«Vi racconto il mio Paese dell’anima, la mia patria interiore»

Eventi

di Nathan Greppi e Fiona Diwan

Convegno Autobiografia ebraica: identità e narrazione nella produzione letteraria e artistica di autori ebrei, dalla Bibbia all’età contemporanea

 

C’è la tumultuosa vita di Giuseppe Flavio, che emerge tra le righe del racconto di Masada, di una guerra giudaica della Roma imperiale sotto Vespasiano. C’è il turbine emotivo e sofferto della narrazione che il viennese Stefan Zweig fa di se stesso, poco prima della morte, per suicidio: nella Novella degli scacchi, sua ultima opera, c’è tutta la vertigine del suo smarrimento esistenziale di fronte alla Shoah e al nazismo. E ancora: c’è la “patria interiore” di Marcel Proust, elemento ebraico per eccellenza, quella nozione di perdita di un centro a fronte dell’interiorizzazione della propria identità profonda. E poi ci sono le autonarrazioni testimoniali e romanzesche di Primo Levi e Aaron Appelfeld, quelle filosofiche di Leone da Modena e Jacques Derrida, quelle esistenziali di Etty Hillesum, l’autobiografia per immagini di Charlotte Salomon, o addirittura il doppio narrativo dei personaggi maschili di S. J. Agnon, quell’Iztchak Kumer di Appena Ieri, che altri non è se non un se stesso a malapena camuffato.

Ma esiste una forma peculiare di autobiografia ebraica? Come si definisce l’autonarrazione della memoria, dell’identità, della propria specifica peculiarità ebraica, sia essa diasporica che israeliana, e in che termini è possibile parlarne? Ne hanno discusso un pool di studiosi durante un convegno svoltosi a novembre, all’Università Statale di Milano, dal titolo Autobiografia ebraica: identità e narrazione nella produzione letteraria e artistica di autori ebrei, dalla Bibbia all’età contemporanea, convegno voluto e ideato da Maria Mayer Modena e da tutte le sue allieve e studiose.

«Nell’opera di Marcel Proust, l’ebraismo e l’autobiografia possono trovare un terreno comune nella psicoanalisi freudiana. È l’idea della creazione letteraria come decifrazione di un libro interiore. È la teoria secondo la quale a comporre un’opera non sarebbe affatto il nostro Io di superficie, esteriore, mondano, ricostruibile attraverso le testimonianze di chi ci ha conosciuto ma bensì un Io profondo… È l’ascolto di questa soggettività deputata alla creazione che mette l’artista in contatto con la sua vera patria – (“patria sconosciuta, dimenticata da lui stesso”)… Il primo abbozzo di questa teoria della patria interiore compare nella Prisonnière, ed è stato elaborato da Proust proprio negli anni in cui più violentemente montava l’onda nazionalista e antisemita generata dall’Affaire Dreyfus (com’è noto Proust si schierò decisamente a favore della revisione del processo)… Così prende corpo quella particolare forma di autobiografia che è la scrittura romanzesca proustiana», spiega Eleonora Sparvoli, ricercatrice all’Università Statale. «Si può parlare di biografie nel Tanakh? Non credo», spiega Rav Alfonso Arbib: «il Tanakh non ha come obiettivo il raccontare la Storia. Prendiamo l’esempio di Re Menashe di Giuda: nel Tanakh viene raccontato solo il suo regno, non la sua biografia. Stesso discorso vale per Abramo, che all’inizio della sua storia, nella Torà, ha già 75 anni (e fino ad allora avrà pur fatto qualcosa!), – spiega Arbib-. Quello più “biografato” potrebbe essere forse Yosef-Giuseppe ma la sua è una storia di tragedia e la Torà ce la restituisce diffusamente, è la storia del popolo ebraico che va in esilio. Yosef cerca per tutta la vita di ricostruire il rapporto con i fratelli, e quando il faraone gli chiede l’età, lui risponde “Ho pochi e cattivi anni”. Fondamentalmente, non troviamo autobiografia nel Tanakh».

