La salvezza è un treno perduto. Poi la Svizzera

Libri

di Ester Moscati

Guido Hassan scrive un memoir-avventura, dalla Libia dell’infanzia opulenta alle fughe lungo la penisola italiana. Incontri, speranze, paure viste con gli occhi di un bambino

È una sera di fine settembre, 1943. La famiglia Hassan, padre, madre e i due bambini Guido e Fiorella, sono a Baveno, sul Lago Maggiore. Le SS hanno insediato il proprio comando a pochi passi dall’Hotel Nazionale, dove gli Hassan vivono nascosti, e così il padre Gino decide di raggiungere Meina, dove c’è l’albergo di un ebreo turco, Alberto Behar, un facoltoso e generoso antiquario che già ospita numerosi correligionari. Sostare a lungo in stazione può essere pericoloso, così la famiglia si avvia all’ultimo minuto. Ma è troppo tardi, il treno sta già partendo. «Eravamo disperati, non potevamo tornare alle nostre stanze, già assegnate ad altri. Sconvolti, affranti, ci siamo accampati nell’atrio. Ma il giorno dopo scoprimmo che nell’Hotel Meina erano entrate le SS, che avevano arrestato tutti gli ebrei, trucidati e gettati nel lago». Una salvezza fortuita e provvidenziale.

È solo uno degli episodi narrati da Guido Hassan nel volume Auschwitz non vi avrà. Una famiglia di ebrei italiani in fuga dalla persecuzione nazifascista (edizioni San Paolo, scritto a quattro mani con Giuseppe Altamore, pp. 187, euro 18,00). La fuga è proprio la cifra del racconto, di una vita che, dalla Libia della prima infanzia opulenta e serena, si dipana attraverso l’Italia, con un lungo e angoscioso peregrinare che tocca città e campagne, Firenze, Crema, Milano, fino alla salvezza in Svizzera. Peripezie che segnano il carattere di un bambino di sei anni, costretto a lasciare indietro sicurezze e agiatezza, e a conoscere ogni sorta di avventure e personaggi. C’è il prete di Crema che li accoglie freddamente e li nasconde in una cantina umida, assediata dai topi; e c’è Ernesto May che porta loro da mangiare, anche le marmellate preparate dalla moglie, e che poi gli Hassan segnalarono a Yad Vashem per il riconoscimento di Giusto tra le Nazioni.

Anche il ricordo della fuga in Svizzera è ancora estremamente vivido nelle parole di Guido Hassan: «Arrivammo in mattinata a Varese. Mia sorella Fiorella, di quattro anni, e io eravamo assonnati e spaesati. Un contadino ci guidò a piedi verso una cascina in montagna, a ridosso del confine svizzero. Passammo la notte in un granaio e prima dell’alba venimmo svegliati per affrontare la salita verso il confine, nella neve che rallentava il cammino». In Svizzera la famiglia Hassan viene accolta, non senza difficoltà, e i bambini vengono affidati a due famiglie, che ricevevano un compenso statale per l’accoglienza dei profughi. Guido va a Zurigo presso la famiglia di Luigia Bertozzi, che lui chiama “zia Gigetta”: «Mi tenevano volentieri, mi rispettavano e non mi facevano mancare nulla. Ma una sera vidi sul tavolo una magnifica torta, che non mi offrirono. Non facevo davvero parte della famiglia». Per il bambino fu una grossa delusione, un’amarezza che ricorda ancora. A scuola invece veniva insegnato il rispetto, per le persone, gli animali, la natura: «Ne conservo un bellissimo ricordo. Quando la guerra finalmente finì, la maestra, che io adoravo, annunciò alla classe “il vostro compagno Guido fra pochi giorni tornerà a casa sua in Italia”. Tutti mi guardarono con rispetto e mi salutarono affettuosamente con un abbraccio premuroso e sincero».
Il ritorno in Italia per Guido Hassan e la sua famiglia fu una «corsa a ostacoli – racconta – il nostro appartamento era occupato dagli sfollati, dovemmo tornare in albergo. Ebbi un esaurimento nervoso… ma poi la vita riprese lentamente il suo corso».