Amori e dolori, gioie e matrimoni nella Londra ebraica di oggi

Libri

di Marina Gersony

Francesca Segal

Ai giovani il suo nome dirà poco o niente, ai più anziani evocherà un film che ha fatto storia e provocato singhiozzi planetari: Love Story, successo mondiale della Paramount Pictures negli anni Settanta, sette nomination e un Oscar per la musica di Francis Lai. Memorabili le star dell’epoca, Ryan O’Neal e Ali MacGraw, così come la mitica frase: «Amore significa non dover dire mai mi dispiace…».

L’autore e sceneggiatore di questo cult strappalacrime si chiamava Erich Segal o meglio, Erich Wolf Segal, nato a Brooklyn nel 1937 e figlio del rabbino Samuel Segal e di Cynthia Shapiro. Oggi incontriamo la figlia, Francesca, attraente e talentuosa (qualche remota somiglianza con la MacGraw di Love Story), e un nome tutto italiano che il padre le attribuì in onore del Belpaese: «Amava profondamente l’Italia – ricorda la ragazza -. E poi, è un nome classico». Nata nel 1980, cresciuta tra l’Inghilterra e gli Stati Uniti, si presenta con una vita strutturata e un curriculum comme il faut: studi prestigiosi al St. Hugh’s College di Oxford, un marito da un anno e mezzo («non abbiamo bambini, per ora») e collaborazioni come giornalista e critica letteraria a numerose testate, tra cui The Guardian, The Observer, The Daily Telegraph, Financial Times Magazine, The Tatler e The Jewish Chronicle.

Dice a proposito: «In questo mestiere bisogna essere umili, bisogna conoscere il lavoro degli altri. Io l’ho fatto per dieci anni. È stato fondamentale».

Con il suo libro di esordio, La cugina americana, ha conquistato pubblico e critica internazionali e vinto premi prestigiosi (Costa First Novel Award, National Jewish Book Award e Sami Rohr Prize for Jewish Literature).

Non c’è che dire.

Cosa ricorda di suo padre, un serio professore di letteratura greca e latina, approdato di colpo al successo? E di Love Story, numero uno ai box office del 1971?

«Scrisse Love Story ispirandosi a una storia vera – racconta l’autrice -. Inizialmente il suo agente lo scoraggiò dicendogli che un film simile avrebbe rovinato la sua immagine. Ma mio padre non si perse d’animo e portò avanti il progetto. Fece leggere la sceneggiatura a un’amica, si trattava di Ali McGraw. Ali decise che lo avrebbe fatto a tutti costi. Il successo cinematografico e letterario (il libro venne tradotto in 33 lingue, ndr) fu dovuto soprattutto a mio padre che era un grande comunicatore. I suoi editori lo capirono subito e seppero sfruttare questo suo talento di parlare in pubblico. Lo mandarono nei talk show, lo spedirono in giro per il mondo e lui divenne una celebrità. Se ho visto il film? Certo che l’ho visto, migliaia di volte. Ma da quando lui è morto, non riesco più a rivederlo».

Malato di Parkinson, Erich Segal scomparve nel 2010 all’età di 72 anni per un attacco cardiaco nella sua abitazione di Londra. La figlia parla di lui con infinito affetto e lo descrive come un padre importante per la sua formazione  di scrittrice e di donna. «Il suo nome mi ha indubbiamente aperto delle porte ma anche sottoposto a maggiori critiche. Mi ha insegnato a impegnarmi, a non adagiarmi e io seguo rigorosamente le regole che mi ha trasmesso».

Fin da piccola Francesca voleva scrivere e così è stato. «Non sapevo se sarei riuscita a farlo. C’è voluto molto coraggio ma ho sempre saputo che era quello che volevo. Non ho mai seguito corsi di scrittura. Da piccolissima mi sedevo alla scrivania di mio padre con la macchina da scrivere e creavo delle storie».

La scrittrice descrive la sua famiglia, una famiglia speciale, dove contavano poche cose fondamentali: «Al centro c’erano l’amore tra i miei genitori, l’attenzione alla lingua e alla scrittura. Stavamo spesso insieme a discutere seduti sul divano. Discutevamo di contenuti, di frasi, di parole e cercavamo i sinonimi e i contrari. Mio padre era lo scrittore, mia madre l’editor. I miei genitori erano davvero competenti e continuano ad essere i  miei punti di riferimento».

