Tobia Zevi: i giovani fra sfide e impegno

Giovani

L’Unione dei giovani ebrei d’Italia ha affrontato il suo dodicesimo congresso. Ecco l’intervento di apertura del presidente Ugei, Tobia Zevi.

Non è semplice riassumere in poche pagine la ricchezza di un’esperienza durata quasi due anni, che ha occupato intensamente molte ore della giornata di undici ragazze e ragazzi che ho avuto la fortuna di coordinare; proprio a queste persone, che meriterebbero di essere menzionate una ad una, va il mio primo pensiero e il mio più sentito ringraziamento. Senza il contributo specifico di ogni consigliere non avremmo potuto produrre ciò che abbiamo prodotto, così come il mio sforzo personale non avrebbe avuto alcun senso. Grazie a loro ho imparato ad apprezzare la bellezza e l’utilità di operare in gruppo, di pensarsi come squadra, di non trovarsi d’accordo in lunghe telefonate notturne, e quindi la soddisfazione di raggiungere un compromesso tra posizioni differenti ma mirate ad uno stesso progetto.
E seppure questo resoconto deve necessariamente raccontare gli ultimi dodici mesi, cioè il mio secondo mandato come presidente dell’Unione giovani ebrei d’Italia, non è possibile prescindere dal lavoro iniziato nel 2005, sul quale ho riferito nell’ultimo congresso di Roma. Allo stesso modo, però, non ritengo si possano eludere le domande che riguardano i mesi che ci sono davanti, un periodo che dovrà tendere al rinnovamento ma anche affondare le radici in ciò che abbiamo seminato. Un valore centrale della nostra cultura è quello della continuità: secondo un celebre detto non è ebreo «chi ha la madre ebrea, ma chi ha i nipoti ebrei». È in questo spirito che chiedo a tutti voi, oggi e nel futuro, di continuare a fornire il vostro fondamentale apporto nel perseguire l’obiettivo centrale per chiunque abbia a cuore l’ebraismo italiano: sempre più dobbiamo riuscire ad avvicinare i tanti giovani ebrei che, soprattutto nelle piccole comunità ma anche nelle grandi, non vengono mai coinvolti nelle attività ebraiche, coloro che nell’ultimo congresso dell’Unione delle comunità ebraiche italiane sono stati definiti “ebrei invisibili”, nel nostro caso “giovani ebrei invisibili”. Questa è la sfida che si pone oggi a tutti noi, questo è l’unico scopo irrinunciabile: dobbiamo essere in grado di avvicinarli, di attrarli con la forza delle nostre proposte e con la capacità di far loro riscoprire l’importanza delle radici ebraiche. É l’unica speranza di superare le ben note difficoltà in cui si dibattono oggi le comunità: numeri in calo, aumento dei matrimoni misti, problemi logistici. Senza i nostri sforzi, la stessa sopravvivenza dell’ebraismo italiano nel medio periodo è in discussione.

In un meraviglioso discorso tenuto qualche anno fa a Roma, che ebbi il privilegio di ascoltare, Amos Oz sintetizzò, in una sola parola, l’oggetto del suo narrare: «famiglie». In due parole, aggiunse: «famiglie infelici». Bene, se tentassi di azzardare, si parva licet…, un’operazione analoga per il lavoro fatto nell’UGEI, la parola-chiave sarebbe, con una vena di rammarico, «gradualità». Tutti noi subiamo la tentazione di pensare il nostro impegno con categorie altisonanti, con richiami ai brillanti risultati raggiunti. Questo era un po’ lo spirito, chi c’era forse lo ricorderà, che pervadeva la mia relazione nel 2005: leggere i gradini che avevamo salito come conquiste fondamentali ed irreversibili.

A due anni di distanza ho compreso il valore dei piccoli passi, dei piccoli miglioramenti ottenuti con fatica, anche a prezzo di occasionali insuccessi, che però aiutano a crescere. I compiti che ci siamo dati, e che in gran parte sono ancora da svolgere, sono articolati e difficili, e come tali richiedono tempi più lunghi. A luglio, durante il congresso UCEI, me ne sono reso conto nel tratteggiare un quadro della gioventù ebraica italiana: un arcipelago di realtà molto diverse, tutte cariche di problemi, fra i quali l’enorme divario tra grandi e piccole comunità è certamente il maggiore.
A Roma, in particolare, il giudizio sulle attività giovanili all’interno della comunità è decisamente positivo. Gli attori impegnati si moltiplicano e le attività frutto di questa proliferazione sono variegate quanto le richieste di una generazione caratterizzata da disomogeneità sociali, culturali e anche geografiche. Non va tuttavia sottaciuto che, anche in un contesto vitale come quello romano, non mancano le ombre: molto larga permane la fascia di giovani che da questo fermento non viene toccata occasionalmente. Nelle riunioni, spesso estenuanti anche se quasi sempre feconde, con i vari gruppi giovanili romani, si corre talvolta il rischio di perdere di vista l’obiettivo centrale: far crescere il numero di coloro che si attivano e di coloro che posso essere raggiunti.
A fronte di quest’opera enorme, che non verrà mai proseguita ed incoraggiata abbastanza, penso si possa essere soddisfatti dell’opera di coordinamento che abbiamo portato avanti: sempre tesi ad incoraggiare l’indipendenza e la proficua autonomia dei vari gruppi, ma consapevoli anche di dover riaffermare il ruolo centrale dell’UGEI, sulla base di due considerazioni principali: l’Unione giovani ebrei d’Italia ha dimostrato, con alti e bassi, una forte capacità di rigenerarsi, di superare le fasi più difficili della sua pur breve storia, di sopravvivere al succedersi delle generazioni, e di saper essere ancora viva oggi, a meno di due anni da quel congresso straordinario di Milano sul quale aleggiava minacciosa l’ipotesi dello scioglimento.

