Yehudi Menuhin

Quel violino fragile e magico chiamato Yehudì Menuhin

di Ruth Migliara

Yehudi Menuhin
Yehudi Menuhin

Enfant prodige e poi genio del violino, Menuhim è passato alla storia per l’impulsività musicale, la spontaneità del tocco e l’allergia assoluta per l’esercizio tecnico. Attraversò l’esperienza musicale con profondo senso ebraico e religioso, credendo fino alla fine che la musica fosse una forma di tikkun ha olam, di riparazione. Come racconta nella sua autobiografia.

Un uomo magro e leggero si arrampica veloce lungo i ripidi sentieri di Portofino, corre avanti, più agile degli altri, e arriva per primo, di fronte alla chiesa di San Giorgio. Come un bambino vittorioso dallo sguardo soddisfatto e tronfio di gloria, si volta verso i compagni di viaggio, che arrancano ancora lungo la via scoscesa. La leggerezza con la quale ha corso fino in cima è la stessa che lui mette nelle dita, quando imbraccia il violino.

E’ con questa immagine che Alberto Cantù, storico, ci descrive il suo incontro con uno dei più grandi violinisti del secolo scorso, Yehudi Menuhin.

“I suoi genitori, entrambi ebrei, si conobbero a New York nei primi del 900, -racconta Cantù, che sul violinista e direttore d’orchestra ha scritto il saggio Yehudi Menuhin. L’Orfeo tragico-. “Il padre proviene da una famiglia estremamente religiosa e dirige ben sette scuole ebraiche, occupazione che in seguito abbandonerà per seguire la carriera del figlio. La madre, donna colta e dispotica, eserciterà sempre grande autorità e potere decisionale su Yehudì. È lei ad esempio a sceglierene il nome, alla nascita, volendo sottolinere con ciò l’identità ebraica. Ed è per la sua eccessiva ingerenza che, pare, fallirà il primo matrimonio del violinista”.

Nato a New York nel 1916, Menuhin è primo di tre figli. Il padre, che si aggira per casa cantando con voce da tenore baritonale, avrebbe anch’egli voluto suonare il violino, cosa che gli fu impedita poiché considerata, dal severo nonno rabbino, un’occupazione troppo frivola. Forse per questo, egli riverserà la sua passione musicale sui tre figli, esortando allo studio della musica sia Yehudì che le due sorelle, entrambe pianiste d’eccezione.

Dopo un’infanzia vissuta da bambino prodigio, il superdotato Menuhin sarà uno dei primi artisti del ‘900 a intraprendere una tournèe mondiale, tra il 1935 e il 1936: toccherà ben 63 città in tredici Stati diversi, un vero record per quegli anni. Il grande violinista è, secondo Cantù, un artista istintivo, un interprete assoluto. E si distingue nel panorama novecentesco per l’eccezionale bellezza del suono.

Non è la perfezione tecnica a caratterizzarlo ma una sonorità unica che sembra caricarsi di insospettati valori spirituali.

Artista dell’intuito, ebbe il grande merito di iniziare la rivalutazione di Niccolò Paganini, in anni in cui il celebre autore del trillo del diavolo era per lo più ancora maltrattato e misconosciuto dalla critica.

Forse in virtù di questa sua impulsività musicale e spontaneità di tocco, già nell’infanzia Yehudì fu poco propenso all’esercizio tecnico. Si suppone che possa essere proprio questo il motivo che ne determinò quell’usura fisica che lo affliggerà negli ultimi anni. Alberto Cantù racconta di aver fatto riferimento alla figura di Orfeo, nel titolo della sua opera, proprio perché, come il personaggio mitologico, Menuhin sembra, a un certo punto della sua vita, voltarsi indietro e non trovare più il talento e la facilità che ne avevano caratterizzato la prima stagione della carriera. Un calo fisico che non ha dunque cause certe, ma che egli tenterà di risolvere in ogni modo, con meditazione e yoga. Nulla tuttavia varrà a restituirgli l’immediatezza e l’abilità perduta. Finirà negli anni Ottanta per cercare altre vie, in cui sia meno importante la purezza tecnica. Si dedicherà al jazz, con Stephane Grappelli e alla musica orientale. Cantù ci descrive questi esperimenti come vuoti e privi dell’eccezionalità che fu in precedenza propria del grande inteprete.