Quella di Francesca era ed è una tipica famiglia ebraica, con le sue luci e le sue ombre, le sue contraddizioni e le sue trasformazioni nel corso delle generazioni: fughe, deportazioni, diaspora, assimilazione e ritorno alla propria ebraicità profondamente sentita e radicata: «Mia mamma è ungherese, per esattezza transilvana; mio nonno scappò con il movimento giovanile nel 1942 in Palestina. I miei bisnonni materni scomparvero a Bergen Belsen, altri  membri della famiglia ad Auschwitz. In seguito mia nonna si trasferì da Israele a Londra. Mio padre era americano ma di origini polacche e lituane. Il nostro cognome, Segal, è lo stesso di Marc Chagall, il cui vero nome era Moishe Segal, un cognome levita».

La scrittrice si illumina quando parla di ebraismo, un tema che le sta molto a cuore. Come molti giovani ebrei di terza o quarta generazione dopo la Shoà, è ansiosa di conoscere la storia di famiglia: «Mio nonno e il mio bisnonno paterno erano rabbini. Io sono cresciuta in una famiglia di Reform, anche se i Reform inglesi sono molto diversi da quelli americani. Mio marito e io non siamo religiosi. Siamo secolari. Non andiamo spesso al tempio, anche se l’aspetto etico-morale dell’ebraismo per noi è molto significativo. Come importanti sono le feste, soprattutto Shabbat. Sono rituali che scandiscono l’anno e ci aiutano a tenere viva la nostra spiritualità. Mio padre ci teneva molto che mia sorella di otto anni più giovane ed io rispettassimo le festività. Per il resto, mi sento molto legata alle mie origini. Mi piacerebbe andare in Transilvania con mia nonna che oggi ha 91 anni. E poi vorrei conoscere l’ebraismo in Italia di cui so poco o niente, tranne che è di rito italiano. Sono curiosissima».

Non a caso l’ebraismo – insieme all’amore con la “A” maiuscola – è il tema centrale del suo libro La cugina americana; un ebraismo moderno e insieme antico, dove tutto convive, si incontra e si scontra: ortodossia ebraica, mondo conservative, secular o reform; un mondo dove c’è chi festeggia Chrismukah (Christmas+Chanukkà), e chi ha i brividi pensando al proprio figlio che sposa una shikse.

I personaggi sono quelli tipici di una famiglia ebraica: Ziva, la nonna saggia e di ampie vedute con un vissuto tragico e cosmopolita, testimoniato dal duro accento austro-yiddish-ebraico che nemmeno i molti decenni vissuti a Londra hanno scalfito; sua figlia Jaffa, conformista e contraria a ogni tipo di assimilazione, rintanata nella sicurezza della comunità, come accade a molti figli di sopravvissuti che hanno visto crollare il mondo. C’è Rachel, la nipote seria e brava, costretta a misurarsi con la tradizione e la modernità, per poi elaborare nuovi scenari dell’anima. C’è infine Ellie, la cugina americana, bellissima, infelice e anticonformista, sopravvissuta alla morte della madre in un attentato terroristico in Israele e alla decisione del padre di portare la piccola con sé in giro per il mondo. Sarà lei, cacciata dalla Columbia University perchè comparsa in un film erotico, ad approdare a Londra e a sconvolgere la vita dei suoi parenti.

«I personaggi del mio romanzo, tranne qualche riferimento a Ziva, non hanno nulla a che vedere con i miei famigliari», precisa Francesca.

Di fatto molti potranno trovare in questo libro qualcosa che rievoca la propria storia: dall’Austria al Mandato britannico della Palestina, da Israele a Londra, dagli Stati Uniti all’Europa odierna, in tre generazioni sono racchiusi i topoi dell’ebraismo, che fluttuano dalla sofferenza, all’elaborazione alla speranza  alla rinascita.

La scrittrice – che ha preso esplicitamente a modello L’età dell’innocenza di Edith Warthon – trasporta la comunità delle regole ferree della New York di fine Ottocento nel mondo ebraico (e non solo) di oggi, riproponendo in chiave contemporanea abitudini, tradizioni, sentimenti, scandali finanziari e pseudo felicità famigliari.

A questo punto non resta che leggere il libro, una storia ambientata a Hampstead Garden, nordovest di Londra, nel quartiere della buona borghesia ebraica, ricca, istruita, liberal e solidale, dove tutti conoscono tutti, tutti frequentano tutti, tutti sono pronti a soccorrere chiunque si trovi in difficoltà. Adam e Rachel si amano sin dall’adolescenza, stanno per fidanzarsi e la comunità ebraica segue l’evolversi della loro relazione, aspettandosi il matrimonio e i figli.  Tutto va come dovrebbe andare fino a quando, da New York, arriva Ellie, la bellissima cugina americana…

La cugina americana, titolo originale The Innocents, editore Bollati Boringhieri, traduzione di Manuela Faimali, pp. 340, euro 17,50