Zygmunt Bauman

Addio a Zygmunt Bauman. A Mosaico: “Il popolo ebraico? Sopravvive perché è liquido”

di Ilaria Myr

Il sociologo polacco di origini ebraiche Zygmunt Bauman è morto oggi a Leeds all’età di 91 anni. Lo scrive Wyborcza online. Bauman è stato il teorico della «società liquida», le sue analisi sul modo di vivere dell’uomo moderno e sulla sua percezione della realtà lo avevano reso celebre tra gli intellettuali.

Secondo Bauman, la trasformazione della società aveva privato l’uomo moderno di qualunque riferimento “solido”, lasciandolo privo di strumenti per orientarsi.

Bauman era nato a Poznan, in Polonia, il 19 novembre 1925 da una famiglia di origini ebraiche. In seguito all’invasione del suo Paese da parte delle truppe naziste all’inizio della seconda guerra mondiale, Bauman fugge, adolescente, con i genitori in Unione Sovietica e si arruola in un corpo di volontari per combattere contro i nazisti. Finita la guerra, torna nel suo Paese e inizia a studiare sociologia all’Università di Varsavia dove si laurea in pochi anni. Nel 1968, è costretto di nuovo a emigrare in seguito a un’epurazione antisemita messa in atto dal governo polacco e si rifugia prima in Israele, dove ha insegnato all’Università di Tel Aviv, poi in Gran Bretagna dove, dal 1971 al 1990, è stato professore di sociologia all’Università di Leeds, di cui ora era emerito.

Qui di seguito riproponiamo un’intervista che Mosaico gli ha fatto nel 2011, in cui parla di ebraismo, consumismo e Shoah.

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È allampanato e con dita lunghissime. Il professor Zygmunt Bauman, filosofo e sociologo della società liquida, 86 anni, è senza dubbio considerato tra i grandi pensatori del mondo contemporaneo, un maitre-à-pénser il cui nome viene sempre associato al termine globalizzazione. Considerato il teorico della “postmodernità”, è il filosofo che ha coniato il concetto di “mondo liquido”: un’analisi tanto profonda quanto impietosa della nostra epoca, attanagliata da un’incertezza globale derivante dalla trasformazione dei suoi protagonisti da produttori a consumatori (compro quindi esisto), e dalle frustrazioni che tutto ciò comporta (almeno per chi non può acquistare beni di consumo). Non è però solo il concetto di società “liquida”, contrapposta a quella “solida”, a legarsi al nome di Bauman. Altro tema cardine è quello della morale e del suo ruolo nella società postmoderna, con al centro le sofferenze degli uomini, le loro umiliazioni. (“Non è possibile neutralità morale in sociologia, chi lo sostiene mente a se stesso”). Inoltre, Bauman ha riflettuto a lungo sulla Shoah, criticando in modo inappellabile il negazionismo. Nato nel 1925 in Polonia, a Poznan, da una famiglia ebraica non praticante, nel 1939 scappa dall’invasione nazista rifugiandosi prima nella zona di occupazione sovietica e, successivamente, mettendosi al servizio di un’unità militare sovietica. Dopo la guerra, inizia a studiare sociologia all’Università di Varsavia. Ma nel marzo del 1968, un’epurazione antisemita spinge molti degli ebrei polacchi sopravvissuti a emigrare all’estero; tra questi, molti intellettuali che avevano perso il favore del governo comunista. In un primo momento emigra in Israele, per insegnare all’Università di Tel Aviv; successivamente accetta una cattedra di sociologia all’Università di Leeds, dove vive tuttora. Alle interviste, Bauman non si concede facilmente: e se lo fa, è per parlare delle sue teorie socio-filosofiche. Più difficile che intervenga su un argomento che considera privato, come il proprio ebraismo e l’identità ebraica. In questa intervista concessa al Bollettino, ha accettato di affrontare la questione, arrivando a parlare, per la prima volta, di un “ebraismo liquido”. E di molto altro ancora.

Pensa che il concetto di modernità liquida possa essere applicato anche all’ebraismo?

Quella della “liquidità” è una metafora cha vale anche per l’ebraismo di oggi, in cui nulla è più fisso e garantito, fermo e stabile; e tutto pare mutevole e inafferrabile. La “liquidità” ci racconta il tema più importante della nostra condizione contemporanea: ovvero l’incapacità delle strutture, delle istituzioni e di qualsiasi altro “contesto” -scelte e azioni individuali comprese-, a “stare fermi”, a non cambiare, ricreando invece se stesse in maniera monotona, in una forma immutata o solo alterata di poco (come i liquidi che si modellano ma non mutano di sostanza). Questa tendenza interessa tutti gli aspetti della vita umana, e l’ebraismo potrebbe difficilmente essere escluso da questo trend pressoché universale. Modernità liquida nel senso di una storia priva di direzioni e di una biografia priva di progetti, ondivaga, liquida, appunto. Ovviamente, il grado di smottamento e“liquidizzazione” cambia: pressioni e spinte della società circostante verso la condizione liquida vengono contrastate dal mondo ebraico con tentativi e sforzi costanti -a volte tiepidi, a volte scomposti e frenetici-, di arrestarla o circoscriverla. Come? Fissando regole solide per rendere tutto immune al cambiamento; alcuni di questi tentativi hanno più successo, e sono più duraturi di altri. Per questo mi astengo dal pronunciare verdetti generalizzati o giudizi. Nella nostra società che rapidamente si “diasporizza”, nessuna sorpresa dunque, che si cerchi di creare nicchie locali chiuse, protettive, tenute lontane da ambienti fluttuanti e liquidi, da una modernità perturbante, destabilizzante. A Mea Shearim o in una colonia Chabad, ad esempio, l’ebraismo è (anche se impossibile dire per quanto tempo ancora), meno “liquido” che in St. John’s Wood o Golders Greem (le comunità inglesi più secolarizzate, ndr). Ma questa specifica circostanza conferma la liquidità dell’ebraismo in quanto tale, mutevole anch’esso e soggetto a smottamenti.