Ma qual è allora la prima forma di autobiografia della storia ebraica? Quella di Flavio Giuseppe, scritta in greco antico: «L’autore ci offre un resoconto della guerra e parla della propria vita in un periodo importante per la storia ebraica: è il tempo della distruzione del Secondo Tempio e della deportazione, oltreché di un forzato cambiamento del culto. Flavio Giuseppe è l’unico testimone di tutto ciò, unico personaggio che lo racconta, anche perché le fonti sono poche», spiega Francesca Calabi, Università di Pavia. E prosegue: «Flavio Giuseppe dà un’immagine di sé e della Storia. Nella sua Autobiografia, dopo aver combattuto nella Guerra Giudaica e dopo essere stato prigioniero, è divenuto interprete e traduttore per l’esercito romano e ripercorre le fasi della sua vita e del conflitto che ha modificato per sempre la storia del popolo ebraico. Egli ci fornisce un resoconto storico, ma fa anche uso dell’immaginario per ricostruire una situazione difficile, scelte non scontate e che hanno suscitato accuse di tradimento nei confronti di Giuseppe Flavio». Non a caso, fu più volte accusato di voler ottenere i favori dell’imperatore Vespasiano, tanto che ne divenne consigliere e dopo la guerra si trasferì nell’Urbe. La Calabi ha concluso ricordando quando anni dopo, ormai vecchio e stabilitosi a Roma, dove morirà, decise di scrivere il libro forse per salvare il salvabile e giustificarsi, e ciò «fa sì che Giuseppe Flavio vada ricordato soprattutto come portatore di memoria».

Il convegno ha poi affrontato le autobiografie di rabbini italiani vissuti nel 1500: dall’Iggeret Levanon, memorie in cui il rabbino estense Mordechai Dato narra la sua visita nella Terra Promessa (preso in esame da Michael Ryzhik, Università Bar-Ilan), al celebre Hayye Yehuda, autobiografia del rabbino veneziano Leon da Modena, preso in esame da Maria Modena Mayer, ex docente di Letteratura ebraica, oggi in pensione. Diverso il tema trattato dalla ricercatrice Erica Baricci, che ha spiegato l’importanza nei manoscritti ebraici dal colophon, elemento situato a fine testo che serve a descrivere dove, quando e da chi è stato prodotto. «Alcuni colophon – ha dichiarato Baricci -, diventano uno spazio di scrittura che il copista si concede per parlarci di sé. Abbiamo così colophon in cui sono ricordati momenti precisi dell’esistenza di colui che ha vergato la nota, oppure la sua genealogia, o l’occasione che l’ha portato ad approntare il lavoro di copiatura; in certi casi leggiamo persino di avvenimenti di storia, di cui lo scriba è stato testimone. I colophon di manoscritti ebraici in quanto veicolo di conoscenza storica sono stati ampiamente studiati; gli stessi testi, però, non sono stati osservati in una prospettiva autobiografica, come momento in cui il copista narra non solo di quanto accade intorno a lui, ma anche di sé e dei suoi sentimenti».

Anna Linda Callow, docente di Lingua Ebraica, ha parlato invece delle autobiografie filosofiche, quelle di Solomon Maimon e Jacques Derrida: «Nella biografia di Maimon i fatti sono fagocitati da temi filosofici, mentre in Derrida sono stralci, a volte solo date», ha spiegato la Callow. Bruno Falcetto, docente di Letteratura Italiana, ha affrontato i racconti fantascientifici, Storie naturali, di Primo Levi, spiegando che con questi Levi tentò di proporre un nuovo tipo di scrittura che non fosse di testimonianza. «Storie naturali costituisce un momento chiave nel percorso di definizione della sua identità letteraria, uno spazio decisivo di riconfigurazione dei modi della sua scrittura. Il testo – incorniciato da riflessioni narrative sulle radici sensibili del ricordare, del leggere e dello scrivere – presenta, nelle vesti lievi e sottilmente inquietanti di una rapsodia di storie paradossali, un nodo intenso e complicato di questioni personali, artistiche, editoriali, di cui l’adozione dello pseudonimo è segnale significativo».

Docente e traduttrice dall’ebraico, Claudia Rosenzweig, ha parlato dell’autobiografia Per curiosità di Cesare Segre, mentre un intervento molto personale è stato quello della psicologa Silvia Vegetti Finzi, che in Una bambina senza stella narra la sua infanzia di “mezzosangue” ai tempi del fascismo. Lo storico Carlo Riva e la germanista Anna Chiarloni hanno parlato dell’opera di Fred Wander, scrittore ebreo viennese e superstite di Auschwitz: l’opera, secondo la Chiarloni, «è una significativa testimonianza letteraria della persecuzione ebraica, a partire da Der siebente Brunnen, un testo pubblicato nella DDR, dove l’autore visse tra il 1955 e il 1983».

