Musicisti, filosofi, attori… luci “jewish” sulla città

Eventi

di Paolo Castellano, Marina Gersony e Roberto Zadik

Grande successo per la quarta edizione del Festival Jewish in the City: arte, danza, cultura, pensiero…

Oltre 2000 persone presenti, fra l’1 e il 3 dicembre, ai diversi eventi  della kermesse culturale organizzata per il quarto anno dalla Comunità Ebraica di Milano,
registrando il “tutto esaurito”. A conferma del ruolo di primo piano che il Festival  si è conquistato nel panorama degli appuntamenti milanesi

 

Rav Alfonso Arbib, Rav Shlomo Bekhor, Raffaele Besso, Davide Parenzo, Andrée Ruth Shammah, Rav Roberto Della Rocca

«Una grande soddisfazione, al di sopra delle nostre aspettative: fin dal primo giorno, in cui abbiamo dovuto inserire una seconda replica dello spettacolo teatrale Oh Mio Dio!, perché il primo era esaurito; fino alla chiusura, quando abbiamo deciso l’accensione della seconda candelina di Chanukkà al Memoriale della Shoah: un momento molto toccante, con cui abbiamo creato un ponte fra passato e futuro». Parla con orgoglio Gadi Schoenheit, consigliere delegato a Jewish in The City nella quarta edizione del Festival, svoltasi dall’1 al 3 dicembre e dedicata al tema “Luci della città”. Un’edizione che ha richiamato, in totale, oltre 2000 persone a seguire gli eventi di eccellente livello organizzati dalla Comunità Ebraica di Milano, e che ha confermato il ruolo di primo piano del festival fra gli eventi culturali rivolti alla città.
«Sono stati tutti momenti piccoli, ma preziosi – continua Schoenheit -: dal dibattito con Massimo Recalcati e Rav Della Rocca al divertente spettacolo di David Parenzo, dalla video-intervista a Vera Vigevani al coinvolgimento, il 3 dicembre, di tre scuole milanesi alla rappresentazione dello spettacolo di Amichai Pardo. Il tutto spendendo addirittura un quarto della cifra rispetto alle precedenti edizioni».
Molto soddisfatto anche Rav Roberto Della Rocca, direttore scientifico di Jewish in the City. «Si è concluso un altro Festival di cui la Cem può ritenersi molto soddisfatta sia per la qualità dell’offerta culturale, sia per la partecipazione di tanti cittadini che hanno mostrato interesse nei confronti di tutte le varie manifestazioni – dichiara a Bet Magazine-Bollettino -.
È stata particolarmente toccante e significativa la serata conclusiva del Festival al Memoriale della Shoah. Accendere i lumi di Chanukkà in quello che è il posto più buio della città di Milano, il binario 21, da dove tante persone venivano deportate nei campi di sterminio, ha sottolineato ancora di più il miracolo della sopravvivenza del popolo ebraico, testimoniando l’invito a tutti gli uomini a non lasciarsi intimidire da ogni sorta di prevaricazioni e sopraffazioni».
Un’edizione, dunque, all’insegna della “luce” di Chanukkà, ma anche, in senso più ampio, della speranza, e un momento particolarmente importante, per la Comunità Ebraica di Milano, nel ricordo delle infami Leggi Razziali, approvate 80 anni fa, nel nostro Paese.

In scena l’umorismo yiddish
Il Festival si è aperto la sera di sabato 1 dicembre al Teatro Dal Verme con il divertente spettacolo teatrale Oh Mio Dio! di Anat Gov, per la regia di Ketty Di Porto e Paola Traverso, che porta in terapia psicologica niente meno che il Padre Eterno. Un testo originale, profondo e divertente allo stesso tempo, pervaso nella migliore tradizione yiddish da un umorismo sagace, interpretato in modo eccellente da Ketty Di Porto e Alessandro Vantini.

La speranza per il futuro
Gli incontri del 2 dicembre alla sinagoga di via Guastalla sono stati introdotti dai saluti istituzionali dei rappresentanti della Comunità ebraica di Milano e del Comune di Milano. Moderati dal vice-assessore alla cultura con delega a Jewish in the City Gadi Schoenheit, sono intervenuti Raffaele Besso (co-presidente della Comunità di Milano), Filippo Del Corno (assessore alla Cultura del Comune di Milano), Renato Saccone (neoprefetto di Milano) e Rav Alfonso Arbib (Rabbino capo di Milano).