Un risultato certo frutto anche del sostegno che, pur con qualche patema, ci viene garantito dall’Unione delle Comunità ebraiche italiane (UCEI), di cui siamo ufficialmente la costola giovanile. Ma un risultato reso necessario dall’essere l’UGEI l’unico attore impegnato nel difficile compito di favorire l’incontro e lo scambio tra ragazze e i ragazzi che vivono la loro esperienza ebraica, non lo si ripeterà mai abbastanza, in condizioni completamente differenti.
Nelle discussioni che hanno preparato il congresso UCEI, ci siamo sempre sforzati di ribadire l’imperativo categorico: se ci sta a cuore il futuro dell’ebraismo italiano non ci possiamo permettere di lasciare indietro nessuno. Nessuno può ritenersi soddisfatto fino a che un grande evento coinvolgerà solo giovani romani e milanesi – peraltro indispensabili alla riuscita di ogni iniziativa – e fintanto che tutte le comunità non saranno raggiunte dalle nostre attività. Nel maggio scorso, recandomi a Casale Monferrato per un dibattito, ho avuto la ventura di incontrare allora i due (!) giovani ebrei di quella città. Due fratelli che, senza un grande sforzo, sono destinati a non essere mai toccati da ciò che tanto ci appassiona. Ebbene, se non saremo capaci, come abbiamo cominciato ma con sempre maggiore energia dobbiamo continuare a fare, di gettare un ponte verso quei due fratelli, come verso i molti altri che si trovano nelle loro stesse condizioni, non potremo sentirci con la coscienza a posto.
Non mi sfuggono, d’altra parte, le difficoltà che non possiamo imputare ai nostri demeriti: un ragazzo che si trova in una piccola comunità e per il quale noi possiamo essere legittimamente preoccupati dal punto di vista ebraico, non ha tra le sue priorità necessariamente quella di essere coinvolto. Egli può, tranquillamente, non avere alcuna intenzione di partecipare e non sentire la sua “esclusione” dalla collettività religiosa come qualcosa di limitante. È, per certi versi, giusto e naturale che sia così. Ma proprio per questo, la nostra responsabilità si fa ancora più pressante, anche se complessa: a noi sta trovare il modo di invogliarlo con una festa, appassionarlo con un evento, coinvolgerlo in un’ iniziativa culturale o impegnarlo in una battaglia politica. Responsabilizzandolo nei confronti di chi è nella sua stessa condizione.

E come si fa, tutto questo, concretamente? Mi pare evidente che se si disponesse di una risposta univoca e soddisfacente il problema non esisterebbe più! Al tempo stesso, però, possiamo trarre utili insegnamenti da due esperienze di questi ultimi dodici mesi, concepite proprio con questa precisa intenzione: il congresso di Livorno che sta iniziando in questo momento, e il seminario di Purim organizzato a Torino nel marzo scorso.

