Avram Goren Goldstein

E’ mancato a Milano, il 26 novembre, Avram Dolphy Goren Goldstein. Al compi- mento dei suoi cento anni, nel luglio 2005, il Bollettino gli aveva dedicato un ritratto che riproponiamo ai nostri lettori.

Quando a 96 anni non gli hanno rinnovato la patente per insistenza dei figli, terrorizzati dalla sua guida disinvolta (alla visita medica, vista, riflessi… risultava idoneo), Dolphy si è comprato una moto elettrica a quattro ruote. E felice si è messo a guidarla per Forte dei Marmi, dove da cinquant’anni passa l’estate. “Fantastica, solo va troppo piano” confidava agli amici.
Adesso che di anni ne compie 100 (il 28 luglio, leone di segno e di fatto), la moto la guida più raramente, ma continua a leggere due quotidiani al giorno (Herald Tribune e Corriere) e a seguire meticolosamente i suoi investimenti, in ogni parte del mondo e in almeno cinque lingue – tutte parlate con inconfondibile accento yiddish-rumeno.
Il segreto della sua felice longevità, confida, è nella dieta frugale che osserva fin da giovane: niente fritti, niente sughi, niente fumo, niente superalcolici; nel tenere il cervello sveglio: il bridge che gioca ancora almeno due giorni la settimana; nel mantenere vivi gli interessi; nella curiosità per la gente, per la cultura, per l’economia, per la politica; nel fare del bene “perché il bene che fai ti ritorna”, dice “ e anche se non tornasse è comunque per noi ebrei un dovere”, ed infine nella professata moralità “chi non si comporta in modo etico non può amarsi e quindi vive male”.

Si direbbe che la ricetta funzioni. Soprattutto perché è condita di witz, quell’inconfondibile umorismo ebraico che gli fa dire, a chi gli chiede come sta: “Seduto, come vuoi che stia alla mia età” oppure, a chi gli chiede notizie dell’ultima visita medica: “Il medico mi ha visto benissimo, deve aver cambiato occhiali”.

Nato in un piccolo villaggio della Romania, Podu Turcului, cresciuto nel capoluogo Iassi e poi laureato a Bucarest, Dolphy Goldstein-Goren è cittadino del mondo: ha vissuto in Israele quando ancora era Palestina e, fervente sionista, conserva con orgoglio il passaporto israeliano; la sua casa è dal 1946 a Milano, ma i suoi interessi hanno spaziato dalla Cina al Canada, dagli USA alla Francia, dal Brasile al Centrafrica.
Patriarca incontrastato di una famiglia numerosa e unita, quattro figli, un nipote/figlio, otto nipotini e mezzo (perché ne ha anche una acquisita), sei pronipoti, Dolphy ama dire che ha vissuto a cavallo di tre secoli: l’ottocentesca Romania rurale in cui è nato ancora, senza elettricità, senza automobili, con la vita scandita da rituali antichi; il Novecento, il “secolo troppo breve”, che lo ha visto protagonista di avventure straordinarie, e il Duemila, al quale ha brindato come “il Millennio delle donne: peccato che io sia troppo vecchio per vedere come rivoluzioneranno il mondo”.

A novant’anni ha cominciato a scrivere le sue memorie (che ora due editori si stanno contendendo): memorie di un uomo che ha precorso i tempi, raider di affari in tutto il mondo quando ancora aerei e automobili erano una rarità, ma lui, con due soci rumeni, uno a New York e uno a Parigi, scalava la Columbia Pictures, costruiva grattacieli e città satelliti, impiantava fabbriche nel deserto, era interpellato come mediatore da Agnelli dopo l’acquisto delle azioni Fiat da parte di Gheddafi.
E soprattutto memorie di un uomo per il quale la tzedakà è il modo più compiuto di essere uomo ed ebreo; una tzedakà che in Israele gli ha fatto costruire università, centri di riabilitazione per handicappati, parchi, impianti sportivi nei quartieri più poveri, sinagoghe, centri culturali e di apprendimento per gli immigrati, perché la cultura è, secondo lui, la sostanza stessa dell’ebraismo: “Quello che ci ha resi diversi”, ama ripetere “è il fatto che i nostri bambini, da sempre, a tre anni imparano a leggere e scrivere e interpretare il Talmud, tutti i bambini, ricchi o poveri che siano”.
E per continuare anche in Italia la tradizione dello studio ebraico, ha istituito, con la “Cukier, Goldstein-Goren Foundation” (costituita per la beneficenza intestandola anche alla famiglia dell’adorata moglie Stella, compagna di quasi sessant’anni di vita e prematuramente scomparsa sette anni fa), il Centro di Judaica presso l’Università statale di Milano, che richiama studiosi di grande prestigio da tutto il mondo. Proprio per i suoi cento anni, il Centro ha organizzato un convegno internazionale sull’influenza del pensiero ebraico sulla cultura occidentale all’inizio del Novecento: certamente il modo migliore di celebrare un uomo la cui vita si è imperniata sull’ebraismo, l’amore per la cultura, l’internazionalità.