A suo avviso, quali sono le criticità maggiori dell’ebraismo contemporaneo?

Per quanto potenti ed efficaci possano essere stati i due millenni di “integrazione dall’interno, da dentro”, ovvero a partire dal proprio nucleo di identità profonda, c’è da dire che gli ebrei devono una considerevole parte del loro successo sociale a un moto di rivalsa rispetto a pressioni esterne di discriminazione, separazione, isolamento ed esclusione. Nei fatti tuttavia, a partire dall’Ottocento, la pressione delle nazioni europee all’assimilazione ha eroso dall’interno tantissime Comunità ebraiche. Ma oggi, il mondo contemporaneo è troppo diasporico e policentrico, culturalmente globalizzato insomma, per percorrere le vie tradizionali usate finora dalle nazioni e dai suoi “nativi” per sopprimere o liberarsi di “outsiders”, come gli ebrei. E che dire di quegli ebrei che per contrastare l’assimilazione (ovvero lo “scioglimento dei solidi”), tendono a enfatizzare ogni gesto antisemita per ricompattare le comunità e gridare così “aiuto, stringiamoci a coorte per combattere il nemico antisemita”?.

Lei ha dedicato molte pagine dei suoi libri al consumismo, al socialismo, al capitalismo: come definisce l’ebraismo in questo contesto?

Ogni parola che ho scritto sul capitalismo, inclusa la più recente variante “consumistica”, si applica agli ebrei non meno che a qualsiasi altro gruppo coinvolto in questo sistema. Le differenze fra le posizioni non corrono su binari etnici o religiosi. E se lo fanno, questi binari sono solo alcuni tra i tanti.

Qual è il suo rapporto oggi con l’ebraismo? E come era durante la sua infanzia?

Nihil judeum a me alienum esse puto: non ritengo che alcun giudeo sia diverso da me. Mi sento corresponsabile per quello che ogni ebreo (incluso me stesso) fa, e auguro a ciascuno di noi di fare il bene ed evitare il male. Per il resto, io non appartengo a nessuna “Comunità”, non pratico né osservo nessun rito ebraico specifico. Della mia infanzia ricordo che ero consapevole di essere ebreo (e se non lo fossi stato, i vicini e i compagni di classe me lo avrebbero sicuramente ricordato!), anche se bisogna ammettere che la mia conoscenza di ciò che effettivamente significasse era scarsa e rudimentale. Mio padre era un sionista convinto, profondamente assorbito dalle tradizioni ebraiche così come dalla letteratura yiddish ed ebraica. Nonostante ciò, si astenne dall’esercitare pressioni nazionalistiche o religiose sui suoi figli, limitando le sue richieste a quegli aspetti “universalmente umani”, come l’onestà, il dire la verità, la sensibilità alla sofferenza umana e la dedizione nel cercare di raggiungere il proprio obiettivo. Quindi, lei potrà rispondere alla domanda sulla mia infanzia in due modi: dire che essa si è svolta separatamente dall’ebraismo. Oppure: che essa si è sviluppata sulle linee etiche tracciate dagli ebrei, coloro i quali le hanno introdotte per primi nel mondo.

Pensa che l’ebraismo abbia influenzato in qualche modo il suo pensiero?

Sarebbe bizzarro se non lo avesse fatto. E se anche dicessi di no, qualsiasi psicologo dello sviluppo evolutivo dimostrerebbe che non è vero! Ma non posso neanche dire che io abbia intenzionalmente e coscientemente “riciclato” le mie esperienze personali di vita ebraica nelle mie idee sociologiche. Inoltre, un osservatore esterno è in questi casi meglio posizionato per dare un giudizio attendibile di quanto non lo sia io. L’aspetto ebraico forse più profondamente connesso con la mia vita è la preoccupazione costante sul modo in cui le società procedono nella costruzione e nello smantellamento dello “straniero”: con ambivalenza, con fonti di coercizione, crudeltà e malvagità, ineguaglianza sociale, discriminazione, umiliazione;  e per come possano invece essere possibili, in queste stesse società, etica e moralità. Ma devo anche ammettere che sono soprattutto le esperienze di Janina, la mia compagna di vita, ad avermi in gran parte ispirato a seguire questa direzione. (Janina Lewinson-Bauman, moglie di Zygmunt Bauman, aveva vissuto la drammatica esperienza del ghetto di Varsavia, di cui ha scritto in alcuni libri editi dal Mulino, ndr)”.