L’organizzazione di questa tre giorni è infatti estremamente significativa: lo scorso anno il congresso di Roma votò una mozione in cui si chiedeva al consiglio esecutivo di preparare il successivo congresso in una media comunità e penso che nelle intenzioni dei congressisti di allora la scelta dovesse ricadere su Firenze; ragionandoci assieme, invece, abbiamo scelto Livorno essenzialmente per una ragione: perché ci sembrava, e i fatti lo hanno ampiamente dimostrato, che i ragazzi del posto fossero pronti ad aiutarci generosamente, responsabilizzati ed attratti dal grande compito che si assumevano. Sono loro che mi sento di dover ringraziare per questo congresso – in special modo i coordinatori Micol Novelli e Michele Di Segni -, perché con il loro lavoro ci consentiranno di partecipare nel migliore dei modi ad un confronto di grande importanza per il futuro dell’ebraismo italiano. Ma il mio auspicio è un altro, e guarda più lontano nel tempo: spero che la fatica di queste settimane precedenti l’evento, abbia rinsaldato i legami e l’amicizia tra i giovani ebrei livornesi, e quella tra loro e tutti quelli che hanno contribuito da altre parti d’Italia; ho fiducia che a partire proprio da queste relazioni qualcuno di loro avrà voglia di impegnarsi in prima persona, magari candidandosi per il prossimo consiglio consapevole del ruolo che si propone di avere nei confronti sì dei giovani ebrei italiani in generale, ma soprattutto degli amici nella sua comunità. É questa, a mio parere, l’unica strada oggi, dopo la scomparsa dei vari centri giovanili ebraici che, grazie alla diffusione sul territorio, avevano garantito la fortuna della FGEI. Si devono risvegliare le energie locali e ci si deve sforzare di ricostituire i gruppi nelle piccole comunità, e per fare ciò si deve assolutamente incrementare l’impegno diretto nelle varie realtà, fornendo supporto ma implementando e favorendo l’autonomia e la responsabilizzazione. In questo quadro non deve sfuggire il grande ruolo che hanno gli organi comunitari nelle città dove si sceglie di operare, in primo luogo il presidente della comunità e l’assessore ai giovani: senza il loro decisivo supporto nelle ultime settimane non sarebbe stato possibile approntare questa tre giorni, e perciò siamo grati alla comunità di Livorno.
Un discorso analogo vale per il weekend “Purim lives here”, che ha avuto luogo a Torino nel marzo scorso: anche in quell’occasione assistemmo con gioia alla vitalità dei giovani torinesi, peraltro da sempre assai attivi nell’UGEI, coordinati da Michael Sorani, e potemmo constatare con gratitudine che la comunità ci era solidamente a fianco. Da questa triplice sinergia, giovani delle organizzazioni nazionali, giovani della comunità, e comunità stessa, dipende a mio modo di vedere una buona parte delle prospettive dell’ebraismo giovanile italiano del futuro.
Un discorso a parte merita il caso di Milano, che consapevolmente non ho citato come d’abitudine accanto a Roma. L’impressione è che questa realtà, seconda in Italia per numero di iscritti e tra le altre cose assai ben rappresentata nel consiglio uscente, soffra oggi anche a livello giovanile di alcune spaccature nel tessuto comunitario: da poco tempo è stato rifondato un ufficio giovani, al quale ci rivolgiamo con grande speranza, consapevoli che, dopo un periodo di silenzio, Milano possa tornare ad essere un luogo centrale per le attività giovanili come era stata negli ultimi anni in grandi eventi quali Ghettout e Zooish. Ritengo che il prossimo consiglio dovrà adoperarsi per ciò in maniera specifica, sfruttando alcune delle migliori risorse umane di questa città, gravitanti da anni costantemente nell’orbita UGEI, e che proprio dai giovani possa originarsi un percorso di unità che vada oltre le divergenze.
Una postilla va fatta subito sulla nostra capacità di comunicare; non solo nella nostra società questo verbo ha assunto le molteplici forme di una serie di mestieri che conosciamo, ma esso è sempre più associato ad un articolato gruppo di professionalità. Negli ultimi due anni siamo riusciti a fare grandi passi in avanti, ma sono certo che nel futuro su questo tema ci si dovrà sempre più specializzare, soprattutto avendo a che fare con una generazione assai esperta nell’utilizzo dei media: uno dei primi obiettivi in tal senso, presente tra le mozioni del congresso UCEI, deve essere un investimento per un’anagrafe telematica (vale a dire un archivio email), dei giovani ebrei italiani, in modo da renderli tutti immediatamente contattabili, senza tralasciare il progetto di sviluppare agenzie formative (quello che si sarebbe “chiamato scuola-quadri”) contenuto in una specifica mozione del congresso UCEI.
Proprio con queste mozioni, un importante risultato conquistato politicamente, vorrei concludere questa sezione. Nella commissione competente abbiamo svolto, in collaborazione con alcuni delegati e con rappresentanti degli altri gruppi giovanili, un ottimo lavoro sulle mozioni. Le sintesi a cui siamo giunti rappresentano un buon compromesso tra le esigenze dei vari soggetti giovanili e le istanze legittime dell’UGEI, e mi sempre opportuno ricordarle: a chi verrà dopo spetterà il compito di gestire queste risorse approvate unanimemente e trasversalmente, delle quali ritengo si possa essere decisamente fieri.

Mozione I

Il V Congresso UCEI, riunito a Roma dal 2 al 4 luglio 2006, chiede che:
All’interno del Consiglio UCEI venga costituito un assessorato giovani autonomo e con budget proprio, che abbia competenza sulla fascia d’età 0 – 35 anni. Tale assessorato avrà il compito di supportare i vari movimenti giovanili che operano a livello nazionale, garantendone la piena autonomia e facendosi portatore delle loro istanze. L’Ufficio Giovani Nazionale del DEC resta comunque competente per le attività culturali ed educative rivolte a bambini ed adolescenti e per la formazione madrikhim.
I fondi stanziati annualmente per i giovani siano cospicuamente aumentati, come più volte proposto nel corso del Congresso.
Siano definiti criteri, tempi e modalità di approvazione dei progetti che dovranno essere su base nazionale, singoli o continuativi.

Mozione II
Il V Congresso UCEI, riunito a Roma dal 2 al 4 luglio 2006, chiede un impegno nel finanziamento della costruzione di un database giovanile nazionale per raggiungere e mettere in comunicazione i giovani ebrei in Italia.

Mozione III

Il V Congresso UCEI, riunito a Roma dal 2 al 4 luglio 2006, chiede che l’assessore ai giovani istituisca una conferenza annuale di confronto e discussione fra i vari gruppi giovanili ebraici operanti sul territorio. In questo modo si intende tutelare la possibilità per le diverse realtà di far sentire la propria voce: ribadendo il ruolo rappresentativo dell’UGEI rispetto all’ebraismo giovanile italiano, la conferenza incaricherà un rappresentante di riferire in sede di Consiglio UCEI sull’esito dei lavori.

