Ginzburg: la verità della Storia e la trappola del ricordo

di Fiona Diwan

Il mestiere dello storico, la dialettica tra Memoria e Storia, il pericolo di un nuovo fascismo. E poi la riflessione sull’attualità e sul terrorismo: «Per capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco». Parla Carlo Ginzburg, tra i più grandi storici contemporanei

«Avevo cinque anni, era l’estate del 1944. Con mia madre e la mia nonna materna eravamo nascosti in un albergo vicino a Vallombrosa, in Toscana. Eravamo sulla linea del fronte, i tedeschi si stavano ritirando. Era una situazione molto pericolosa. Mia nonna mi prese da parte e mi disse: “Se ti chiedono come ti chiami, dì che ti chiami Carlo Tanzi”. Carlo Tanzi (il nome che scrisse sulla prima pagina di uno dei miei libri di fiabe) era il nome di suo padre; lei era l’unico membro non ebreo della mia famiglia. In quel momento (l’ho capito più tardi), sono diventato ebreo. Il mio sentirmi ebreo viene da lì, dalla persecuzione, dal nome falso che negava e sostituiva quello vero. Ma non credo nell’identità: ritengo sia una costruzione a posteriori, uno strumento politico volto a tracciare confini e ad escludere. L’identità (ebraica, italiana, europea e così via) non è una categoria analitica: non serve a capire la realtà». Per Carlo Ginzburg, non esiste una sola jewishness, quanto infiniti modi di sentire l’appartenenza ebraica. Me lo spiega con vivacità, seduti nel grande appartamento nel centro storico di Bologna dove Ginzburg abita, la zona adibita a studio che è un’infilata di cinque stanze zeppe di libri, tavoli e scatoloni pieni di fogli sparsi. Nato il 15 aprile 1939 a Torino, figlio di Leone, uno dei grandi intellettuali antifascisti, fondatore dell’Einaudi, ucciso dai nazisti nel 1944, e della scrittrice Natalia Ginzburg (nata Levi), nipote di Giuseppe Levi, scienziato costretto all’esilio dalle leggi razziali, Carlo Ginzburg è oggi considerato uno dei più grandi storici italiani: ha insegnato nelle più prestigiose università del mondo, Harvard, Yale, Princeton, UCLA (Università della California a Los Angeles), Bologna. Dal 2006 al 2010 ha insegnato Storia delle culture europee alla Normale di Pisa. Ha scritto libri considerati ormai dei classici (tra i tanti Il formaggio e i vermi, I benandanti, Indagini su Piero, Storia notturna…), che hanno plasmato la mia generazione e quella di tanti storici contemporanei. La sua influenza sul mondo della ricerca è stata enorme. Vincitore di una serie innumerevole di premi (tra cui il Balzan 2010, vinto “per le sue doti eccezionali di immaginazione, rigore scientifico e talento letterario, con le quali ha recuperato e gettato nuova luce sulle credenze popolari nell’Europa del XV e del XVI secolo…”), Ginzburg ha appena pubblicato Paura reverenza terrore – Cinque saggi di iconografia politica, un emozionante volume con cui Adelphi ha deciso di inaugurare Imago, una nuova collana. «Quello che ho cercato di proporre in questo libro è il recupero dello spessore storico delle immagini», spiega lo storico. Ginzburg ha ben presente qui la lezione di Aby Warburg e l’elaborazione dell’idea di Pathosformeln, le formule del pathos, con cui il grande storico dell’arte ritrovò un filo comune nella storia delle immagini. E qui Ginzburg riprende e riannoda fili di senso tra  pitture, sculture, disegni: dal Marat di David a Guernica di Picasso passando per il Leviatano di Hobbes. In tanta prorompente erudizione, Ginzburg affronta una questione scottante del nostro presente: parla, deliberatamente,  di terrore, non di terrorismo. Entrambi attuali, anche se lo storico schiva la cronaca più immediata: «Qualche volta – scrive – bisogna cercare di sottrarsi al rumore, al rumore incessante delle notizie che ci arrivano da ogni parte. Per capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco. Oppure, ricorrendo a una metafora diversa: dobbiamo imparare a guardare il presente a distanza, come se lo vedessimo attraverso un cannocchiale rovesciato». Uno sguardo obliquo e distante. Nessuna empatia. Piuttosto una scelta di distanziamento. Come dire che solo allontanandoci dal cuore dell’azione possiamo sperare di coglierne il senso.
Storia e memoria, il loro rapporto…
«Si nutrono a vicenda, ma non vanno confuse né tanto meno identificate. La memoria non si basa necessariamente sulla verità; plasma, deforma, arricchisce, si alimenta di tante cose, come scrisse Marc Bloch. Ricordo per esempio il primo processo, in Israele, nel 1986, al cosiddetto “boia di Treblinka”, Ivan Demjanjuk. Molti sopravvissuti furono chiamati a testimoniare; in aula ci furono scene strazianti. Alla fine del primo processo l’uomo fu assolto: l’uomo non era realmente Demjanjuk, c’era stata una confusione di persone. Dunque, il ricordo che aveva innescato quel dolore non corrispondeva alla realtà? Oppure il ricordo era vero e il giudizio di assoluzione era infondato? Certo, in un secondo processo, nel 2011 a Monaco di Baviera, Demjanjuk fu condannato. Innocente o colpevole, non sono in grado di pronunciarmi. Mi preme invece sottolineare che la memoria può essere innescata anche da un falso ricordo. La verità delle emozioni non corrisponde necessariamente alla verità storica. Il ricordo dei testimoni non coincide con la ricostruzione degli storici. Lo dico senza voler sminuire l’importanza della testimonianza, sia chiaro. Delle testimonianze lo storico non può fare a meno. Ma anche il grande studioso Yosef H. Yerushalmi nel suo libro Zakhor, distingueva la conoscenza storica dalla memoria».
