Dai Paesi arabi a Israele: il difficile destino dei mizrahim

Libri

di Davide Foa

Un libro ripercorre le tappe di una storia trascurata

 

Maabara 1950Anti-sionisti, delinquenti, aggressivi ma allo stesso tempo inetti: così la società israeliana vide e considerò i mizrahim per molti anni. Ma chi sono questi mizrahim? Quando arrivarono in Israele e perché? Il nuovo libro della storica Claudia de Martino, intitolato I mizrahim in Israele – La storia degli ebrei dei paesi islamici (1948-77) edito da Carocci Editore, analizza a fondo le vicende che portarono all’arrivo di questi nuovi immigrati e al loro difficile inserimento nella società israeliana. Una precisazione piuttosto importante: con il termine mizrahim la società israeliana indicò e indica tutt’oggi ebrei provenienti da diversi Paesi. Si tratta quindi di una semplificazione, volta a inquadrare in un unico grande gruppo, tutti quegli ebrei provenienti dai paesi islamici: Iraq, Yemen, Libia, Marocco, Algeria, Egitto, Tunisia, Siria, Oman, Bahrein, Libano. Fino al maggio 1948, solo il 10% degli ebrei immigrati in Israele proveniva da paesi islamici. In meno di vent’anni, nel 1967, i mizrahim erano diventati il 67%. Moltissimi arrivarono con quella ondata migratoria nota con il nome di “Grande Aliyah”, che va dal 1949 al 1952: in tre anni giunsero in Israele 686.000 ebrei, di cui 312.200 mizrahim.
Per la prima volta non si si trattò di un’immigrazione individuale, ma di una pienamente assistita dal governo israeliano. Infatti era volontà dello Stato di Israele riempire i territori su cui era nato, ma per gran parte poco popolati. «Abbiamo conquistato territori, ma senza insediamenti essi non hanno un valore decisivo (…) – dichiarava David Ben Gurion poco dopo la creazione dello Stato -. La colonizzazione è la vera conquista(…). Il futuro dello Stato dipende dall’immigrazione».
Proprio grazie alle continue ondate migratoriete, il neo-Stato presentava al suo interno una popolazione assai variegata, proveniente da diverse parti del mondo. Per questo la classe politica puntava alla creazione di uno specifico gruppo etnico israeliano chiamato “sabra”: senza una certa coesione sociale, sarebbe stato difficile affrontare i nemici esterni. Fin dal loro arrivo, i mizrahim rappresentavano, agli occhi delle autorità, le “cavie” perfette per un tale esperimento; lo Stato vedeva infatti nei mizrahim “dei contenitori vuoti in cui inserire nozioni di lingua e cultura ‘sabra’”. Un esperimento che però dovette incontrare non poche difficoltà, visti gli alti tassi di analfabetismo, almeno iniziali, e la scarsa disponibilità dei “vecchi immigrati” askenaziti nei confronti dei nuovi arrivati, considerati inferiori da un punto di vista culturale per la loro vicinanza con i modelli orientali; si temeva infatti che i mizrahim potessero allearsi con gli arabi, considerata la cultura comune e un equivalente stato di emarginazione.
Molti mizrahim furono accolti nelle cosiddette ma’abarot, campi destinati a sostituire le tendopoli di prima accoglienza. Il passo successivo alle ma’abarot furono le Development Towns, piccole città costruite negli anni Cinquanta, con lo scopo di dare una sistemazione migliore ai mizrahim, ma anche di diminuire la pressione demografica sulle grandi città.
In questi contesti si costruì l’identità mizrahi, capace di riunire tutti gli immigrati provenienti dai paesi islamici. Allo stesso tempo, le Development Towns contribuirono non poco allo sviluppo della società israeliana, costituendo il laboratorio sociale per la creazione di una vera e propria classe operaia di etnia mizrahi. Nacque così quello che viene chiamato “secondo Israele”: un gruppo poco rappresentato e raffinato, ma destinato a diventare determinante in settori quali l’esercito e il proletariato industriale.
La storia dei mizrahim ha sofferto, e soffre ancora oggi, di una totale mancanza di attenzione. Israele, così come la comunità internazionale, non ha saputo riconoscere il giusto valore alla storia di questi olim, costretti a lasciare il loro paese d’origine in seguito all’ondata di antisemitismo che ha coinvolto gran parte dei paesi arabi al momento della nascita dello Stato ebraico.
Se la Shoah fu a tutti gli effetti un dramma collettivo, la scomparsa di intere comunità ebraiche nel Medio Oriente non suscitò altrettanta empatia. E allora, l’importanza del libro della De Martino sta proprio nella capacità di rievocare una storia per molti anni trascurata, ma con effetti inevitabilmente nel presente.

 

Claudia  De Martino. “I mizrahim in Israele”, Carocci Editore, pp. 216, 23 €