Mozione IV

Il V Congresso UCEI, riunito a Roma dal 2 al 4 luglio 2006, chiede fermamente al Consiglio dell’UCEI di adoperarsi presso il Governo e le istituzioni locali in modo da rendere possibile nel migliore dei modi la realizzazione dei Giochi Europei Maccabi in programma a Roma nel luglio 2007.
Questa manifestazione riguarderà l’intero ebraismo italiano coinvolgendo dal punto di vista organizzativo, culturale e di aggregazione le più diverse realtà nazionali ed internazionali.

Mozione V

Il V congresso dell’UCEI, riunito a Roma dal 2 al 4 luglio 2006, chiede che vengano intensificate le attività dell’Ufficio Giovani Nazionale del DEC rivolte ai giovani dai 5 ai 17 anni delle piccole comunità con conseguente incremento dei fondi e delle risorse ad esso destinate.

Mozione VI

Il V Congresso UCEI, riunito a Roma dal 2 al 4 luglio 2006, chiede che l’assessorato alla cultura offra ai giovani ebrei d’Italia una serie di occasioni di formazione culturale, professionale e di leadership comunitaria. Si individuano, tra l’altro, i seguenti temi di interesse:
• Identità ebraica
• Israele e hasbarà (antisemitismo e antisionismo)
• Formazione quadri comunitari

Mozione VII

Il V Congresso UCEI, riunito a Roma dal 2 al 4 luglio 2006, chiede che le attività giovanili rivolte alla fascia d’età 18 – 35 anni abbiano, in sede UCEI, un supporto logistico che aiuti a risolvere gli aspetti organizzativi e di fund-raising istituzionale.

Mozione VIII

Il V Congresso UCEI, riunito a Roma dal 2 al 4 luglio 2006, prendendo atto del disagio giovanile che si crea dalla coincidenza di festività religiose ebraiche e il diario degli esami e delle attività scolastiche, chiede al Consiglio di intervenire con maggior impegno e fermezza presso le competenti autorità scolastiche/universitarie così come stabilito dagli artt. 3 e 4 dell’Intesa tra la Repubblica Italiana e l’UCEI affinché si eviti preventivamente la sovrapposizione delle due occasioni.

Una particolare attenzione va prestata alle mozioni I e III: in riferimento all’assessorato segnalo che la nuova Giunta UCEI, appena costituitasi, ha attribuito la delega dei giovani a Claudio Morpurgo, vicepresidente UCEI, che tra poco porterà il suo saluto. Grazie al suo sforzo siamo riusciti in questo breve lasso di tempo ad ottenere importanti successi all’interno del consiglio UCEI, certificati dallo stanziamento straordinario ottenuto dalla Giunta in vista della Winter university. Quanto alla conferenza annuale, va detto che essa è stata il frutto di una lunga e, a mio modo di vedere, utile negoziazione tra l’UGEI e alcuni movimenti giovanili: credo che il compromesso raggiunto rappresenti un buon risultato, e che in futuro dovremo impegnarci, insieme alle istituzioni ebraiche, ad organizzare questo periodico e significativo momento di incontro. L’esigenza presa in considerazione dalla mozione VII appare fondamentale, poiché si è ormai raggiunta la consapevolezza di dover coadiuvare lo sforzo volontario dei consiglieri con delle figure professionali, in grado di esplicare precise e necessarie competenze. Di questo dovremo ragionare con grande attenzione insieme ai vertici UCEI, senza tralasciare la grande opportunità – indipendentemente dal giudizio che della legge si vuole dare dal punto di vista della laicità dello stato – fornita dalla legge sul servizio civile nazionale. Vorrei da ultimo fare presente un dato: nella campagna elettorale che ha preceduto l’ultimo congresso UCEI, i giovani sono stati al centro di una grande quantità di proposte e proclami. Di questo non possiamo che dirci piacevolmente colpiti. Allo stesso modo, tuttavia, non possiamo esimerci dal chiedere ai responsabili di oggi passi concreti che seguano le parole, passi che, va detto, nel breve periodo intercorso iniziano ad intravedersi.

Ma le conclusioni soddisfacenti cui siamo pervenuti nel congresso UCEI possono ritenersi un buon punto di partenza anche per la nostra assise: il lavoro in commissione conduce all’elaborazione delle mozioni, spesso schernite per la poca solerzia con la quale vengono applicate nel corso dell’anno; ma il confronto in commissione, in programma per domani pomeriggio e al quale vi invito calorosamente a partecipare, è anche il vero momento di dibattito sulle questioni che necessariamente non possono essere affrontate adeguatamente in plenaria. Vi prego in generale di prendere parte a tutto il weekend, con particolare cura alle votazioni di domenica, sulle mozioni prima e sui consiglieri poi. Non dimenticate che dalle vostre scelte dipenderà molto di ciò che il prossimo consiglio di impegnerà a fare.

