Adolescenza e religione: una relazione difficile al centro del seminario ‘Insieme per prenderci cura’

Giovani

di Laura Ballio

ADOLESCENTI__Fotolia_67416676_Subscription_Monthly_KRAKEN-1Indagare su Adolescenza, laicità e fedi religiose è una bella sfida. Che è stata coraggiosamente raccolta, mercoledì 15 marzo, dai partecipanti al seminario coordinato da Maria Luisa De Natale, già ordinario di Pedagogia generale all’Università Cattolica di Milano e membro di CreadaItalia, da Rav Paolo Sciunnach, professore di ebraismo nelle scuole della Comunità ebraica di Milano, e da Abdel al-Sabur Turrini, direttore generale della Comunità Religiosa Islamica Italiana (Coreis). L’incontro, ospitato dalla Biblioteca Ambrosiana, fa parte del programma 2016/17 di Insieme per prenderci cura, che vede l’Associazione Medica Ebraica (Ame), accanto alla Coreis, al Collegio Ipasvi Mi-Lo-Mb e alla Biblioteca Ambrosiana, impegnati per il rispetto delle differenti identità spirituali e dei valori religiosi della persona malata.

Dopo il benvenuto del prefetto della Biblioteca Ambrosiana, monsignor Buzzi, e del Presidente del Consiglio comunale di Milano Lamberto Bertolè, il seminario è entrato nel vivo: la prima parte è stata moderata dal pastore Giuseppe Platone della Chiesa Valdese di Milano, che ha subito ricordato come «educare in vista della fede significa educare al valore dell’incontro e della parola».

Un tema, questo dell’incontro e della parola, che è ritornato più volte nel corso del convegno. A cominciare dal parere espresso da Maria Luisa Natale nel suo intervento: «Nell’educazione, la comunicazione è fondamentale. Oggi i genitori troppo spesso parlano “ai” figli invece che “con” i figli e la carenza di ascolto crea difficoltà nel mettersi in relazione», ha detto la pedagogista. «L’adolescenza è il momento delle grandi domande: chi sono? cosa valgo? che senso ha la vita?  Che significato voglio dare alla mia esistenza? Gli educatori devono saper accogliere questi quesiti, proporre risposte che entrino anche nell’ambito della religiosità e valori chiari, visto che la società contemporanea è portatrice soprattutto di disvalori. Non come una ritualità imposta dall’infanzia, ma come testimonianza vivente di solidarietà, altruismo e dialogo interculturale».

Sono domande che giovani si pongono a prescindere dalla propria fede: «Ogni figlia, ogni figlio va educato secondo la sua strada», ha detto ‘Abd al-Sabur Turrini. «L’educazione religiosa è qualcosa di dinamico e ognuno deve trovare il percorso giusto per sé, cercando di vivere nel nostro tempo con grande apertura nei confronti del mondo. A prescindere dall’appartenenza».

Quando questo succede, i ragazzi sembrano stare meglio: «La dimensione genitoriale, come quella della religiosità, può avere sull’adolescente l’effetto di una maggiore sicurezza e fiducia nelle figure di protezione», ha spiegato Alfio Maggiolini, docente in Psicologia del ciclo di vita all’Università Milano-Bicocca e direttore della Scuola di specializzazione in psicoterapia psicoanalitica dell’adolescenza e del giovane adulto ARPAd-Minotauro di Milano. «E, anche se gli studi a riguardo sono controversi, sembra riescano anche difenderlo meglio da problemi come i disturbi alimentari o l’uso di droghe».

L’hanno dimostrato le testimonianze di alcuni giovani adulti, che si sono lasciati già alle spalle da un po’ l’età ingrata. Asmaa Shehata, egiziana-italiana che sta studiando per la laurea magistrale in Filosofia all’università Cattolica di Milano, racconta del passaggio dalla scuola araba bilingue all’istituto tecnico: «All’inizio non è stata una passeggiata. La prima insegnante che si dichiarò apertamente atea, confesso che mi fece un certo effetto», ricorda. «Mi sono dovuta misurare con la società italiana: atei, cristiani, copti e chi ancora era in cerca di una dimensione spirituale. Confronti accesi ma rispettosi, anche se la mia sola vera amica era una ragazza musulmana come me. Pure l’inserimento alla Cattolica non è stato semplice, però l’esperienza è stata molto ricca e le amicizie tante. Credo che da adolescenti ci sia più bisogno di stare tra simili; dopo, il confronto con gli altri diventa più semplice».

