Sultana Razon Veronesi: “Con Umberto, uniti nei valori morali laici. Ma io resto ebrea per sempre”

di Ester Moscati

Sultana Razon Veronesi

In occasione della morte di Umberto Veronesi, avvenuta l’8 novembre ripubblichiamo questa intervista del 2013 alla moglie, Sultana Razon Veronesi, in cui parla del marito e del rapporto unico che aveva con lui.

Mi riceve nel suo studiolo, nella bella casa di via Palestro a Milano. Sugli scaffali, i libri, in diverse lingue, sono quasi completamente nascosti da decine di fotografie e portaritratti. Marito, figli e nipoti nell’arco di una vita. La finestra, in un soleggiato pomeriggio di novembre, si affaccia sul Museo di Storia Naturale e sul parco, dove accompagnava a giocare i suoi sei figli. «Andavano pazzi per lo zoo – racconta -. Oggi purtroppo non c’è più». Sultana Razon Veronesi, detta Susy, nata a Milano nel 1932 da genitori ebrei di Istanbul, sorride e si emoziona parlando dei suoi figli. Nonostante il lavoro di medico pediatra, che l’ha impegnata per oltre quarant’anni, è sempre stata vicina ai suoi bambini. «Li ho allattati tutti per almeno dieci mesi, non sopportavano tettarelle e biberon. Dall’ospedale tornavo di corsa a casa per nutrirli, e spesso finiva che li portavo con me al lavoro».

Nell’introduzione al suo libro (Il cuore, se potesse pensare, Rizzoli) dice “Scrivo per i miei figli e i miei nipoti, prima che l’oblio e la morte ricoprano con un velo polveroso gli avvenimenti, i pensieri e le esperienze di una vita”. Anche per quanto attiene alle vicende della sua origine ebraica, e del suo periodo di internamento a Bergen Belsen, affida al libro la testimonianza verso i suoi figli? Oppure è un argomento di cui ha parlato con loro nel corso degli anni?

No, per carità! I figli non vanno turbati con i nostri dolorosi ricordi! Non si può rovinare la vita dei giovani raccontando le nostre esperienze orrende. Ho letto sul Corriere la lettera della figlia di Liliana Segre (pubblicata dopo le esternazioni di Berlusconi sui suoi figli, che si sentirebbero come gli ebrei sotto il nazismo ndr). È piena di sofferenza e di traumi come se lei stessa fosse stata ad Auschwitz. Non lo trovo giusto. Non ha nessun senso. Ai miei figli non ho raccontato nulla, perché potessero avere una vita serena. Certo, non li ho battezzati. Io stessa, a soli dieci anni, seppi resistere al tentativo di conversione di un parroco del paese dove, con mia sorella e i cuginetti, eravamo al confino, Taglio di Po. I nostri genitori erano stati arrestati e noi eravamo chiusi in un orfanotrofio. Il parroco mi disse che la conversione ci avrebbe salvato la vita. Ma rifiutai. Naturalmente, seppi solo molto tempo dopo che sarebbe stata comunque inutile, i tedeschi non guardavano certo al battesimo. I miei figli sanno che io sono ebrea, anche se razionalista, e critica verso certi aspetti secondo me superati dell’osservanza. Ma loro sono atei, come mio marito, che afferma sempre il suo pensiero razionale. Certo, se avessi sposato un ebreo sarebbe stato tutto diverso.

Ci è andata vicino, racconta…

Sì, stavo per sposare Dick, un tenore ebreo americano. Suo padre, un banchiere di New York, era venuto a Milano per il fidanzamento; mio padre era molto felice. Avevo lasciato Umberto. Dopo otto anni che ci frequentavamo, non voleva sposarsi. Ma quando seppe che stavo per impegnarmi, si decise e così mandai a monte tutto per lui.

Nel libro accenna varie volte, con nostalgia, alle feste ebraiche, alla Pasqua. Quale valore ha per lei oggi questo retaggio?