Il Congresso è un rito dell’UGEI: quello allestito a Roma ci costò molto sforzo, e durante quei tre giorni la fatica fu solo parzialmente ripagata: da una parte gli eventi collaterali (festa e talk show), registrarono un’ampia partecipazione e un buon successo; dall’altra, però, coloro che presero parte fattivamente ai lavori del congresso furono molti meno di quelli che ci eravamo aspettati. Ad un anno di distanza, e di fronte ad una reazione significativa, credo si possa affermare che questa sarà la prospettiva futura: non sarà il congresso a registrare le presenze più numerosa, ma altri momenti. Esso si caratterizzerà invece sempre più come una seria occasione di discussione e confronto, nel quale possano dibattersi con profitto le tematiche che investono i giovani ebrei italiani.
Mi pare opportuno ricordare in questo contesto – sia per tutti noi di buon auspicio – che ci troviamo nella stessa città che ospitò, nel 1924, il primo congresso dei gruppi giovanili ebraici italiani: a quell’epoca parteciparono, dibattendo peraltro di argomenti che troveremmo sorprendentemente simili ai nostri, personaggi del calibro di Nello Rosselli, Enzo Sereni, Dante Lattes, che avremmo poi ritrovato in alcune delle pagine più belle dell’ebraismo italiano, della resistenza al nazifascismo e della storia repubblicana.

Un capitolo a parte spetta ad Hatikwà, il tradizionale organo di stampa dell’UGEI, che enorme interesse sembra sempre suscitare durante il congresso; lo scorso anno la questione fu lungamente dibattuta, e fu assunta come impegno essenziale dal consigliere che risultò più votato. Io stesso sono stato personalmente testimone degli sforzi che questa persona ha fatto nel tentativo di onorare questo suo impegno, che per ovvie ragioni non può essere portato a termine singolarmente. La difficoltà nel reperire persone disponibili a collaborare in redazione, a mandare pezzi e ad occuparsene praticamente ha di fatto reso impossibile la pubblicazione di anche solo un numero del giornale. Nella sua relazione finale del 2004 Gadiel Liscia ricordava ai delegati che l’impegno non può esaurirsi nello spazio di tre giorni, e sosteneva l’esigenza di supportare continuativamente il consiglio anche dall’esterno. Lo stesso discorso deve valere necessariamente, e a maggior ragione, per quel che riguarda HT: esso deve essere, per avere un senso, la voce dei giovani ebrei italiani, che devono innanzi tutto mostrare di voler essere ascoltati; esso può essere, stampato o telematico che sia, un importante risorsa per mantenere viva la comunicazione tra i ragazzi sparsi nelle varie comunità e per coinvolgerli attivamente nel mondo giovanile. Se però così non è, il giornale non può divenire lo strumento di espressione di alcuni consiglieri, che hanno dal canto loro molti e assai più potenti, oltre che decisamente meno costosi, mezzi per render note le proprie posizioni: neanche in questo caso possiamo dimenticare quel detto biblico che dice “tutto Israele è responsabile l’uno dell’altro”.
Una vera e propria rivoluzione ha investito invece, grazie alla professionalità di Marco Abbina, il sito Ugei.it, oggi in grado di interpretare le esigenze grafiche e tecniche dell’UGEI e degli organizzatori, e liberatosi di una serie di orpelli che ne rendevano problematici e poco funzionali la consultazione e l’utilizzo.

Tra una settimana sarò a Parigi per il Governing Board del World Jewish Congress, al quale presenzieranno il presidente UCEI Renzo Gattegna e Claudia Debenedetti, consigliere UCEI con delega alle relazioni internazionali, che molti di voi ricorderanno come nostro generoso supporto negli ultimi quattro anni. È la prima volta in assoluto che un gruppo di giovani da vari paesi – non solo me! – viene invitato ufficialmente nell’assemblea che rappresenta l’ebraismo mondiale con il diritto di votare. È, questo, un privilegio di cui vado particolarmente fiero e che mi pone di fronte ad un’importante responsabilità. Esso dà però anche la misura dell’attenzione crescente che le istituzioni ebraiche internazionali riservano alle nuove generazioni: come voi ben sapete, su questo terreno l’Italia non mostra, nella società in generale, una particolare brillantezza. Proprio questa progettualità che parte dai giovani, fornisce a noi delle straordinarie risorse, e deve abituarci a ragionare sempre in una prospettiva oltre i confini. In questi giorni ricorre il centenario della nascita di Altiero Spinelli, che nel Manifesto di Ventotene scriveva “la strada che dobbiamo fare” – quella dell’integrazione europea – “non è facile né sicura, ma va fatta e si farà”. L’Europa è la dimensione imprescindibile dell’impegno di ognuno di noi in tutti i settori, dunque anche a livello ebraico. Avvalendoci perciò dell’infaticabile lavoro di Gad Lazarov, e della presenza di Simone Mortara nel Presidium della European Union of Jewish Students, abbiamo ritenuto di dover infondere alle nostre iniziative un carattere sempre più decisamente europeo. Il campeggio invernale dello scorso anno in compagnia dei nostri colleghi tedeschi ha rappresentato un momento importante e decisamente positivo, come credo possano confermare quelli tra di voi che vi presero parte: esso fu anche il segno di un’inversione di tendenza, col numero dei partecipanti che per la prima volta dopo vari anni risalì nel confronto con l’anno precedente. Ma la vera sfida è quella odierna, che ha il nome preciso di Winter University. Per la prima volta verrà organizzato in Italia un raduno invernale, esperienza unica in queste dimensioni anche nel resto del continente, per i giovani ebrei da tutto il mondo. Grazie alle ottime relazioni con le istituzioni, giovanili e non, internazionali questo evento evocherà nel nome l’evento ebraico di maggiore successo degli ultimi anni; nello stesso tempo, la Winter-U potrà usufruire del sostegno e della collaborazione della Danube Weiberg Region, un’ associazione affiliata al Joint Distribuition Committee, impegnata soprattutto con i giovani dell’Est Europa. È un’irrepetibile occasione; 260 ragazzi da tutta Europa a mostrare il credito e la fiducia di cui godiamo fuori dall’Italia, certificati dal fatto che la EUJS ci ha affidato il suo marchio più prestigioso. Lanceremo la campagna promozionale della Winter per l’Italia il 25 novembre in una festa a Roma.
Non credo debba essere taciuto, da ultimo, che proprio all’Italia è stato chiesto di organizzare la prossima Summer University, opportunità che stiamo ancora valutando.