Ben due interventi sono stati invece dedicati all’autore tedesco Stefan Heym: «Proprio la memoria della Shoah, coltivata nel ricordo dei parenti scomparsi ad Auschwitz, risponde in Nachruf a un imperativo etico: quello di tenere viva la coscienza contro l’oblio», hanno detto Daniela Nelva e Maria Luisa Bignami.
La Novella degli scacchi dell’austriaco Stefan Zweig è invece stata al centro dell’intervento di Serena Spazzarini: ultimo scritto prima di suicidarsi, narra la vita di un personaggio fittizio, il Dottor B, ma ispirata ai suoi ultimi giorni di vita in Brasile, dove si era rifugiato per sfuggire ai nazisti. «L’(auto)biografia finzionale di Dottor B – uomo di raffinata cultura e sensibilità, incapace di salvare se stesso se non abdicando dalla finale partita a scacchi giocata contro il campione mondiale Czentovic -, si sovrappone alle vicende biografiche dello stesso Zweig, consentendoci di comprendere pienamente il tormento emotivo e psicologico che visse l’autore prima e durante l’esilio».

Il convegno è andato avanti affrontando vita e opere di altri numerosi autori: da Aharon Appelfeld ad Anna Frank, dalla pittrice tedesca Charlotte Salomon, morta ad Auschwitz a soli 26 anni, al Diario di Etty Hillesum, anch’essa morta ad Auschwitz. «Il Diario, iniziato l’8 marzo 1941, riflette il tumulto di sentimenti, passioni, emozioni della giovane intellettuale olandese e diventa vieppiù una riflessione sulla condizione umana, senza mai rinunciare alla speranza». E ancora: Andrea Meregalli ha parlato di Zenia Larsson, scrittrice polacca ma emigrata in Svezia nel ’45. «Presto si rese conto di non essere in grado di tradurre in parole la propria esperienza; scrisse così una trilogia di romanzi ambientati nel ghetto di Lòdz, subito prima della liquidazione. L’esperienza autobiografica permea questi testi facendone un esempio significativo di ‘autofiction’, in cui la focalizzazione si concentra sempre più sulla protagonista, ‘alter ego’ dell’autrice, di cui ricalca le orme fino all’arrivo in Svezia», ha affermato Meregalli. E infine, la letteratura ebraica dell’America Latina, quella di due autrici come Eugenia Sacerdote de Lustig, (fuggita in Argentina nel ‘39 e che in De los Alpes al Rio de la Plata narrerà le storie degli ebrei italiani emigrati), e dell’ebrea messicana Margo Glantz, tra le più importanti scrittrici viventi del suo Paese: «opere autobiografiche in cui la memoria individuale diventa memoria collettiva, la testimonianza si fonde con la finzione e l’autobiografia si trasforma in cronaca». Dopo il Sudamerica, la Francia: Alessia Cassani, ha introdotto Letra a Antonio Saura, scritta dal francese sefardita Marcel Cohen («un libro-lettera davvero bellissimo»), mentre Jole Morgante ha invece parlato di Georges Perec, concentrandosi sul libro W o il ricordo d’infanzia, nel quale si intrecciano due testi diversi: uno è un romanzo fittizio, l’altro un’autobiografia sull’infanzia dell’autore, ambientata durante la guerra. Marco Castellari ha analizzato le opere dello scrittore e drammaturgo ebreo tedesco Peter Weiss (1916-1982), «dove emergono elementi autobiografici che s’intrecciano a personaggi fittizi (dal Marat/Sade a L’istruttoria fino a Hölderlin) o nei racconti autobiografici Congedo dai genitori e Punto di fuga. Tale percorso culmina nello straniante romanzo-saggio L’estetica della resistenza». Due gli interventi in ebraico, dedicati ad autori israeliani: Yaniv Hagbi ha analizzato i tratti autobiografici del Premio Nobel Shmuel Yosef Agnon, mentre Sara Ferrari ha parlato dell’autobiografia giovanile Ha Hayim Ke Mashal di Pinhas Sadeh.