Ma le difficoltà s’incontrano anche all’interno della religione “maggioritaria”, quella cattolica, quando si fanno scelte non comuni. Lo ha raccontato Luca Odini, collaboratore della Cattedra di Pedagogia degli Adulti alla Cattolica e ricercatore presso Creada (Centro di relazione educativa adulto-adolescente). Da ragazzino Luca scelse di studiare in seminario: «Non solo ho dovuto render conto di questa decisione ai miei coetanei, ma anche alla mia famiglia che, sia pur molto credente, non era affatto preparata a una scelta così forte. Sono uscito dal seminario dopo le superiori e ho fatto l’università negli ultimi anni del cardinal Martini. Adesso cerco di portare avanti una vita monastica in cui la presenza degli ultimi è uno dei punti imprescindibili».

Anche nella storia personale di Rav Paolo Sciunnach, professore di ebraismo nelle scuole della Comunità ebraica milanese e tra i moderatori del seminario, c’è stata una scelta che l’ha posto su posizioni diverse da quelle dei genitori: «Vengo da una famiglia non ortodossa e ho vissuto l’adolescenza a Genova, dove non c’era la scuola ebraica», ha ricordato. «È stato proprio il confronto con gli “altri da me”, con i non ebrei, a spingermi a cercare me stesso fino alla scelta degli studi rabbinici. Per la famiglia, adeguarsi alle mie decisioni ha avuto conseguenze non facili, a cominciare dal dover kasherizzare la cucina. Ma del resto il rapporto con Dio dev’essere mio. Poi viene quello con il Dio di mio padre. Come dice il canto di Mosè e dei figli d’Israele, all’uscita dal Mar Rosso (Esodo 15:2): “Egli è il mio Dio e Lo glorificherò, è Iddio dei miei padri e Lo esalterò”». Ancora a proposito delle famiglie: «I giovani che hanno raccontato le proprie storie hanno dimostrato che si possono far loro accettare anche scelte forti e contrastanti», ha commentato Rosanna Supino, presidente dell’Ame. «Capita spesso che chiedano una vita più ortodossa, che quindi presuppone una vera rivoluzione domestica, ma alla fine i genitori l’accettano».

«Per me invece la scoperta della religione ha proprio coinciso con l’adolescenza», ha concluso le testimonianze Emanuele Campagna, della Chiesa Valdese di Milano. «Il senso di disagio è forte, sentire di non essere compreso, anche se amato, è una grande sofferenza. Perciò mi sono avvicinato a Cristo e mi sono reso conto che se la incontri al momento giusto la parola ti colpisce il cuore».

Tra gli interventi conclusivi, moderati dal viceprefetto della Biblioteca Ambrosiana monsignor Pier Francesco Fumagalli, quello della giornalista e scrittrice Gheula Cannarutto. Madre di sette figli, ha spiegato come l’educazione ebraica a suo avviso cominci prima ancora della nascita, con la preparazione della famiglia e dell’ambiente che accoglierà il bimbo: «Però genitori e insegnanti, per primi, non devono mai smettere di educare se stessi e ricordarsi che sarà felice chi ha una storia dietro di sé e un percorso delineato».

«Gli stessi educatori devono andare a scuola ad apprendere competenze e capacità di mettersi in relazione», ha aggiunto don Gino Rigoldi, presidente di Comunità Nuova Onlus. «Sta in questi ingredienti la differenza tra una comunità e un’assemblea condominiale. La scuola è il luogo in cui si dovrebbe imparare a convivere e a comunicare, non a diventare bulli. La relazione è il punto fondamentale in una società dove i padri sono assenti: non sono più indicatori di senso, sia nella vita reale sia in quella spirituale».

Mulayka Enriello, del Dipartimento educazione della Comunità Religiosa Islamica Italiana, si è invece focalizzata sulla convivenza tra differenti e ha espresso la preoccupazione che «gli adolescenti possano diventare incapaci di mettersi in relazione con gli altri, con i diversi da loro, perché la vocazione interreligiosa fa parte della vita e i nostri figli dovrebbero essere fieri della loro identità, ma capaci di misurarsi con gli altri con dolcezza». Ha completato Rav Sciunnach: «È l’equilibrio la chiave per educare all’altro e l’ebraismo è equilibrio. Tutta l’identità ebraica è rivolta all’altro e l’essere tutti diversi ci mette tutti sullo stesso piano. Senza cadere però nella trappola di pensare che la propria identità religiosa debba essere estesa agli altri».