Ma chi fu il Menuhin uomo, al di là del musicista? Poco sappiamo riguardo alla sua sfera intima e privata. Nella sua autobiografia intitolata L’arte: Speranza dell’Umanità, egli stesso dichiarerà una profonda difficoltà a stabilire rapporti umani autentici e a entrare in vera empatia con gli altri. Uomo assente e distante nella sostanza, per quanto estremamente cordiale nelle apparenze, Menuhin ammette di entrare per la prima volta in contatto con “l’altro” solo in occasione dell’attività concertistica che terrà, durante la Seconda Guerra Mondiale, negli ospedali e campi militari. Sappiamo che, dopo la Liberazione, egli si esibì con Benjamin Britten in un concerto per i deportati di Bergen-Belsen. Nel 1947, si recò in Germania per suonare sotto la direzione di Furtwängler, atto che fu salutato all’epoca come la riconciliazione morale del musicista ebreo con lo Stato tedesco. Nel ‘33 Menuhin si era rifiutato di esibirsi con lo stesso direttore, dato che l’atteggiamento di Furtwängler verso il regime nazista e gli ebrei fu sempre controverso: ebbe certamente il merito di salvare dai campi di concentramento alcuni membri della Filarmonica di Berlino, ma al contempo venne sempre elogiato dai nazisti come il “direttore ufficiale del regime”.

I rapporti con l’ebraismo

Per quanto concerne la religiosità di Yehudì Menhuin, l’unica fonte al riguardo rimane lo scritto dello stesso, Musica e vita interiore, appena ripubblicato oggi (editore Rueballu). Da sempre il grande violinista non ama parlare di sé e anche quando affronta argomenti che possano in qualche modo toccare la sua sfera privata, si attiene a ragionamenti generici e universali. Sappiamo ovviamente quanto il sentimento religioso e la percezione del divino siano legati per Menuhim alla musica. Il musicista non nascose mai la propria profonda fiducia in un mondo governato da un presenza benigna e parlò sempre di una sorta di religiosità dell’arte in cui la musica gioca un ruolo fondamentale e salvifico, nutrimento spirituale dell’uomo e salvezza dal declino dei valori, -in particolare quella di Bach. Non a caso Johann Sebastian Bach era per Menuhin uno dei pochi grandi sacerdoti dell’arte: per quanto appartenente a un’altra epoca, Bach rappresentava per lui il baluardo morale contro il decadimento dei valori. Come invece il violinista vedeva se stesso? Ovunque traspare una grande modestia e umiltà. Menuhim scrive di voler desiderare “l’eleganza di Kreisler, la sonorità di Elman e la tecnica di Heifetz”, tre dei massimi interpreti del violino del secolo scorso. Sembrerebbe in ciò ammettere di non possedere nessuna della tre qualità. Eppure, quando chiediamo ad Alberto Cantù in che cosa Menuhin fu speciale, egli ci parla di un suono estremamente bello e di una eccezionale naturalezza per cui anche il barocco e opulento Paganini assume, se interpretato dal violinista, la purezza di un classico.

I riconoscimenti in vita non mancarono. Il compositore ungherese Béla Bartók scrisse per lui la Sonata per violino solo. Nel 1985, Menuhin fu insignito del titolo di baronetto ed ottene la cittadinanza britannica ad honorem. Dopo una complicazione polmonare, morì a Berlino, nel 1999.

Alla sua grandezza la Royal Academy of Music tributato, post-mortem, una delle più complete collezioni dedicate ad un singolo musicista. A un uomo che visse per la musica e che volle farsi portatore di quella missione di luce, di cui ogni ebreo sa di essere investito. Anche quando i problemi fisici gli imposero di abbandonare la carriera di concertista, egli non si arrese e non volle mai abbandonare il ruolo attivo. Cercò continuità dando vita ad un’accademia e quindi a una competizione per giovani talenti del violino. L’eredità spirituale di questo musicista rimane tuttavia nelle sue incisioni, che sanno trasmettere anche ai non esperti quella profonda bellezza che tocca il cuore, quel senso divino della redenzione e del tikkun ha olam che solo la grande arte sa regalare al mondo.