 

Gadi Schoenheit

I discorsi d’apertura hanno avuto come minimo comune denominatore la speranza per il futuro, nonostante le ombre del presente.
Il prefetto Saccone ha insistito sui valori della democrazia che «si arricchisce grazie al rapporto tra identità e differenze». «La divisione ci impoverisce e imbarbarisce -ha dichiarato -. La democrazia tutela la ricchezza delle differenze». «La nostra città sta vivendo un’intensa fase di vivacità culturale, anche se la ricchezza culturale non riesce a essere la nota determinante nella cupezza dei nostri tempi», ha sottolineato Del Corno, ricordando che ancora oggi circolano quelle «parole che riportano i fatti del tempo delle Leggi razziali», alle quali dobbiamo esprimere la più ferma riprovazione. Allo stesso modo, Raffaele Besso ha ribadito l’ammonimento dei suoi predecessori: «L’ebraismo vivo si nutre del passato e si proietta verso il futuro».
Rav Arbib ha infine concluso l’apertura del festival con un ragionamento sul valore simbolico della luce, tema della kermesse culturale ebraica. «La luce è un simbolo universale. Esistono tuttavia diverse interpretazioni della luce». Arbib ha citato Rav Soloveitchik, uno dei rabbini più importanti del Novecento, che commentò un verso della Torah riguardante la promessa di discendenza di Abramo. «Si dice che la sua discendenza sarà come le stelle del cielo, intese però non come numero – e infatti noi ebrei non siamo numerosi -, ma come fonte di luce, punti luminosi nell’oscurità. Le stelle sono il simbolo della luce che convive con il buio». Il Rabbino capo di Milano ha infatti dichiarato che quando calano le tenebre non si distingue più nulla. «Maimonide dice che il buio sono le idee che vengono accettate dalla società così come sono, senza critiche», ha specificato, sostenendo che la luce sia allora il simbolo del ragionamento che si contrappone all’omologazione delle ideologie. «La tradizione ebraica ha questo obiettivo: provare a pensare e ad agire diversamente, affermando la propria identità», ha concluso il Rabbino Capo, aggiungendo che il buio – come ricordava il rabbino Naftali Amsterdam – “non se ne va via, ma si nasconde”. «Sbagliamo se pensiamo di aver scacciato definitivamente l’oscurità».

La luce dell’educazione, ricordando rav Giuseppe Laras
Dopo i saluti istituzionali, si è svolto l’incontro Il cammino di Rav Laras: la luce dell’educazione tra resistenza e ricostruzione, moderato da Andreé Ruth Shammah, direttrice del Teatro Franco Parenti. Durante l’evento sono intervenuti Massimo Recalcati (psicoanalista e scrittore) e Rav Roberto Della Rocca (direttore scientifico di Jewish in the City). Dopo aver ricordato affettuosamente la scomparsa di Rav Giuseppe Laras, Andreé Ruth Shammah ha chiesto a Recalcati un’opinione sulle sfide educative dei genitori al tempo d’oggi. Lo psicoanalista ha inizialmente citato il filosofo francese Emmanuel Lévinas, che sostenne l’unicità del figlio, anche in famiglie numerose. «Lévinas sosteneva che ogni figlio, in quanto figlio, è unico, e porta con sé i tratti dell’insostituibilità». Recalcati ha dunque dichiarato che un bravo genitore deve intuire le necessità singolari di un figlio, per accendere il desiderio, con l’obiettivo di allontanare una gioventù depressa: «Se una vita non è illuminata dal desiderio non è vita, è morte».