“Le Dor vador”: di generazione in generazione, è uno dei principali insegnamenti dell’ebraismo. Che cosa ne pensa? E cosa crede di avere trasmesso ai suoi figli?

La regola “Midor ledor” non è un’idiosincrasia dell’ebraismo o un suo segno distintivo. È piuttosto un aspetto universale della riproduzione della società, in ogni luogo e in ogni tempo, anche se oggi ciò avviene meno che nel passato: nell’era delle diaspore e di una intensa ibridazione culturale, infatti, gli umani somigliano più ai loro contemporanei, parenti o meno, che ai loro antenati di sangue. Ogni generazione crea -di proposito o meno- una serie di opzioni con le quali le generazioni successive si confrontano. Ma è la generazione che viene dopo e che succede alla precedente a scegliere fra queste opzioni. L’elemento della scelta, nel passaggio generazionale, ci dimostra che oggi è quasi impossibile per la generazione dei padri controllare e determinare le reazioni dei propri eredi. E tutto ciò avviene particolarmente nei nostri tempi di “autostrade dell’informazione”, nelle quali le reti di interazione umane hanno perso l’ancoraggio territoriale e la dipendenza dal piccolo e dal “locale”…

La Shoah ha una parte importante nei suoi libri. Che cosa ha capito la modernità di questa tragedia? E cosa dovrebbe fare per trasmetterla alle future generazioni?

Per più di vent’anni questo è stato, e resta, la mia preoccupazione più grande. La lezione della Shoah, di gran lunga il crimine più disumano commesso dentro una civiltà -quella tedesca-, che si vantava di essere il più grande esito della storia dell’umanità, è molto lontana dall’essere stata acquisita. Soprattutto, non è stata trasformata in sforzo genuino per rendere accettabili -e disinnescare-, i potenziali morbosi che il nostro stile di vita “civilizzata” porta con sé: parlo di quegli stessi potenziali e morbosità con cui la Shoah si è potuta produrre nella Germania del 1940.

In una sua recente intervista al giornale polacco Politika, lei ha criticato il muro tra Israele e la Cisgiordania paragonandolo a quello del ghetto di Varsavia…

Non ho mai detto quello che lei sembra suggerire. Il “paragone” fra le due cose è certamente insensato; tuttavia ho il sospetto che, nel caso inverosimile in cui il muro fosse stato costruito dall’Autonomia Palestinese invece che dal governo israeliano, l’establishment israeliano sarebbe stato il primo a ricorrere a questo paragone… Quello che ho detto, invece, è che la decisione di costruire un muro tra israeliani e palestinesi è uno dei trionfi postumi di Hitler. Per una volta è accaduto quello che Hitler voleva ma che non è riuscito a realizzare: fare diventare stupidi gli ebrei e il mondo, e rendere la coesistenza pacifica una cosa impossibile o inconcepibile. Quello che ho esplicitato nell’intervista era una diagnosi di sapore psicoanalitico. Nel nostro inconscio collettivo, l’immagine del muro corrisponde all’archetipo dell’esclusione, è il simbolo della rottura della comunicazione, stigma di degradazione e negazione dei diritti umani. C’è da chiedersi se l’idea di costruire un muro intorno a Israele e alle sue colonie nei territori occupati non sia venuta in mente ai leader israeliani come un modo per gestire la presenza di indesiderabili e come ultimo simbolo di una separazione unilaterale ma irrevocabile, oltre che come rifiuto di comunicare. Più alto e più largo è il muro, più ridotta sarà la possibilità di parlare gli uni con gli altri, di immedesimarsi nell’altro, mettersi nei suoi panni e di arrivare a un compromesso: e cioè giungere insieme a una coesistenza benefica e accettabile per entrambi.

Qual è il suo rapporto oggi con Israele?

È lo stesso rispetto a quello che ho spiegato 40 anni fa. L’unica differenza è che quello che allora era solo una macabra predizione è diventata una preoccupante realtà: e cioè che l’ostilità sarebbe diventata uno slancio che si auto-alimenta, che l’occupazione protratta avrebbe diffamato moralmente l’occupante altrettanto, se non di più, dell’occupato, e che la militarizzazione del dibattito e dell’azione politica in Israele avrebbe fatto perdere di vista i veri problemi sociali del Paese e la capacità di occuparsene. Sono stato in Israele purtroppo solo durante il breve periodo del governo Rabin: appena il tempo di coltivare la speranza che la nazione sarebbe tornata in sé e che sarebbe riuscita a fermare la decadenza. Quel periodo fu spazzato via in modo violento: e non da una pallottola palestinese ma da una ebraica. Da allora, elezione dopo elezione, la maggioranza degli israeliani ha espresso il proprio favore per l’alta manipolazione, anziché per la propensione al dialogo, scegliendo di votare leader molto assertivi nel dichiare che la coesistenza pacifica fra israeliani e palestinesi non era nei programmi…