«La mia avventura di storico, al servizio della memoria»

di Ilaria Myr

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Narrate uomini la vostra
storia… ebraica. Dopo 35 anni
di lavoro, Michele Sarfatti lascia la direzione del CDEC e racconta la sua vita di studioso. Successi, traguardi, prospettive. E di come sia riuscito a far luce su ambiguità e responsabilità del Ventennio fascista in fatto di Shoah.
Sfatando l’inossidabile mito degli “italiani brava gente”

 

 

“Non lo nego: c’è un po’ di tristezza nell’andare via. In fondo il CDEC ha coinciso con buona parte della mia vita… Ma so che questo non è un divorzio: io non scompaio dal CDEC né il CDEC scompare dal mio orizzonte culturale. Certo, avrò più tempo per dedicarmi ai miei studi e alle mie attività». Sono parole malinconiche ma serene quelle con cui Michele Sarfatti, storico di fama internazionale, racconta al Bollettino il suo “arrivederci” al Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea. Dopo ben 35 anni di lavoro, di cui 14 da direttore, lascerà infatti in agosto l’istituto che sotto la sua direzione è diventato un punto di riferimento autorevole in Italia e nel mondo per gli studi sulla Shoah e, in generale, sulla cultura ebraica. In questi anni il CDEC ha ampliato enormemente le proprie attività, che oggi vanno a coprire molti ambiti diversi. Negli ultimi tempi, poi, ha concentrato i propri sforzi sulla digitalizzazione del suo patrimonio, dando vita alla Digital Library e al progetto Open Memory Project, che si è aggiudicato nel luglio 2015 il “Gran Prize” della Lodlam Challenge 2015, la gara internazionale dei progetti Linked Open Data per i beni culturali. Attraverso il suo impegno, sotto la direzione di Sarfatti, il CDEC ha contribuito fortemente a modificare la percezione della società italiana circa il ruolo giocato dall’Italia durante quel buio periodo e a far conoscere il destino dei suoi connazionali ebrei.
Ma non solo. Proprio in virtù della sua autorevolezza, il Centro è stato sempre coinvolto nelle più importanti iniziative collegate alla conoscenza della Shoah: due su tutte, l’istituzione del Giorno della memoria e la creazione del Memoriale della Shoah di Milano, grazie ai Figli della Shoah e alla Comunità di Sant’Egidio, nel luogo del Binario 21, identificato proprio grazie a una intervista realizzata dal CDEC a Liliana Segre.
Sarfatti, quali sono i principi che hanno guidato il suo lavoro in questi 14 ultimi anni?
Le mie linee guida da direttore del CDEC sono state sostanzialmente tre. La prima si basa sulla convinzione che il CDEC possa andare avanti se riesce a tenere insieme il passato con il futuro. Il secondo aspetto è la multiformità dei servizi su cui lavora: biblioteca (oltre 25.000 pubblicazioni in numerose lingue), audio-videoteca, archivio fotografico e cartaceo, didattica della Shoah, monitoraggio sul pregiudizio e l’antisemitismo, con l’Osservatorio Antisemitismo, e organizzazione di iniziative culturali – e degli ambiti che studia: storia della Shoah, ebrei nel periodo dell’Italia unita, pregiudizio e antisemitismo, storia e cultura dell’ebraismo in generale. Tutto questo lo rende un unicum nel panorama europeo. Infine, fin dall’inizio ho scelto di dare a ogni team interno l’autonomia di agire, lasciando andare avanti chi avesse le idee giuste. Un ente che si occupa di cultura non può avere un’organizzazione simile a un’azienda, ma deve poter contare sul lavoro autonomo delle sue preziose risorse. E dietro al CDEC ci sono sempre state ottime persone, che hanno portato avanti con determinazione e convinzione i suoi progetti.
Quali sono le principali sfide che il CDEC da lei diretto ha affrontato?
L’impresa principale degli ultimi 15 anni è stata quella di portare la maggior mole possibile di documentazione conservata dall’istituto sul digitale, per renderla disponibile a tutti. Si tratta di un’auntetica impresa dal punto di vista culturale e di una battaglia estenuante dal punto di vista finanziario. Il mondo digitale ha infatti dei costi importanti, e per coprirli ci vuole molta tenacia e tanto impegno.