Massimo Recalcati, Andrée Ruth Shammah, Rav Della Rocca

Lo psicanalista ha poi sostenuto che senza il desiderio la vita si ripiega su sé stessa. «Oggi la nostra società è afflitta dalla depressione, perché c’è molto godimento e poco desiderio», ha aggiunto. Secondo lo scrittore, il godimento è un’ombra buia che non dà soddisfazione. La soddisfazione infatti non è la ricerca del nuovo; non sono i nuovi amori, i nuovi oggetti, le nuove vite. «La felicità è amare quello che si ha e rendere grande quello che si ha. Il nuovo è la luce che illumina lo stesso. Il nuovo è già tra noi», ha dichiarato Recalcati.
Rav della Rocca ha invece insistito sulla pedagogia ebraica: «Il buon genitore è colui che educa il fanciullo secondo la sua inclinazione». Rav Della Rocca ha poi ricordato che il termine Chanukkà viene dalla radice ebraica comune a Chinuch che significa educazione. L’olio del candelabro è il liquido che si distingue dall’acqua. Seguendo l’analogia, l’educatore quando si dedica a una persona deve portare a galla le potenzialità originarie del discepolo. «Un educatore rischia di essere un manipolatore quando allontana il fanciullo da ciò che desidera – ha specificato, illustrando ai presenti gli errori della prima famiglia biblica -: Caino nasce già nominato, senza una gestazione, né un parto, né una scelta condivisa di un nome. Poi nasce Abele, che significa NULLITÀ, che infatti è definito “il fratello di” …..».
«Caino è stato soffocato dall’amore della madre», ha fatto notare Recalcati, che ha poi citato Jean Paul Sartre: “Quando i genitori hanno dei progetti sui figli, i figli sono destinati all’infelicità”».
Allora qual è il metodo efficace per educare un figlio? Secondo Recalcati sono fondamentali le regole, che però non devono essere confuse con la legge. «L’educazione è mettere nel cuore del figlio il senso della legge. Se io non uccido non è perché ho paura della punizione, ma perché ho introiettato una legge, l’ho incisa nel cuore; la legge è l’insieme delle regole», ha affermato Recalcati. Tuttavia, i figli hanno bisogno di disobbedire alle leggi. «Noi mettiamo una regola perché diamo al figlio la possibilità di trasgredirla. I figli hanno diritto alla rivolta. La legge altro non è che l’effetto del senso di colpa il quale origina a sua volta il senso di responsabilità scaturito dalla trasgressione. Questa è la legge», ha specificato Recalcati.
Il conflitto familiare spezza le catene della solidarietà tra consanguinei. Come ha ricordato Rav Della Rocca, rievocando alcuni passi biblici dell’Esodo, «non si può diventare un popolo se prima non si impara a diventare una famiglia». Il Rav ha ribadito l’importanza del perdono e dell’ammissione della colpa nei confronti degli altri. «Dopo che è stato venduto dai fratelli, Giuseppe pretende delle scuse – ha spiegato -. Non le chiede per umiliarli, ma per vedere se hanno imparato la lezione. I fratelli infatti gli chiederanno scusa per tre volte. Da qui, la regola secondo cui quando un ebreo fa del male a qualcuno, deve chiedere scusa almeno tre volte. Dopo di che, se le scuse non vengono accettate, si è liberi da ulteriori pentimenti». Rav Della Rocca ha poi sostenuto che ancor prima del perdono ci vuole l’assunzione di responsabilità. Egli ha poi spiegato che le radici della parola ebreo significano “saper dire grazie” e “riconoscenza”. «L’ebraismo è una religione di doveri. Non abbiamo il diritto di vivere, ma il dovere di farlo. Vivrai tuo malgrado, è scritto. Questo ci porta ad assumerci delle responsabilità. Ognuno di noi, come i personaggi biblici, può trasgredire. La grande scommessa è dire “ho sbagliato”, perché non esiste nessun peccato originale ma una riparazione continua». Anche Recalcati è poi intervenuto sul tema della concordia in una comunità, citando l’episodio biblico della torre di Babele. «I babelici di ieri sono i sovranisti di oggi, quelli che cercano un linguaggio omologato, identico per tutti, quelli che vogliono appiattire tutte le identità e differenze in nome di un modello unico. Stare insieme è un esercizio faticoso, un continuo lavoro di traduzione. La democrazia non è imporre una maggioranza, ma far convivere le differenze», ha chiarito lo psicanalista. Infine, Rav Della Rocca ha spiegato che il concetto di minoranza è presente nel Talmud, che è «la nostra lettura specifica della Bibbia, ed è anche un codice legale assai raro: accanto all’opinione di maggioranza è sempre riportata l’opinione di minoranza, come tasso di democrazia. Viene rispettata la minoranza anche se la norma è approvata dalla maggioranza, perché anche la minoranza ha un diritto di cittadinanza».

