Il sacrificio, la pietà, il dolore. Come soldati a un’ultima cena, prima della battaglia

Arte

di Daniele Liberanome

Mostre. Non solo le crocefissioni di Chagall: gli artisti israeliani di oggi hanno spesso usato la simbologia cristiana per esprimersi. Fotografie, sculture, dipinti sul tema del sacro e della inutile sofferenza. In mostra a Gerusalemme, l’iconografia cristiana nell’arte di Israele

Igael Tumarkin, Mita Meshuna
Igael Tumarkin, Mita Meshuna

Simbologia cristiana nell’arte israeliana? L’argomento pare assurdo, una contraddizione in termini, un ossimoro. Ma la mostra Behold the man – Jesus in Israeli art, aperta al Museon Israel di Gerusalemme fino al 22 aprile, ci racconta una realtà diversa e inaspettata. In effetti, già un caposcuola come Marc Chagall aveva utilizzato la figura di Gesù per raccontare con efficacia le tribolazioni del nostro popolo. Nella sua Crocefissione bianca, in particolare, il crocefisso ha per perizoma un tallit – a dimostrare l’appartenenza dell’impalato – e tutto intorno si accavallano scene di pogrom, di distruzione di sinagoghe, di figure tipicamente ebraiche. Nell’attuale mostra di Gerusalemme, uno dei quadri più impressionanti è un suo Crocefisso del 1944, dipinto in mezzo alla neve, fra le casupole di uno shtetl, con tinte fosche e poco chagalliane. Opere del genere fecero scalpore fin dagli anni ‘30, tanto che Chagall prima dipinse una serie di “Crocefissioni” e poi, nel dopoguerra, quando i suoi quadri diventarono molto più ripetitivi, sparse il simbolo del crocefisso con il tallit in un gran numero di tele e vetrate.

Samuel Hirszenberg, L’ebreo errante
Samuel Hirszenberg, L’ebreo errante

L’idea, va detto, non era proprio originale. Non solo Picasso aveva usato quell’immagine con valenza niente affatto religiosa, ma la si ritrova prima anche nel sottovalutato Samuel Hirszenberg (1865-1908) che, partito dall’Accademia polacca, si era aperto alle innovazioni post-impressioniste sviluppate in Germania. Nel suo L’ebreo errante (o l’ebreo eterno) dai contenuti particolarmente forti e premonitori, un uomo con un perizoma alla Gesù, cerca la fuga fra croci e cadaveri nudi che tragicamente ricordano i morti futuri dei lager, mentre dall’alto incombe un fascio di luce poliziesco.
Hirszenberg, deluso dalla negativa accoglienza ricevuta dai suoi quadri – e c’è da stupirsene? – emigrò in Israele, contribuì alla fondazione della scuola Bezalel a Gerusalemme, fino alla morte.

 

Un altro pittore-simbolo del periodo precedente alla creazione dello Stato, Reuven Rubin, utilizzò la simbologia cristiana in modo più colto. Nel suo Autoritratto con fiore del 1923, si dipinse con la pelle abbronzata per l’esposizione al sole della Terra Promessa, e con in mano un bicchiere/vaso che contiene un giglio, simbolo di purezza e innocenza accostato di solito alla Madonna. Per esser certo che il messaggio venisse recepito anche in ambienti poco intellettuali, si dipinse vestito di bianco candido, immacolato.

Rubin, Self Portrait with a Flower
Rubin, Self Portrait with a Flower

Ma quel che più colpisce è il richiamo a simboli cristiani in opere israeliane contemporanee o quasi, come nel ciclo “Via Dolorosa” del 1973 di Motti Mizrachi. Nella fotografia in mostra, l’artista si è caricato sulle spalle una propria fotografia e si è fermato proprio all’altezza di una delle stazioni del percorso seguito da Gesù. Fa riferimento innanzitutto alle sue personali sofferenze per la zoppia dovuta alla poliomelite contratta in gioventù, ingigantite dalle scarpe con tacchi altissimi che indossa. Peraltro, le scarpe sono chiaramente femminili per ricordare un altro fattore di sofferenza, la sua omosessualità e la battaglia da lui condotta per i diritti dei gay. Lo sfondo della via Dolorosa è utile a rafforzare il messaggio e a sottolineare il valore universale delle sue sofferenze, in questo senso paragonabili a quelle subite da Gesù prima della morte.
Ygael Tumarkin, invece, torna alla croce cara a Chagall, ma la utilizza per installazioni pacifiste. Nel pieno della prima guerra del Libano del 1982-84, che tanti morti è costata a Israele, Tumarkin creò un gruppo di croci/barelle tingendole in colore militare; fra le altre è ben nota Mita Meshuna, in mostra al Museon Israel, con il titolo scritto in lettere europee per preservare il doppio significato di “strano letto” e “strana morte”. La croce qui rimanda sia alla sofferenza dei soldati, sia alla condanna capitale a cui sarebbero condannati i militari in Libano, incomprensibile e priva di validi motivi, come la condanna di Gesù. Si assiste qui anche a un ribaltamento di visione rispetto a Chagall: non sono più gli antisemiti, ma lo stesso popolo ebraico che condanna i suoi figli alla morte. In questo senso Tumarkin si avvicina al messaggio delle splendide sculture Sacrificio di Isacco di Menashe Kadishman.

 

Adi Ness, Untitled (Last Supper), 1999
Adi Ness, Untitled (Last Supper), 1999

Sulle stesse corde suona Adi Ness nella fotografia Untitled del 1999, esposta anche a Palazzo Reale nell’ambito della mostra sui 100 anni di Tel Aviv. Un gruppo di soldati sta consumando un pasto su un tavolo da campo; discutono animatamente fra loro, a eccezione di quello al centro, che medita presumibilmente sulla morte o i rischi di morte che sta per affrontare. Chiunque abbia un minimo di conoscenza dell’Ultima Cena di Leonardo, e si tratta di un affresco famosissimo, nota il parallelo con l’opera, ed è proprio questo il cuore del messaggio di Adi Ness – l’ultima cena dei soldati e l’assurdità della loro situazione. Non è quindi poi così strano che gli artisti israeliani usino la simbologia cristiana. Lo fanno per riferirsi alle accezioni universali che ha assunto, al di là dei significati religiosi che ne sono all’origine: Gesù è sofferenza e morte immotivata, l’Ultima Cena è un momento conviviale prima di un destino tragico che soltanto uno solo tra i commensali ha compreso.