Ma nel corso di questi 30 anni sono stati raggiunti tanti altri importanti traguardi: abbiamo portato tutto il nostro catalogo dei libri sulla piattaforma nazionale SBN, ed è stato creato dal nulla l’archivio fotografico con decine di migliaia di immagini di ebrei italiani e in Italia. E poi abbiamo messo in piedi la audio-videoteca, con migliaia di film e materiali audio. A monte di tutto il lavoro c’è la mission del CDEC di spiegare al mondo esterno cosa è stato e cosa è tuttora il mondo ebraico. In quest’ottica rientra la rassegna Nuovo Cinema Israeliano, lanciata otto anni fa per raccontare Israele per come è, abbattendo pregiudizi e presentandolo nella sua realtà. La stessa impostazione vale anche per il lavoro sull’antisemitismo e il pregiudizio portato avanti dal nostro Osservatorio Antisemitismo, che non fa mai azioni “contro”, ma offre analisi e monitoraggio di quello che accade in questo ambito.
L’ambito su cui il CDEC ha concentrato maggiormente i suoi sforzi è quello dello studio della Shoah in Italia. Quali traguardi avete raggiunto?
Il punto cardine nella ricerca sulla Shoah è stata l’indagine sui nomi dei deportati dall’Italia svolta da Liliana Picciotto, pubblicata poi nell’ormai noto Il libro della Memoria. Questo fondamentale lavoro ha contribuito a modificare la credenza diffusa nei primi decenni del dopoguerra che la Shoah fosse una tragedia che riguardava solo la Germania. Personalmente mi sono concentrato sulle Leggi razziali del 1938 e sull’impegno profuso da Mussolini nella loro stesura, dimostrando come il Duce non fu solo un “passacarte” di Hitler – come gran parte degli studiosi affermava nei primi decenni del dopoguerra -, ma una persona che aveva pensieri originali, razzisti e antisemiti, che decise di mettere in pratica quando e come voleva. Entrambe queste ricerche hanno contribuito a modificare la percezione che la società italiana aveva del Ventennio e hanno senza dubbio avuto un grandissimo peso nel processo che ha portato all’istituzione del Giorno della memoria. Il fatto però che fuori dal CDEC non ci sia stato un forte sviluppo dello studio della Shoah lascia l’amaro in bocca. È come se spettasse agli ebrei stessi studiare la persecuzione subìta. Lo stesso vale per lo studio dell’immigrazione in Italia degli ebrei dai Paesi dell’Africa settentrionale e del vicino oriente, che non suscita molto interesse al di fuori del mondo ebraico. Mentre, come ho anche detto recentemente ai candidati sindaco di Milano, proprio su di un tema di così grande attualità, – come quello dell’integrazione degli immigrati -, la Comunità ebraica milanese avrebbe molto da dire.
Come storico, che cosa ha imparato lavorando al CDEC?
Quando sono arrivato, in archivio c’erano materiali diversi: molte fotocopie che gli studiosi dell’istituto avevano fatto presso gli archivi di Stato di varie città, per collaborare a procedimenti giudiziari di procure postbelliche, ma anche tante testimonianze personali, per lo più scritte. Ecco, questo mi ha insegnato
che è necessario costruire la Storia tenendo insieme atti ufficiali e vicende dei singoli. Un altro insegnamento è che si può conoscere veramente solo quando si può comparare con altre realtà: questo perché il CDEC è sempre stato collegato in una rete internazionale con altri istituti.
Come vede il futuro del CDEC?
Per quanto riguarda gli ambiti di lavoro, penso che fra 10 anni si occuperà meno di Shoah, e un po’ di più di pregiudizio in generale, di integrazione intra-ebraica e della storia degli ebrei in Italia dopo il 1945, che non è stata molto studiata.
Chi prenderà il mio posto? Al momento sono arrivate 38 candidature, che verranno valutate. Sono però convinto che il CDEC oggi abbia bisogno di una persona giovane alla guida, di una direzione adeguata ai tempi. Un istituto culturale ha un estremo bisogno di vitalità, di ricalibrarsi continuamente sulla società, e secondo me la mia è durata troppo a lungo. Pensi che io non ho neppure un profilo su Facebook…