Investire nel futuro e acquisire leadership a partire anche da figure-mito della nostra tradizione

Taccuino

Nel foyer del Noam di Milano, in una sala gremita a cui si continuavano ad aggiungere seggiole, tanto era l’afflusso di gente, ha preso il via il primo appuntamento con il Centro Studi e Formazione, due giornate di lavoro e conferenze (30-31 ottobre scorso), per l’avvio del progetto di decentramento del DEC, Dipartimento Educazione e Cultura dell’Ucei. Molto attesa la conferenza di Gabriel Levi, neuropsichiatra infantile, professore all’Università La Sapienza di Roma e grande studioso di ebraismo, su “Il Talmud di Avra’am Avinu”, tema che prende le mosse dalla lettura della parashà di Vayerà. “Ricordiamoci che la tradizione orale, la Torà shebe-al-pè, precede sempre il testo scritto, ovvero la Torà. Prima ancora della trascrizione talmudica, si parlava di Avram-qe-Moshè, di Abramo come Moshè, assimilando in un forte parallelismo le due grandi figure bibliche”, spiega Gabriel Levi. Senza contare, continua il professore, che dal punto di vista della Ghematria il computo dei due nomi è identico, ovvero 613, il numero stesso delle mitzvot.

Ma allora, davvero possiamo dire che Abramo è stato il primo ebreo della storia? O non è forse piuttosto il primo gher, il primo convertito? Quand’è che il popolo ebraico è diventato ebreo?, si chiede Levi con un sorriso. E precisa che la Torà è soprattutto un modello di insegnamento più che una Legge, come invece spesso si sottolinea erroneamente.

ABRAMO, MAESTRO DI PURO AMORE

“Il cuore tematico della parashà di Vayerà è l’incontro-scontro tra Abramo e Hakadosh BarucHu su Sodoma e Gomorra. Ricordiamoci inoltre che Avra’am è l’uomo portatore del Chesed, l’archetipo dell’amore illimitato e senza condizioni, “un fiume senza argini” di puro amore. Non a caso Abramo si batterà come un leone per la salvezza delle due città maledette e fino alla fine non cederà sulla decisione di morte e distruzione che le colpirà. Tuttavia, dice Levi, il percorso di Avra’am è irto di prove che toccano l’intera e profonda sfera affettiva e privata del patriarca: i due rapimenti di Sarah, i due sacrifici di Agar e Ismael e quello di Isacco, la milà fatta in età tardissima… Esiste una specularità innegabile tra le vicende in questione. Per il Midrash, Avra’am affronta l’eccezionalità del proprio destino e l’insieme di tutte queste terribili prove, nonchè la sua intera esistenza, scevro da qualsiasi astio, gelosia, senza mai cercare il qavod o gli applausi della platea, privo praticamente di Ego e di senso di onnipotenza, sempre e assolutamente contento di ciò che ha, nella pienezza assoluta dei doni ricevuti. Una figura meravigliosa, dice Levi, e il silenzio assoluto della sala del Noam e degli ascoltatori sembra fargli eco.

LE PAROLE DI ABRAMO

Nella Torà esiste un vocabolario proprio di Abramo, un linguaggio che sarà suo e soltanto suo, spiega il professor Levi: quando Abramo entra in scena vengono usate per la prima volta nel testo sacro parole come emunà, fede; mishpat, legge; tzedakà, giustizia sociale; shalom, chesed, emet-verità, ahavà, hirà-timore… Parole mai apparse fino a quel momento, nel testo. Ed è da questo vocabolario che capiamo chi è l’uomo Abramo, quali sono le sue caratteristiche più riposte, la profonda trama interiore dell’essere. Il primo patriarca accoglierà quindi i tre sconosciuti arabi, i tre stranieri che sono tre angeli, darà loro da bere e da mangiare, ricetto e riposo e acqua per lavarsi e infine li accompagnerà fuori dalla propria terra, alla loro partenza, accertandosi che siano al sicuro. Una mitzvà enorme, una capacità di cura e di ascolto dell’altro, anche fosse lo sconosciuto più lontano, che non ha eguali. E che cosa sono gli angeli se non l’aspetto simbolico delle azioni di HaKadosh BarucHu? Il patriarca forse lo intuisce ma Sarah no, lei che riderà a gola spiegata dell’assurdità dell’annuncio del figlio che verrà e che negherà lei stessa di aver riso, più avanti, nel racconto biblico.

La lectio magistralis di Gabriel Levi si conclude con la questione di Sodoma e Gomorra, colpevoli entrambe di legittimare il male attraverso leggi inique, città in cui il male veniva codificato e burocratizzato e quindi reso normale. Ora, il nostro patriarca si erge per difendere ciò che agli occhi degli uomini e di HaKadosh BaruchHu è il massimo della malvagità; e questo perché difende il concetto che è meglio rischiare di liberare un colpevole che di condannare un innocente. La fine è nota, la vicenda, celeberrima: il patriarca arriva alla fine della contrattazione pochissimo contento del fatto che non vi siano nemmeno 10 giusti per poter salvare le due città. Fino allo stremo delle forze, Abramo si batte per far accettare il male, anche estremo e efferato, che alberga in ciascuno di noi. E spinge per un tikkun che crede sempre possibile. L’eco della sua perorazione ci trafigge per l’amore assoluto che porta con sè. Anche se lo stesso Abramo sa, che sotto le 10 persone, che con meno di 10 giusti, non c’è comunità, non c’è consorzio umano nè kehillà che possa fondare una società con delle basi accettabili.

MA CHE COS’E’ UNA VERA KEHILLA’?

Il dibattito della prima giornata di studio del neonato Centro ha del resto come tema proprio quello dei valori fondanti di una kehilà e su quali basi dovrebbero erigersi le comunità ebraiche italiane in generale. Una domanda da un milione di dollari a cui tutti hanno tentato di fornire una risposta. A partire da rav Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano, dallo storico David Bidussa e dallo stesso Gabriel Levi. Ad aprire la serata, che è stata il clou dell’intensa giornata legata al nuovo progetto per la formazione della leadership comunitaria del dipartimento Educazione e Cultura UCEI, ci sono stati anche i saluti del presidente dell’Unione Renzo Gattegna, del presidente della Comunità ebraica milanese Roberto Jarach e i ringraziamenti a Rav Roberto della Rocca, regista e artefice dell’intero progetto. Molte le facce soddisfatte alla fine dei lavori, molta la gente che ripeteva “qualcosa di nuovo, finalmente qualcuno che si sveglia e pone un argine all’emorragia e all’impoverimento dell’ebraismo italiano”.

“E’ andato tutto molto bene, i gruppi hanno lavorato al meglio e sia la risposta che l’interesse generale sono stati alti. Confidiamo nello stesso successo per gli appuntamenti futuri, in giro per l’Italia”, dice Gloria Arbib, segretario generale dell’Ucei. E conclude rav della Rocca: “Questo è solo l’inizio. Confido che si possano porre davvero le basi per creare una nuova leadership capace di traghettare l’ebraismo italiano fuori dalle difficoltà in cui si trova oggi”.