Risate con David Parenzo e il suo “ebreo fulminato”
C’è poi stato spazio anche per l’irriverenza del giornalista David Parenzo (conduttore del programma radiofonico La Zanzara di Radio24) che ha portato in scena uno stralcio del suo spettacolo Un ebreo fulminato. Dopo l’ampia introduzione, in cui ha fatto dell’ironia sulle festività ebraiche e sull’attualità politica, Parenzo ha intrattenuto il pubblico con un siparietto in cui ha scherzato con Andreé Ruth Shammah. Sono poi saliti sul pulpito due “attori improvvisati” che hanno indossato una tunica per rappresentare la prigionia di Giuseppe: il patriarca si era rifiutato di giacere con la moglie di Potifar e così la donna lo fece rinchiudere nelle segrete. In cella Giuseppe conosce due personaggi: il ministro coppiere e il ministro panettiere. «Ho scelto questo passo perché in quel frangente Giuseppe accende una luce. Nonostante il pessimismo dei due ministri, Giuseppe rimane allegro e speranzoso». Lo spettacolo è stato musicato dal clarinettista Ruben Vitali.

Donne coraggiose in mostra con l’Adei-Wizo
Molto ricco di stimoli e di suggestioni anche il pomeriggio del Festival, che si è svolto domenica 2 dicembre al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci.
Molto suggestiva la mostra dell’Adei Wizo Capitane Coraggiose, dove le parole sono state trasformate in immagini per far conoscere ritratti di donne straordinarie e il loro contributo alla storia dell’ebraismo e di Israele.

Yarona Pinchas

Bereshit, la luce nella parola
Di Cabbalà ha poi parlato l’esperta di mistica ebraica Yarona Pinhas, in un intervento che ha entusiasmato il pubblico. «C’era un tempo in cui la terra era informe e vuota quando tutto ebbe inizio con la parola Or, luce, la prima in assoluto pronunciata nell’universo – ha esordito Yarona Pinhas nella sua seguitissima lectio su Bereshìt: la luce nella parola – ; un universo creato con il verbo amar, semplice espressione che realizza la volontà del Creatore: «“Sia Luce”. E luce fu». Amirà è la parola che illumina, meirà.
La scrittrice e studiosa di mistica ebraica ha spiegato la connessione affascinante e tra i numeri, le lettere, le parole e l’essenza delle cose: come per esempio Or, la venticinquesima parola nella Torà, e la Festa delle Luci, Chanukkà, che cade proprio nel 25° giorno, kaf-he, del mese di Kislev. Non solo: la parola Chanukkà si divide in chanu – ka, cioè la 25° tappa, e si riferisce alla sosta che fecero i figli d’Israele nel deserto, nel luogo detto Chashmonà, nome che ricorda la dinastia degli Asmonei: «Partirono da Mithcà e s’accamparono a Chashmonà» (Numeri 33:29).
Certo, non è facile cogliere subito tutti i significati e le vibrazioni sottili contenuti in ogni lettera e in ogni parola, e il discorso è indubbiamente complesso. Ma Yarona Pinhas, grazie a una grande empatia, sa come comunicare concetti in apparenza ostici. L’ascoltatore attento impara così, tra l’altro, che per poter godere della luce di una candela, la si deve preparare prima con cura: la cera, lo stoppino, il fiammifero. Ed è questo il periodo che precede Chanukkà, ombre e luci in alternanza, la lotta tra le forze della santità e l’oscurità e poi la festa stessa che annuncia la vittoria della luce.