Come tutti voi sapete, l’Unione dei giovani ebrei d’Italia si è caratterizzata negli ultimi due anni per un grande impegno sul fronte esterno, in alcune battaglie civili e sociali, e si è segnalata per una presenza mediatica e politica superiore a quella registrata in passato. Proprio questo tipo di lavoro è risultato essere una potente valvola per recuperare un immagine dell’UGEI che si era andata affievolendo proprio al nostro interno. Le critiche mosseci in questi mesi non vanno solo ascoltate con attenzione per coglierne i possibili elementi di verità, ma vanno anche accettate di buon grado: esse testimoniano in primo luogo un calo nell’indifferenza che ci aveva colpito, e favoriscono un confronto che può essere aspro, ma sicuramente è proficuo.
D’altra parte però, è bene dirlo chiaramente, questo sforzo muoveva da un’ esigenza diversa e complementare: nella mia ultima relazione dicevo che “nessuno, oggi, nella nostra società, può pensarsi solo in sé, può viversi in un compartimento stagno, può non sentirsi parte di un tutto che comprende chi ci sta intorno; e in primo luogo chi, standoci intorno, soffre”. É stato questo il motore che ha spinto le nostre iniziative che guardavano fuori dalla finestra, e che hanno spesso ottenuto un sorprendente successo.
In primo luogo il dialogo interreligioso, in particolare quello con i nostri colleghi musulmani. In questo campo abbiamo acquisito un’esperienza che può essere considerata ormai importante, anche in virtù dei 5 anni che abbiamo ormai messo alle spalle, tra difficoltà e ottimi risultati. Siamo stati, in questo ambito, anche un utile pungolo per i “nostri adulti”, che comprensibilmente hanno avuto tempi più lunghi: molti di voi ricorderanno le parole pronunciate in questa sede un anno fa dal consigliere UCEI con delega ai giovani, che non si sentiva di rappresentare il suo consiglio su questo fronte.
Negli ultimi mesi sono stati varati decisivi e importanti passi in avanti dalle comunità, in particolare con la visita del Rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni alla grande Moschea. Essere uno stimolo per spostare la linea dell’orizzonte sempre un po’ più avanti, è lo specifico compito che noi giovani abbiamo; con una metafora sportiva si direbbe “con il cuore oltre l’ostacolo”, ma anche con saggezza. Dobbiamo partire dai mutamenti interni alla società, dovuti in primo luogo alle grandi ondate migratorie: le nostre città sono ogni giorno più variegate al loro interno, ogni giorno vedremo più colori e annuseremo più odori, e a tutti noi spetta gestire con lungimiranza questa rivoluzione anch’essa graduale. Le varie comunità religiose hanno il diritto-dovere di praticare il principio dell’ingerenza reciproca: si devono affrontare questioni specifiche cooperando uno con l’altro non solo sul piano del dialogo, ma anche affrontando delle tematiche concrete: la riforma del diritto sulla cittadinanza, il problema dell’istruzione islamica in Italia, i problemi legati alla macellazione rituale ebraica e anche islamica, solo per fare alcuni esempi banali.
Gli ebrei possono dunque aiutare i musulmani, in gran parte immigrati, in un processo di integrazione che per noi è durato molti secoli; e attraverso questo operare anche su temi che non riguardano direttamente la nostra comunità, potremo indignarci quando, in questa o in quella moschea, o all’interno della Consulta islamica istituita dal ministro Pisanu e confermata da Amato verranno proposte tesi inaccettabili. Ma potremo farlo proprio in virtù del contributo che abbiamo fornito su altre questioni, mostrandoci in grado di ingerire sia nel bene che nel male. È, la strada del confronto con le varie confessioni religiose, l’unica via che possiamo percorrere: a febbraio assistetti alla prolusione di Edgar Bronfman, presidente del World Jewish Congress, all’assemblea di Gerusalemme; rimasi molto impressionato che come primo argomento egli affrontasse il tema del dialogo con l’Islam moderato, considerandolo l’obiettivo centrale dell’ebraismo mondiale.
Dopo aver costruito un rapporto solido, anche se non ancora immune da complicazioni, con le istituzioni ecclesiastiche, proprio questo è il tempo di muoversi con decisione in direzione dell’enorme comunità islamica, senza peraltro nascondersi le difficoltà assai serie. Anche qui, come si diceva all’inizio, dovremo saper essere assai graduali, e soprattutto dovremo essere disposti a posticipare il confronto sui temi che ci dividono, per cominciare invece da ciò che può unirci.
Un recente episodio mi pare possa renderci orgogliosi: siamo stati contattati dalla EUJS, che sta organizzando a Bruxelles una conferenza sul dialogo interreligioso, per contribuire come protagonisti di un’esperienza che non ha in questo momento, a livello giovanile, uguali in nessuna parte d’Europa. Abbiamo compiuto una piccola tappa comune in un mare di incomprensioni e di problemi. Ci rendiamo conto delle proporzioni. Ogni giorno si riscontra dolorosamente quanto stretto sia il crinale su cui camminiamo, quanta gente sia pronta a soffiare sul fuoco della diffidenza e dello scontro, quanto la comprensione possa essere fragile e quanto pericolose possano essere le conseguenze provocate inavvertitamente. E al tempo stesso, però, non si può prescindere da un impegno costante, prolungato, quotidiano su questa via. Ognuno di noi e a ogni livello. Le difficoltà sono enormi, non mi sfugge. Ma non possiamo rinunciare, alternando fermezza e pazienza, ad affrontarle. Ne va, in definitiva, del nostro futuro.
