Dalle spezie al vino, dal Leviatano ai vestiti di Re Davide: alla scoperta del valore simbolico del profumo nell’ebraismo

Libri

di Ugo Volli

È molto difficile spiegarlo in un mondo intellettuale i cui termini intellettuali sono profondamente plasmati dal cristianesimo, anche se ormai in larga parte è laico o secolarizzato; ma l’ebraismo non è una religione, almeno se per religione si intende la fede in una teologia, come per esempio la definisce la Treccani (“Complesso di credenze, sentimenti, riti che legano un individuo o un gruppo umano con ciò che esso ritiene sacro”). È di meno, perché nella Torà e nel Talmud vi è pochissima teologia, cioè pochissima teoria sull’essenza e la struttura del divino (anche se nella tradizione ebraica successiva, per esempio nella Kabbalah e nell’ermeneutica, questo discorso si è molto sviluppato). Ma è anche molto di più, perché l’ebraismo è una “forma di vita”, un mondo di senso che regola dettagliatamente i rapporti fra gli uomini, dunque il diritto, la politica, la famiglia, l’alimentazione, l’igiene, il modo di lavorare e di stare con gli altri, oltre naturalmente all’etica e alle forme del culto. Ma questi diversi argomenti non sono svolti l’uno isolatamente dall’altro, come se la Torà fosse un codice civile accanto a un codice penale, a un regolamento liturgico, a un libro di storia, a un trattato di morale – ognuno separato e distinto dagli altri, anche se l’esposizione li mescola continuamente. Al contrario vi è una fittissima rete di rimandi, di rime simboliche, di motivazioni, di parole ricorrenti che fanno sì che le abitudini del sonno di re Davide diano indizi sul modo di condurre la preghiera, o la regola che vale per il divorzio possa essere usata per illuminare certi dettagli sulla rivelazione del Sinai o ancora da certi passi profetici si possa capire come bisogna regolarsi in casi dubbi sull’alimentazione. Ogni dettaglio testuale, ogni formulazione legale, ogni racconto vale letteralmente, ma è anche portatore di una carica simbolica che si rifrange in tutta la vita ebraica. Per questo lo studio della Torà è letteralmente infinito.

Non si può che partire da questa considerazione per segnalare l’uscita di un libro che sembra avere un tema estremamente bizzarro e profano, perfino sensuale, il profumo nella tradizione ebraica, e invece ci porta in un viaggio simbolico che passa attraverso larghe parti della nostra tradizione. Il profumo dell’Eden di Matteo Corradini, appena pubblicato da Giuntina, parte da un rituale che gli ebrei osservanti conoscono e amano molto, quell’avdalà (separazione) che chiude lo Shabbat e le feste con l’accensione di una candela che viene poi spenta nel vino e (solo di Shabbat) con l’uso di spezie (bessamim) che vengono annusate per compensare la perdita della festa. Di qui Corradini passa all’incenso speciale che veniva preparato per il culto del Tempio, al simbolismo della formula tradizionale in cui era inserito anche qualche elemento di cattivo odore, per passare al rischio di idolatria connesso all’abuso delle spezie, per proseguire col profumo del sale e con quello del vino, con le benedizioni speciali prescritte sui profumi, con i vestiti di Adamo, il Cantico dei cantici, l’odore sconvolgente del Leviatano, il simbolismo delle torri spesso usato per i contenitori dei bessamim, che lasciano assai perplessi (perché mettere un profumo in una torre?), ma si capisce che alludono a un rapporto verticale di ascesa verso il cielo. È un percorso vertiginoso e affascinante, che si appoggia su vaste porzioni del Talmud e del Midrash, mostrando connessioni inaspettate fra riti, credenze, miti, abitudini, storie più o meno note. È uno dei mille viaggi intellettuali di ricerca che si possono fare nella ricchezza della forma di vita ebraica, interessante non solo per sé, ma per il fondamento metodologico su cui si basa: una rete simbolica che avvolge tutto, anche il dettaglio apparentemente insignificante della forma tradizionale di un oggetto o l’uso di certe spezie al posto di altre e allude al rapporto col divino come senso del mondo.