, un volto preciso, molto chiaro, a quanto è denunciato come “minaccia”. La concretezza del populismo riposa in questo meccanismo: definire in maniera netta, secca, ciò che altrimenti, in quanto fonte di ansia collettiva, è percepito e vissuto come incomprensibile. Il tema dello “straniero”, di qualcuno che sta tra il popolo pur senza esserne parte, e che quindi ne mette in discussione le legittime aspirazioni, il soddisfacimento dei bisogni ma anche le virtù comuni, è molto forte. Nel populismo contemporaneo è pronunciata la propensione ad identificare nelle “élite borghesi” tale pericolo. Questo ed altri elementi fanno dei populisti, nell’età della crisi delle democrazie rappresentative, non dei soggetti residuali, delle figure deboli, ma dei competitori particolarmente determinati e aggressivi. Con buone capacità di riuscita. Poiché in politica, a determinare la fortuna degli uni è spesso non la loro virtuosità, ma la debolezza dei loro avversari, chiunque essi siano.