Proprio in questa direzione, nel diritto-dovere delle varie comunità religiose di occuparsi l’una dell’altra, va la Consulta interreligiosa dei giovani alla quale stiamo lavorando con il Ministro Giovanna Melandri, nel quadro delle iniziative che il suo ministero, appena costituitosi, sta promuovendo. Un tavolo di confronto e discussione che non ospiterà, ovviamente, dibattiti teologici, ma si interrogherà invece sui problemi, enormi, che l’Italia deve oggi affrontare. Un confronto dunque tra giovani delle varie religioni – e, mi auguro, non solo delle tre religioni monoteistiche – su temi sensibili dal punto di vista politico e civile; salvaguardando in questo modo anche un imprescindibile principio di laicità: proprio il fatto di non operare in un contesto dottrinario, ma in una cornice politica, consente infatti ai rappresentanti delle varie comunità religiose di negoziare, trattare e giungere a delle sintesi, senza che vengano lesi principi assunti come irrinunciabili da un punto di vista teologico. La laicità, si potrebbe riassumere con una formula, è un metodo e non un merito. Tenendo presenti le parole di Amartya Sen, che sottolinea come ciascuno di noi presenti un’ identità plurale.
Parleremo quindi di molte cose, alcune le citavo prima, e dovremo discutere, in primo luogo, di immigrazione, noi ebrei che in Italia non siamo immigrati ma cittadini italiani a tutti gli effetti. Una volta privato della propria autonomia statuale quasi due millenni fa, infatti, il popolo ebraico ha inventato una propria identità migrante: continuamente in movimento, i nostri antenati hanno alternato momenti di pacifica e feconda convivenza – generalmente brevi – a stagioni di persecuzione e sofferenza. Proprio le parentesi felici hanno evidenziato che una comunità ben accolta non solo cresce e prospera, ma costituisce una risorsa preziosa per il paese che la ospita, che ne risulta arricchito sotto tutti gli aspetti. Molti sono gli esempi che potrei fare, ma certamente va ricordato il felice e prolungato soggiorno degli ebrei nella Spagna medievale, ove la convivenza feconda e pacifica fra ebrei, cristiani e musulmani produsse una straordinaria fioritura di tutte e tre le culture. Questa storia tormentata e difficile oggi va messa anche al servizio di altri.
Un anno fa la presenza di Osama Al Saghir, presidente dei giovani musulmani d’Italia al nostro congresso, fece notizia sulla stampa e fu un segnale simbolicamente rilevante a due giorni dalla manifestazione indetta da “Il Foglio” sotto l’ambasciata iraniana in difesa dello stato d’Israele – era il primo degli inni alla distruzione dello stato ebraico da parte di Ahmadinejad, ai quali oggi ci siamo tristemente assuefatti -. Da allora si sono moltiplicate le occasioni di confronto con cattolici e musulmani a cui siamo chiamati in giro per l’Italia, e al quale cerchiamo sempre di aderire con profitto. Proprio in questi giorni stiamo lavorando congiuntamente ad un documento sul velo islamico, sui simboli religiosi e sulla libertà della donna; oggi però dobbiamo fare un ulteriore passo in avanti, a partire dalla grande conferenza organizzata nel dicembre scorso a Roma insieme all’associazione “A buon diritto” sull’antisemitismo e sull’islamofobia: allora chiamammo a discutere su questi due temi Gianfranco Fini, Piero Fassino, Luigi Manconi e Gennaro Malgieri. I loro interventi seguirono le due relazioni di Khaled Fouad Allam, che da musulmano parlò di antisemitismo, e di Gadi Luzzatto Voghera, che da ebreo parlò di islamofobia. A distanza di quasi un anno stiamo lavorando ad una seconda edizione di quell’evento, a partire da una ricerca che abbiamo commissionato ad una studiosa.
Credo infatti che uno dei nostri obiettivi futuri debba essere quello di affiancare ad iniziative simbolicamente forti e di grande impatto mediatico, una maggiore elaborazione culturale e politica sul tema del dialogo tra le religioni come soggetti di una società plurale.
Ma il nostro interesse per la società italiana in generale non si è esaurito solamente nel fondamentale campo del dialogo multiconfessionale: nell’aprile scorso a Roma organizzammo un talk show, insieme con il gruppo del Culture factory, con i giovani ebrei che avevano scelto la strada della politica attiva, in vista della elezioni, in vari partiti politici. Ci sembrò giusto allora dare una tribuna importante ad un fenomeno trasversale ed in grande crescita, che ha visto molti nostri giovani correligionari candidarsi nelle ultime elezioni, soprattutto amministrative.
Per terminare questa mia considerazione sulle nostre iniziative, vorrei tornare su una che è stata contestata, che allestimmo, grazie a Daniele Nahum, a Milano nel gennaio scorso in occasione della Giornata della Memoria, dal titolo “Affinché non accada mai più: memoria della Shoà e tragedie dimenticate”. In quel contesto ritenemmo che, parlando ad una folta platea di studenti di scuola superiore, fosse giusto partire dall’unicità della Shoà per affrontare alcune immani tragedie e drammi della nostra epoca, troppo spesso lasciate nel dimenticatoio. Ci sembrò giusto evitare che la memoria della Shoà si cristallizzasse in un monumento, per farle assumere invece un ruolo propositivo e rivolto al futuro, per impegnarla nel combattere alcune altre grandi ingiustizie. Credemmo, in questo modo, di non mancare in alcun modo di rispetto all’ineffabile atrocità della Shoà, ma di rendere anzi la sua evocazione più attuale. Pensammo di doverci ispirare a quel giovane Raphael Lemkin che, ebreo all’inizio degli anni Venti, partì per combattere contro il genocidio del popolo armeno, prima di venire trucidato vent’anni dopo, in quanto ebreo, dalla furia nazista.
Questa iniziativa suscitò una serie di proteste – la più significativa delle quali in forma anonima – all’interno della comunità ebraica; da allora mi sono chiesto se ciò che avevamo condotto era da ritenersi sconsiderato. Oggi, a distanza di qualche mese, sono ancora convinto di no.