L’ebreo nella letteratura, fra Shylock e Pinter
L’accademico e critico letterario veneziano Dario Calimani, professore ordinario di Letteratura inglese, ha poi parlato di due figure chiave della letteratura anglosassone, William Shakespeare e Harold Pinter, alla luce delle molteplici letture possibili (Titolo dell’incontro: Ombra: da Shylock a Pinter). Difficile riassumere in poche righe la dotta lezione dell’accademico che è partito da Il mercante di Venezia – passando infine al teatro di Pinter – per mettere in luce la complessità dei personaggi e le ambiguità linguistiche del testo: l’opera del grande drammaturgo di Stratford è antisemita o filosemita? In un excursus coinvolgente e appassionante, l’esperto ha posto un quesito non facile. Partendo proprio da quel Shylock-negativo radicato nell’immaginario collettivo nonché simbolo dei pregiudizi dell’antigiudaismo dell’epoca con tanto di luoghi comuni e stereotipi (avidità, usura e via elencando).
Ma forse no, ci suggerisce lo studioso, forse non è proprio così, perché una rilettura più attenta (e sofferta) del testo, rivela in realtà che l’ebreo oltraggiato, disprezzato e odiato possiede quell’umanità e quella dignità, di fatto “mancante” nella società che lo circonda: quella società veneziana, con le sue luci e le sue ombre, dove il commercio prospera insieme all’ipocrisia, all’usura e all’avidità; e dove la nobiltà lagunare si adagia ai piaceri, agli intrighi, ma soprattutto al culto del Dio denaro. Attenzione dunque, sembra suggerire lo studioso, la realtà umana non è mai sempre omogenea, univoca o unidirezionale… Con una sapiente e travagliata decostruzione del testo, il professore ha offerto al pubblico una visione inedita e sorprendente che scardina stereotipi e luoghi comuni.

I Goldene Medine

Musica, teatro e memoria
Dopo l’intervento di Calimani, hanno fatto seguito gli intermezzi musicali con i Goldene Medine, trio talentuoso di musica ebraica composto da Angelo Baselli (clarinetto), Miriam Camerini (voce) e Lorenzo Monguzzi (chitarra) e La luce dell’utopia. Herzl dell’attore Amichai Pardo: uno spettacolo inedito, molto divertente e soprattutto istruttivo anche per i più giovani. In scena la rappresentazione della storia e della figura di Theodor Herzl, tra i padri del sionismo, attraverso la sua biografia e la straordinaria personalità.
Non ultima, la proiezione di una video- intervista in esclusiva di Anna Migotto a Vera Vigevani Jarach, la cui drammatica e toccante storia è nota: emigrata in Argentina da Milano dopo le leggi antiebraiche del ’38, negli anni ’70 ha visto la figlia arrestata dai militari della giunta golpista e fascista, torturata, infine gettata dal cielo nel Rio della Plata, diventando così una delle migliaia di persone desaparecide. Diventata una delle Madri della Plaza de Mayo, Vera Vigevani Jarach è la più grande testimone di un periodo oscuro e brutale della Storia.
In conclusione si è parlato di cucina ebraica con tanto di ricette legate alla tradizione di Chanukkà, tratte dal libro Di casa in casa. Sapori kasher del mondo in Italia della Women’s Division del Keren Hayesod, fino all’accensione della prima candela, alla presenza di Rav Alfonso Arbib.

Al ritmo di gaga dance
Fra gli eventi di domenica 2 dicembre non possiamo non citare i laboratori di Gaga Dance, tutti sold-out. Sviluppato da Ohad Naharin in parallelo al suo lavoro come coreografo e direttore artistico della Batsheva Dance Company, il linguaggio del corpo Gaga nasce dall’idea che il movimento corporeo ha un potere curativo, dinamico ed esplosivo. All’interno di questa ricerca condivisa, la natura dell’improvvisazione permette a ogni partecipante di trovare il suo legame con il proprio linguaggio corporeo.
Infine, la sera è stato proiettato il bellissimo documentario Mr. Gaga di Tomer Heymann dedicato alla storia di Naharin: dagli inizi della sua carriera internazionale, con Martha Graham e Maurice Béjart, fino al passaggio alla coreografia, coronato dalla sua nomina a direttore artistico della Batsheva, compagnia israeliana di danza di fama mondiale.