L’ebraismo è la mia religione, la tradizione della mia famiglia, la mia vita che non cambierei mai. Soprattutto nel ricordo dei miei genitori, che mi mancano molto, mi sento vicina ai nostri riti festosi, ai momenti tradizionali. Ho frequentato la scuola di via Eupili, fino al liceo. A volte con mia sorella vado al Tempio di via Guastalla. Ma non mi trovo più. Non c’è più nessuno che conosco. Tutti i miei parenti e amici di un tempo non ci sono più. È come un altro popolo rispetto ai sefarditi che eravamo noi. Del resto, avevo uno zio emigrato in Israele negli anni Trenta, che ha partecipato a tutte le tappe della fondazione dello Stato, e mi raccontava di come i sefarditi fossero trattati dagli ashkenaziti, che volevano tenerli sotto al tallone. Incomprensioni e tensioni ci sono anche tra ebrei.

Ha voluto scrivere, nella sua autobiografia, di Ferramonti, Fossoli, Bergen Belsen anche per contrastare chi oggi nega la Shoah. Ha una sua opinione sulla legge che vorrebbe introdurre il reato di negazionismo?

Sì, ho scritto anche per aggiungere la mia testimonianza contro il negazionismo. Mi fanno molto arrabbiare, ma una legge no, non si possono imbavagliare, non si può limitare il libero pensiero. Sono le testimonianze a combatterli.

Pensa che in Italia ci sia ancora antisemitismo? Ha mai avuto la  sensazione che la sua origine ebraica potesse in qualche modo condizionare la sua carriera o quella di suo marito?

Per ora stiamo abbastanza tranquilli e no, non ho sentito mai direttamente attacchi per le mie origini. Semmai per il fatto di essere donna. Ho visto molti uomini fare più carriera di me e più velocemente. Sono stata anche calunniata sul lavoro da un collega, il che mi ha spinta a cambiare ospedale. Per fortuna questo mi ha portata al San Carlo, che era un’ospedale bellissimo, all’avanguardia, che abbiamo creato dal nulla.

Dopo il viaggio in Israele con suo marito, in occasione di un congresso medico, di cui parla nel libro, ha avuto altre occasioni di tornarci?

Sì, ci sono tornata anche con mio figlio Alberto, che ha diretto un’importante opera al Teatro di Tel Aviv. Israele è un Paese affascinante, per tutto ciò che lì gli ebrei sono riusciti a realizzare. Sento proprio un legame dell’anima, mi sembra sempre di tornare a casa, con la sua luce, i colori. Avrei voluto restare di più, ma con i figli e i nipoti mi manca sempre il tempo.

Tra le cose che emergono dal libro c’è la sua straordinaria determinazione, la forza di carattere che le ha permesso di essere madre di sei figli, di fare carriera nel campo della medicina, non certo facile come impegno e orari per una madre. Il coraggio di mandare a monte un matrimonio “perfetto” con un correligionario, in nome di una grande passione. E poi anche la sua capacità di superare con molta generosità l’umiliazione del tradimento, il figlio “segreto” di suo marito. Qual è la cosa che più apprezza nelle donne e quale invece le dà fastidio?

Apprezzo la determinazione e la capacità di impegnarsi nel lavoro. Non sopporto le donne che si lamentano sempre, che anche con un solo bambino si sentono delle eroine a lavorare. Non c’è più lo spirito di sacrificio. Ai nostri figli abbiamo insegnato l’etica del lavoro, la fatica. Nonostante ci siano stati momenti molto dolorosi per me, mio marito c’è stato sempre per i figli, non potevo privarli della sua guida preziosa. E infatti tutti hanno saputo impegnarsi e realizzarsi ai massimi livelli nello studio e nella carriera.

Quali sono state in famiglia e tra i suoi amici le reazioni alla pubblicazione di un libro così sincero, a tratti spudorato?

Alcuni si sono risentiti; chi perché parlavo troppo di loro, chi perché non ne ho parlato abbastanza. Certo, ho raccontato le vicende di una vita interessante, intensa e dolorosa. Ma è una cosa che volevo fare per me, per i miei figli e i miei nipoti.

(Ester Moscati)