Nei prossimi due mesi, infine, prima della scadenza ufficiale di questo consiglio, è nostra intenzione interrogarci sulla modalità che noi ebrei italiani abbiamo di comunicare come comunità all’interno del sistema mediatico, in un incontro pubblico che abbiamo tentato di allestire nella cornice di questo congresso ma che invece per ragioni logistiche si terrà a Roma.

E questa relazione non può che esaurirsi con un tema che ci sta inevitabilmente assai a cuore: costante è stato, e dovrà continuare ad essere, l’impegno nel comprendere e nel far comprendere le ragioni di Israele all’interno della drammatica vicenda mediorientale. Un impegno che come giovani ebrei dovremo sempre esercitare nei luoghi di studio, nelle università, e in tutti quei luoghi che ci permetteranno, anche in maniera critica, di affrontare con studio e passione la situazione di Erez Israel. Ritengo che di particolare importanza sarà in futuro la ricerca sulle due società, quella israeliana e quella palestinese: molte delle posizioni inaccettabili su Israele che purtroppo capita di sentire, venate talvolta di strisciante antisemitismo, e molti dei problemi che riscontriamo nei mezzi di comunicazione sono però spesso frutto della mancanza di informazione che pervade sorprendentemente la società anche su un tema di perenne e scottante attualità. Su questo il nostro lavoro rimarrà fermo e deciso nel tempo.

Cari amici, consentitemi al termine di questa lunga relazione una parentesi personale, che giunge a conclusione di un percorso che mi assorbito profondamente negli ultimi due anni. Sono stati, questi mesi, uno straordinario viaggio nell’ebraismo italiano; mi piacerebbe potervi raccontare nel dettaglio i volti che avevano le persone che ho conosciuto, la bellezza dei posti, delle sinagoghe e delle comunità che ho avuto il privilegio di visitare. Mi piacerebbe potervi raccontare le diverse realtà che si imparano a conoscere, la vitalità dell’ebraismo italiano. Siamo una piccola minoranza e abbiamo a che fare con grandi problemi. Ma abbiamo anche un patrimonio inestinguibile: la nostra tradizione millenaria, la nostra cultura che da secoli mantiene la sua identità fondendosi proficuamente con la società circostante e che si ritrova nei vari asili, scuole ebraiche e biblioteche sparse in giro per l’Italia; le nostre conquiste di integrazione prodotto di secoli e secoli di persecuzioni: grandi progressi nei diritti acquisiti che dobbiamo sforzarci di estendere a chi oggi, in Italia, sta peggio di noi. Alcuni grandi nomi di nostri correligionari hanno fatto e fanno la storia di questo paese, del Risorgimento, della Resistenza, di oggi. Di tutto questo dobbiamo andare fieri, ma dobbiamo esserne consapevoli come di una seria responsabilità.
Lavorando per l’UGEI ho avuto modo di conoscere il fascino – oltre ai problemi – delle comunità, le richieste diverse l’una dall’altra dei presidenti, degli assessori, dei rabbini, delle persone. È un’esperienza che consiglio a voi tutti: un impegno anche gravoso, ma un’ avventura eccezionale alla scoperta della nostra storia, della nostra cultura e del nostro presente.
Non sono sicuro di aver dato all’UGEI ciò che ho ricevuto io in questi mesi; ho fatto del mio meglio, grazie all’aiuto di molti di voi. Una storiella hassidica racconta del talmid che, rivolgendosi al maestro, chiede: «Morè, ma il Messia quando arriverà?». E il maestro risponde: «Il Messia non è arrivato, forse non arriverà mai, ma noi dobbiamo fare di tutto perché arrivi».