Come fondare allora – scrisse Ralph Samuel, che lei cita nel suo libro – “una storiografia sensibile alle ombre della memoria…, a quelle immagini dormienti che irrompono non richieste, come sentinelle spettrali dei nostri pensieri”?
«Oggi, l’immediatezza della memoria viene spesso contrapposta all’atteggiamento distaccato della storiografia, suggerendo in maniera più o meno implicita la superiorità della prima sulla seconda. Ma se analizziamo la dimensione culturale e sociale della memoria le cose appaiono più complicate. Il mestiere dello storico consiste nel non dare niente per scontato. Le cose – anche quelle che si direbbero più evidenti – non sono mai quello che sembrano. Credo che rispetto alla materia che indaghiamo si debba mantenere (o costruire) una forma di distanza critica, magari usando tecniche come lo straniamento. In questo, penso di essere in controtendenza: oggi il clima accademico americano, per esempio, predica l’empatia, l’identificazione con gli attori della storia – soprattutto quando si tratta di vittime. Io penso invece che l’empatia si traduca in un modo “ventriloquo” di avvicinarsi al passato, che finisce col far dire agli attori della storia ciò che vogliamo. È invece attraverso la distanza che si recuperano le voci del passato. Lo studio delle fonti – la filologia – va contrapposta all’empatia. Della memoria, la storia non può fare a meno. Ma le fonti vanno osservate in controluce, come diceva un maestro, Arsenio Frugoni».
Ogni storia è storia contemporanea, diceva Benedetto Croce…
«Quest’affermazione di solito è stata intesa così: la ricerca storica si nutre del presente e delle domande che nascono dal presente. Ma l’affermazione di Croce aveva anche un altro significato, generalmente dimenticato: nel momento in cui pensiamo la storia la rendiamo presente. Solo attraverso questa “presentificazione” il passato vive. Questa posizione implica un rischio: l’anacronismo. Il passato “presentificato” finisce con l’essere attualizzato, schiacciato sul presente. Il rimedio a questo rischio di deformazione può venire solo dalla filologia in senso ampio, come la intendeva Giambattista Vico: una filologia che lavori non solo sui testi ma sugli oggetti, sulle immagini, su tutte le testimonianze del passato. Spesso gli storici si volgono al passato imponendogli, senza rendersene conto, la loro lingua. Contro questa tendenza mi è parso utile riflettere, rielaborandola, su una distinzione avanzata da Kenneth Pyke, antropologo, linguista e missionario (protestante): quella tra le categorie dell’osservatore (il livello etic) e le categorie degli attori (livello emic). Nella mia rielaborazione (che rilegge Pike attraverso Bloch e Momigliano), gli storici partono da domande etic, necessariamente anacronistiche, per cercare di afferrare, attraverso la filologia, le categorie degli attori (emic)».
Negazionismo, come combatterlo?
«Sia chiaro, i negazionisti sono canaglie che mirano solo a farsi pubblicità. Sono contrario a una legge contro il negazionismo per vari motivi: uno di questi è che faremmo un favore a questa gente. In ogni caso, il negazionismo non ha alcun valore cognitivo: lo sterminio degli ebrei è uno dei fenomeni più documentati della storia. Formulare dubbi sulla sua esistenza è ignobile».
27 gennaio, Giorno della Memoria: necessaria o ridondante (per alcuni)?
«Necessaria, certo. Nella coscienza storica degli italiani le rimozioni sono molte. Clamoroso è il silenzio di decenni, e ancora presente, sull’uso dei gas nervini in Etiopia da parte dell’Italia fascista. Ci fu chi, contro una documentazione storica schiacciante in questo senso si ostinò a negare, come quella canaglia di Indro Montanelli».
Come percepisce l’attuale instabilità europea?
«Qui il discorso sarebbe lungo. È probabile che il terrorismo, le tragedie dell’immigrazione, le loro ripercussioni, durino a lungo. Ma si tratta di problemi non solo europei. Sono appena tornato dagli Stati Uniti. La cinica demagogia di Donald Trump lascerà una traccia, anche se le sue possibilità di successo sono molto scarse (ma di qui a un anno la situazione può cambiare). La verità è che il fascismo ha un futuro e si può incarnare in nuove forme e in parte, paradossalmente antiche».