Perché quelle immagini?

Opinioni

di Leone Finzi

Facebook, Youtube, blogs, tantissimi, e poi Israelnationalnews.com,  Israeltoday, Jewishjournal.com, la nostra informazionecorretta.it, sono solo alcuni dei moltissimi siti e “luoghi” della Rete, su cui nei giorni scorsi sono state diffuse e fatte circolare le foto del massacro di Itamar. Basta fare una piccola ricerca in google per rendersi conto della quantità di volte che, a ripetizione in migliaia di pagine diverse, è possibile vedere le immagini dei corpi dei tre bambini e dei loro genitori trucidati da terroristi palestinesi, nella notte di sabato 12 marzo in Cisgioradania.

Anche noi di Mosaico, domenica, avremmo potuto unirci ai tanti siti che hanno mostrato quelle immagini. Alla fine però abbiamo rinunciato – per pudore, per rispetto nei confronti dei nostri lettori i quali, immaginiamo, non hanno certo bisogno di “vedere” quelle foto per sapere ciò che rimane dopo un vile e brutale e insensato massacro.  E’ stata la libera scelta di una testata, come libera è stata la scelta di coloro che hanno deciso di mostrare il massacro in tutta la sua “fisicità” – una scelta che rispettiamo senza alcuna ombra di dubbio.

Ieri però un articolo di Angelo Pezzana, (“Scacco ai terroristi. Israele mostra le foto dei bimbi massacrati”, Libero, 15 marzo 2011), ha in qualche modo riaperto la questione.

Angelo Pezzana scrive infatti che ‘svelare’  il massacro, mostrarne l’orribile realtà, è stato il modo con cui, “finalmente”, Israele ha spiegato, senza bisogno di troppe parole, “perchè il cammino verso la pace è così difficile”.

Le foto dei corpi uccisi, insomma, dice Pezzana, hanno un valore che va oltre quello dell’informazione sui fatti di Itamar: esse, per la prima volta, mettono di fronte alla tragica realtà tutti coloro che addossano ad Israele gran parte delle responsabilità per quella pace mille volte annunciata e non ancora raggiunta.
Viste in quest’ottica, le foto della famiglia Fogel diventano quasi uno strumento politico.

Ciò che a noi preme in questa vicenda, tuttavia, non è tanto dire come verranno lette ed utilizzate quelle foto; tantomeno dire se sia giusto o sbagliato pubblicarle; piuttosto ci interessa capire le ragioni che hanno determinato una svolta così importante nella storia di Israele.

In sessant’anni e più di esistenza, infatti, in Israele mai era stata concessa la diffusione delle immagini dei corpi straziati dalle bombe, dagli attentati dei terroristi-suicidi. Il ministro dell’informazione Edelstein ora lo ha fatto. Perche?
Noi che osserviamo le cose da lontano – e allo stesso tempo da vicino – come dobbiamo interpretare questa decisione? Perché il governo di Nethanyau ha deciso che è giunto il momento di mostrare al mondo i morti israeliani – senza tener conto del precetto religioso che vieta la vista dei morti? senza tenere troppo conto di quell’elettorato religioso a cui questo governo come pochi altri prima, è così attento; e senza nemmeno tener troppo conto, alla fine, che le immagini che ha concesso di diffondere riguardano e coinvolgono proprio una famiglia di religiosi?

“Io personalmente non avrei pubblicato quelle immagini, per nessuna ragione. Le immagini cruente non si pubblicano” ci ha detto Arrigo Levi.  Più che su coloro che hanno dato l’approvazione alla diffusione delle foto, Levi sembra puntare il dito sulla deontologia di chi ha deciso di pubblicarle. Il lettore o lo spettatore della TV, si trova a subire suo malgrado immagini che possono colpire la sua sensibilità, laddove con una parola come “sgozzare” si può trasmettere efficacemente e immediatamente l’informazione essenziale.

Secondo Marco Reis invece, giornalista e direttore di malainformazione.it, non solo è giusto ma doveroso pubblicare quelle immagini, a cominciare dal punto di vista del diritto all’informazione. C’è poi una seconda questione da considerare, secondo Reis: “a chi fa la guerra a suon di immagini (come fanno i palestinesi) bisogna rispondere con la stesso tipo di armi”. E Israele, questa volta lo ha fatto. Un aspetto da non sottovalutare, afferma Reis,  è anche quello della “capacità” informativa dell’immagine: la fotografia raggiunge un pubblico molto più ampio e vario di quello che raggiunge la parola scritta. “L’immagine è in grado di comunicare e informare anche laddove manca l’alfabetizzazione”.

Più cauto e in linea con Arrigo Levi, Mario Pirani. A suo avviso infatti, nel momento in cui si comunica che tre bambini e due adulti sono stati sgozzati, si sono forniti tutti gli elementi della notizia che si vuole trasmettere. “Certo è, osserva però Pirani, che se, l’approvazione alla diffusione delle foto della strage di Itamar si dovesse trasformare nell’ennesima occasione per criticare Israele e le scelte del suo governo, allora le cose cambiano”: “non sarebbe in alcun modo accettabile usare questa tragica vicenda per mettere ancora una volta in discussione, a livello internazionale, le decisioni del governo israeliano”.

Secondo Aldo Baquis, collaboratore dell’Ansa in Israele, la questione delle immagini della strage di Itamar non solo è delicata, ma sta provocando forte sofferenza fra gli israeliani.  La vista di quei cinque corpi straziati ha lacerato gli animi: da un lato, si percepisce lo shock per l’assassinio, per le foto; dall’altro lato c’è la rabbia, anche per i dubbi sulla matrice terroristica dell’omicidio, sollevati inizialmente da alcuni grandi giornali e network televisivi, CNN inclusa. Proprio questi “dubbi”, secondo Baquis, sono stati una delle molle che hanno fatto scattare l’inedita e inattesa risposta del ministro Edelstein.

In tutto questo però, osserva ancora Baquis, ciò che tiene unita e accomuna l’opinione pubblica israeliana nel suo complesso – dagli ultrareligiosi fino ai laici più radicali – è l’idea che quelle foto non dovessero essere diffuse. Un rifiuto, aggiungiamo noi, che il governo poteva prevedere e sicuramente ha previsto, ma che evidentemente, per una serie di ragioni più grandi, ha ritenuto di sfidare.
In tutti questi anni, le immagini dei morti uccisi, sono state una prerogativa palestinese. Quante volte li abbiamo visti mostrare i loro morti davanti alle cineprese, alle macchine fotografiche? E quante volte abbiamo visto l’opinione pubblica internazionale, “spostarsi”, reagire proprio perchè messa di fronte all’evidenza di quelle immagini?

Il “cedimento” di Israele alle fotografie, si spiega a nostro avviso non con l’intento di colpire la sensibilità dell’opinione pubblica; e nemmeno, forse, con una nuova strategia politica di medio periodo. Più semplicemente esse ci appaiono come un segnale, forte, fortissimo, della stanchezza, dell’esasperazione per i fuochi, veri, lanciati dai palestinesi e per quelli, mediatici, che periodicamente arrivano dai governi e dall’opinione pubblica internazionale.  A loro modo, quelle immagini rappresentano un  gesto estremo di difesa, e per la prima volta forse, una chiara ed esplicita richiesta d’aiuto. Staremo a vedere quali saranno gli effetti di questa “svolta”.