Il teatro va a scuola
La seconda e ultima giornata del festival ha visto coinvolte alcune classi della scuola Mauri e di quella della Comunità ebraica che, divise nelle due sedi, hanno assistito allo spettacolo di e con Amichai Pardo, adattamento di Dieci scatole di fiammiferi, un breve racconto di Janusk Korczak (pedagogo, scrittore e medico polacco di origine ebraica), che ha permesso al pubblico di partecipare attivamente con la propria fantasia (vedi articolo in fondo).
accendere la speranza
Il festival si è poi concluso la sera al Memoriale della Shoah. «Sono molto contento del successo di un Festival che giunto alla sua quarta edizione, guarda al futuro e alle giovani generazioni – ha dichiarato il presidente del Memoriale Roberto Jarach – perché grazie a loro possiamo sperare di vedere una società migliore e costruire un futuro per i figli e i nipoti». Il presidente di Gariwo Gabriele Nissim ha poi approfondito l’analisi dei sentimenti di odio, populismo e linguaggio aggressivo, addentrandosi nella cosiddetta “cultura del nemico”. «Stiamo attraversando una sorta di umanesimo rovesciato, dove si può dire tutto di tutti, in un’esaltazione del pensiero libero ma senza controllo, mobilitandosi contro un nemico comune», ha sottolineato.

Successivamente il filosofo Salvatore Natoli ha riflettuto su come contrastare questi sentimenti di avversità verso lo straniero. Sottolineando l’importanza di un pensiero critico, indipendente, di un «dubbio sano», egli ha messo in risalto la centralità dell’educazione e della formazione che «tutelino dalla paura, dal pregiudizio e dalle seduzioni del potere che invitano la società all’edonismo e alla trasgressione, producendo gravi conseguenze». Natoli ha poi individuato le cause dell’attuale situazione, il problema di un vocabolario fatto di slogan, della «colpevolizzazione dello straniero o la demonizzazione di élite». Un invito efficace e partecipato quello di Natoli alla conoscenza, a «sviluppare un ampio spettro del sapere per avere la percezione del pericolo che stiamo vivendo». Condannando fake news e «un’educazione alla chiacchiera e alle false idee» che avviene in Rete, ha sollecitato a mobilitarsi nel web contro questi fenomeni.

L’accensione della chanukkià al Memoriale

Liliana Segre: «La mia lotta contro l’odio»
Molto efficace e lucido, poi, l’intervento della senatrice Liliana Segre, da tempo «impegnata nella battaglia in Parlamento contro l’odio», come ha ricordato in apertura del suo intervento. «Nei miei anni come testimone della Shoah ho sempre cercato di evitare le parole di odio perché seminano altro odio, invitando i giovani a mettere da parte il rancore per trovare la forza in se stessi per affrontare le avversità». Mettendo in guardia anche dai pericoli dell’indifferenza, la Segre ha evidenziato la priorità dell’etica e della convivenza.
È poi stato il turno di Pietro Barbetta, direttore del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, che ha illustrato ai presenti come l’odio stia trovando ampi spazi nella modernità attraverso le nuove tecnologie. «Viviamo in un’epoca tecnocratica in cui i soggetti non sono più delle persone, ma network connessi tra loro – ha spiegato -. Esistono infatti i network dei farmaci, del terrorismo, delle guerre, delle nuove invenzioni, dei virus, delle macchine…». Secondo Barbetta, questi network stimolano la passività delle persone che osservano il mondo senza intervenire. Il network inoltre produce un modello antagonista che si concretizza nella creazione di un nemico, intorno alla quale si crea un network ancora più potente. «La Rete ci cattura perché permette a chi si sente debole di esprimere tutto il suo rancore. Per dissipare l’odio online è allora necessario diffondere un bisogno di speranza». Citando William Blake, Barbetta ha affermato che il bene viene fatto nei minimi particolari: «Quando un Giusto salva qualcuno non si chiede di quale etnia sia. Il Giusto non ha una vita irreprensibile, ma è ricordato per il gesto che fa».
Anche secondo Victor Magiar, esperto di comunicazione, la Rete sta diventando un pericoloso veicolo di fake-news che mira a costruire il mito di un nemico comune, oggi identificato con il migrante. «Quando i nazisti hanno pensato di attuare la Shoah, pensavano di fare qualcosa di giusto. Quando si vuole far del male, si cerca sempre una giustificazione. Al giorno d’oggi sta succedendo la stessa cosa con i nostri giornali, dove i temi sui migranti vengono stravolti», ha spiegato, aggiungendo che servirebbe un’informazione più selezionata. Egli ha poi detto che le notizie false si moltiplicano perché viviamo in «un’epoca veloce e stupida come i computer». «Oggi essere stranieri è un fatto negativo e pericoloso. Nei sistemi totalitari si cercava l’estraneo in casa, l’infezione. Per smontare questi miti bisogna spiegare bene la verità», ha affermato.

