Uno Stato per gli ebrei? No grazie, meglio la Diaspora

Eventi

di Ugo Volli

Identità religiosa o identità secolare? Diasporica o nazionale? Non si può capire il dibattito israeliano contemporaneo senza conoscere la polemica che infiammò il mondo ebraico
per quasi un secolo. Fin dall’Ottocento, molti ebrei si opposero alla creazione di uno Stato ebraico indipendente. Una pulsione di rifiuto, un ostracismo che ancora abita parti dell’ebraismo
di oggi. Un’analisi che parte da lontano…

Fin dalla sua nascita Israele soffre dello sgradevole privilegio di essere il solo Paese al mondo che i suoi nemici non vogliono solo sconfiggere per togliergli territori, ricchezze o cambiarne il regime, come accade nelle guerre normali; ma che invece si propongono di “cancellare dalla carta geografica”, con il conseguente genocidio. Questa è una conseguenza dell’antisemitismo islamico o occidentale, e non ne parliamo qui. Ma c’è un’altra particolarità in qualche modo parallela: Israele è il solo Paese al mondo che alcuni dei suoi stessi cittadini o possibili candidati alla cittadinanza ovvero u n certo numero di ebrei) hanno considerato illegittimo fin da prima della sua costituzione e hanno continuato a farlo nei settant’anni che sono seguiti. È una storia minore, che riguarda oggi minoranze molto esili, ma che merita di essere considerata, non solo per la sua singolarità e perché si collega alla guerra senza quartiere che gli portano i suoi nemici, ma anche perché implica un dibattito culturale e religioso di notevole importanza per gli argomenti usati e per i personaggi che vi hanno partecipato.

È una storia che incomincia prima della nascita dello Stato, addirittura prima della costituzione formale del movimento sionista. Nel 1897 Theodor Herzl cercò senza successo di convocare il congresso costitutivo del movimento sionista a Monaco, dove viveva una consistente comunità ebraica, ma questo gli fu impedito dalla reazione estremamente negativa della comunità ebraica locale e dell’Associazione dei rabbini tedeschi. Uno di essi, Moritz Gudemann, pubblicò addirittura un pamphlet, intitolato ironicamente Ebraismo nazionale per spiegare che l’idea di uno Stato ebraico era addirittura antisemita: “Un ebraismo con cannoni e baionette confonderebbe il ruolo di Davide con quello di Golia e sarebbe solo un fantoccio di se stesso”. Gudemann era tutto sommato un moderato, scriveva in tedesco e non in yiddish e discuteva secondo modalità occidentali. Negli Shtetl dell’Europa orientale la battaglia antisionista da parte delle autorità religiose fu molto più dura e continuò fino alla Shoah e in certi casi anche dopo. All’altro estremo dello spettro ebraico vi fu una dura opposizione anche da parte degli ambienti di sinistra, non solo i bolscevichi che nei successivi decenni avrebbero rinunciato del tutto al loro ebraismo, ma anche i “bundisti”, cioè i membri del partito socialista ebraico che si contrapponeva al sionismo e anche alcuni “sionisti culturali” scarsi di numero ma ricchi di prestigio culturale, fra cui innanzitutto Asher Zvi Hirsch Ginsberg (Ahad Ha’am), il quale sosteneva che la costituzione politica dello Stato potesse essere perseguita solo in seguito al rinnovamento della cultura ebraica e insisteva sulla necessità di trovare un accordo con la popolazione araba. Il suo è un itinerario molto personale, ma che ebbe influenza sulle posizioni di grandi personaggi come Martin Buber e perfino Weizmann.
Dopo molti sforzi di Herzl, alcuni gruppi religiosi e progressisti entrarono nel movimento sionista. E soprattutto presero parte dagli anni Venti alla vita dell’insediamento ebraico in Terra di Israele: da un lato una figura importante come Rav Kook fondò le basi teoriche di una giustificazione religiosa del ritorno. Dall’altro, il movimento sionista si scostò dalle basi liberali di Herzl, assunse una forma di socialismo profondamente originale. Restarono però le due opposizioni, che ci sono ancora oggi. Da un lato vi è una freddezza di buona parte del movimento haredì nei confronti della costituzione di uno Stato laico, non retto dalla Torà ma dalla legge civile (e fondato prima che giunga Mashiach): una freddezza che diventa aperta ostilità in gruppi come i Naturei Karta o i chassidim di Satmar. Vi sono alcuni testi talmudici molto citati che sembrano proibire questa anticipazione. Per una discussione di queste posizioni, molto differenziate fra loro, il testo più importante disponibile in italiano è La fine svelata e lo Stato degli ebrei di Avier Ravitzky, pubblicato una decina di anni fa da Marietti.

