“Viaggio ai confini dell’impero” di Joseph Roth: reportage su un mondo che fu, prima della Shoah

Libri

di Ugo Volli

[Scintille. Letture e riletture]
Nonostante l’immane devastazione della Shoah, una buona parte dell’ebraismo attuale, negli Stati Uniti come in Israele e in Europa, deriva dalle comunità dell’Europa orientale, che parlavano Yiddish, e ancor più forte è il loro ricordo letterario, musicale, teatrale, innanzitutto religioso. Nel 1900 gli ebrei in Europa erano circa 9 milioni (oggi un milione e mezzo) su un totale di 12 milioni in tutto il mondo, di cui 4 milioni nell’impero russo (oggi 311 mila), 1.300.000 in Polonia (oggi 3.000), 850 mila in Ungheria (oggi 50 mila). Sono numeri che hanno fatto parlare dell’Est Europa come del “mondo yiddish”, ma in realtà gli ebrei erano sempre una piccola minoranza: il 16% in Polonia, il 4% in Ungheria, il 3% in Russia.

Noi li ricordiamo come una cultura autosufficiente e integra, a tratti travolta dai pogrom antisemiti. In realtà l’ebraismo orientale era parte di un mondo estremamente complesso, per popolazione, classi sociali, influenze culturali, religioni, atteggiamenti politici, compreso fra l’Europa e la già asiatica Russia centrale. Per questo è molto interessante leggere, oltre alle storie “interne” di questo mondo (per esempio Storia degli ebrei dell’Est di Haumann, pubblicato da Sugar o Yiddish di Paul Kriwaczek, Lindau) dei libri che parlano della regione, come Galizia di Martin Pollack (editore Keller) e soprattutto come Viaggio ai confini dell’impero di Joseph Roth (Passigli editore).

Roth è il popolare romanziere cantore della scomparsa monarchia asburgica di La marcia di Radezky, La cripta dei cappuccini, Fuga senza fine; ma fu anche un grandissimo inviato dei giornali di lingua tedesca e per essi scrisse quello straordinario reportage sulla Yiddishkeit che si intitola Ebrei erranti (ma al tema dell’ebraismo dedica anche il bel romanzo Giobbe).

Nel Viaggio gli ebrei sono sullo sfondo, emergono solo a tratti come mercanti o perseguitati. Quel che si legge in queste pagine di mirabile leggerezza e lucidità descrittiva è la turbolenza e la mescolanza di uno spazio geografico che dieci o dodici anni dopo i reportage di Roth sarebbero diventati lo sfondo della Shoah. Roth non ne intuisce i prodromi, dichiara amore e ammirazione per gli ucraini e i tedeschi orientali che ne sarebbero stati protagonisti, vede conflitti e tensioni più nel registro del folklore che della tragedia. Ma proprio per questo il libro è interessante: sono gli ultimi momenti di un mondo che sarebbe stato di lì a poco distrutto prima dall’atrocità dello sterminio nazista, poi dall’oppressione burocratica e ottusa del comunismo.