Baharier: «Ritornare alla persona»
Haim Baharier ha invece insistito sull’importanza dell’educazione delle nuove generazioni, perché solo individuando il bene si può sperare in un’umanità migliore. «È necessario uno sforzo educativo e un ritorno alla persona. Mi sembra di sentire “ritornare a noi!” di Kierkegaard», ha detto Baharier. «Nella mentalità occidentale cristiana, la speranza sarebbe legata a colui che è disposto al sacrificio, il rassegnato – ha continuato -. Il silenzio di Isacco è la fiducia nel genere umano. Guarda suo padre e sembra dirgli “tu non mi ammazzi”. Questo atteggiamento è estraneo alla cultura di oggi. Forse era questo che intendeva Kierkegaard», ha spiegato, aggiungendo che è necessario trasmettere una fiducia personale a livello collettivo e stimolare la responsabilità. «C’è la necessità di individuare il male e non dimenticarlo. Questo vale per tutti noi. Dobbiamo ricordare», ha concluso.

L’accensione al Memoriale
Infine, l’accensione della seconda candela di Chanukkà davanti al vagone del Memoriale. «Questo è forse il posto più buio per gli ebrei a Milano, dove l’oscurità ha cercato di fare un black out della ragione, della libertà, della vita – ha spiegato Rav Roberto Della Rocca -. Accendere il lume nel luogo più buio di Milano è per noi ebrei un modo per tenere accesa la speranza di vita».

 

 

Jewish in the City  a Scuola: Amichai Pardo racconta Korczak

Lunedì 3 dicembre, nell’ambito del Festival Jewish in the City, la Scuola Ebraica ha ospitato lo spettacolo 10 scatole di fiammiferi, ispirato a un racconto di Janusz Korczak, alla sua opera e al suo pensiero.
Per l’occasione la scuola ha ospitato due scuole milanesi, per il primo spettacolo una classe V della Primaria Tolstoj di via Zuara e per la replica due classi della Secondaria di Primo Grado Mauri, offrendo così ai nostri alunni una preziosa occasione di incontro con realtà diverse. Per questo ringraziamo la Fondazione Scuola e il Gruppo Horim, che si sono spesi affinché questo spettacolo potesse andare in scena, sponsorizzato anche dal Dipartimento di Educazione dell’Organizzazione Sionistica Mondiale e naturalmente dalla Comunità Ebraica di Milano.

Amichai Pardo in “10 scatole di fiammiferi”, ispirato a un racconto di Janusz Korczak

Un attore italo-israeliano, Amichai Pardo, ha interpretato la figura di questo grande educatore, dando vita, con il coinvolgimento dei bambini, a una storia evocativa e piena di implicazioni filosofiche che toccava i temi dell’empatia, dell’assunzione di responsabilità, della creatività e della ricerca della felicità; ma anche temi come la disparità economica e la povertà. Nelle pieghe del racconto ha lasciato cadere brevi cenni sulla vita di Korczak e sulla sua azione educativa, ma sempre attraverso la messa in scena di situazioni che implicavano scelte e sforzo inventivo da parte dei bambini che venivano chiamati ad aiutare l’attore.
Amichai si muoveva nello spazio sotto il palcoscenico, così che il pubblico era subito coinvolto e non solo spettatore.
Un cappello, due occhialini tondi, un paio di bretelle e un bastoncino che può diventare qualsiasi altra cosa: così poco e Janusz Korczak è tra noi, con la sua autorevolezza, la sua empatia e il suo rispetto per i bambini e la loro dignità di esseri umani. Un percorso di emancipazione che passa attraverso l’assunzione di responsabilità e doveri. La liberazione da una quotidianità difficile attraverso il gioco, che conferisce senso ed è palestra di vita. Il tribunale autogestito dei bambini del suo orfanotrofio che regola la vita della comunità in base alle regole elaborate insieme, con la guida del loro grande educatore.
I nostri bambini, che vivono una realtà così diversa, forse hanno potuto appena intuire quelle vite e quelle storie, ma sicuramente si sono appassionati e hanno poi partecipato a un breve dibattito con riflessioni interessanti. Grazie ancora a tutti coloro che hanno permesso questo incontro, di emozioni e di conoscenze da condividere.
Alisa Luzzatto