Dall’altro lato vi sono state numerose posizioni “progressiste” più o meno scettiche, se non francamente ostili alla nascita di Israele. Il movimento reform, nelle sue prime piattaforme rifiutava la nozione di Israele come un Popolo e proponeva agli ebrei di considerarsi solo membri di una religione, senza più alcun rapporto con la terra di Israele. Queste posizioni hanno, per esempio, influenzato la grande freddezza del più importante giornale di proprietà ebraica al mondo, il New York Times, che ha riferito con distacco della Shoah (come racconta un libro documentatissimo e agghiacciante: Buried by the Times di Laurel Leff) e ha accolto senza il minimo entusiasmo l’indipendenza. Contro l’indipendenza si schierarono del resto alcuni influentissimi protagonisti dell’ebraismo americano, come Yehuda Leib Magnes, fondatore della Hebrew University di Gerusalemme e Hannah Arendt, che fecero campagna contro lo Stato ebraico proprio mentre era impegnato a difendersi dall’attacco di soverchianti eserciti arabi.

Poi, con la vittoria e lo stabilirsi dello Stato di Israele, le posizioni tanto del movimento reform quanto di personaggi pubblici come Arendt divennero più amichevoli, almeno fino al caso Eichmann per la filosofa e agli scontri recenti per i riformati. Alcune posizioni di critica aspra delle politiche israeliane, per esempio a proposito delle trattative con l’Autorità Palestinese, vengono da questa fonte.

C’è poi però anche un movimento intellettuale di opposizione all’esistenza allo Stato di Israele o alle sue politiche che è nato dall’interno stesso dello Stato, fin dal momento della difficilissima scelta fatta settant’anni fa, quasi da solo, da David Ben Gurion. La storia romanzata di uno di questi oppositori e dell’isolamento in cui cadde è al centro dell’ultimo romanzo di Amos Oz, Giuda. Ma l’opposizione è emersa soprattutto in seguito, a partire dagli anni Ottanta, quando l’impronta socialista di Israele cominciò a svanire, soprattutto con quel gruppo di intellettuali che furono definiti “nuovi storici” come Zeev Sterhell, Ilan Pappé, Baruch Kimmerling, Avi Shlaim, Tom Segev. Ne faceva parte, salvo poi cambiare idea e smontare le inesattezze dei colleghi e il carattere ideologico del movimento anche Benny Morris. La linea comune di questi autori è che Israele sarebbe nato con un “peccato originale”, cioè che le politiche e le mosse militari che portarono all’indipendenza fossero macchiate da prevaricazioni, violenze e talvolta da vere e proprie stragi. All’inizio, la rottura dei miti fondatori dello Stato fece molto colpo; poi emerse che in queste ricostruzioni vi erano esagerazioni e ingiustizie e si capì che quasi nessun grande fenomeno storico è immune da colpe ed errori. L’impatto di questo revisionismo storico è dunque ormai pochissimo rilevante nell’opinione pubblica israeliana, ma è rimasta una rottura con alcuni gruppi intellettuali e giornalistici che si pensano più avanzati o progressisti dell’elettorato e si sono distaccati dal sionismo. È un fenomeno poco rilevante sul piano politico (solo l’estrema sinistra di Meretz ha rinunciato a definirsi sionista), ma che ha soprattutto eco all’estero e in particolare negli Stati Uniti, fra quei gruppi, anche ebraici, di estrema sinistra, che boicottano Israele. Insomma, dietro alle opposizioni all’esistenza di Israele che qua e là toccano anche frammenti del mondo ebraico, estremisti religiosi o politici che siano, vi sono storie complesse e contraddittorie, di cui gli interessati spesso non sono consapevoli.