Turchia: sulle rive del Bosforo, tra dolce vita e nuove inquietudini

Mondo

di Mara Vigevani

Le ultime dichiarazioni del Presidente Erdoğan, l’esito del referendum, il nuovo nazionalismo. Come vivono oggi gli ebrei in Turchia? Di fatto, nell’ultimo anno, sono circa 6200 gli ebrei ad aver chiesto (e ottenuto) passaporti da Spagna, Portogallo e Israele. Eppure, le partenze effettive sono ancora poche. Nonostante i timori e il rischio attentati, per i 17 mila ebrei turchi la vita prosegue nell’assoluta e pacata normalità

La grande sinagoga di Edirne, Turchia
La grande sinagoga di Edirne, Turchia

Chiedere a un ebreo turco oggi perché non ha ancora deciso di lasciare il suo Paese, suona offensivo: le radici dell’ebraismo sefardita turco risalgono a più di 500 anni fa, alla cacciata degli ebrei dalla Spagna nel 1492. Da allora ci sono stati periodi di tensione, ma anche molti altri di prosperità. La comunità turca è oggi l’ultimo avamposto dell’ebraismo Sfaradi, sefardita, e della quasi estinta lingua degli ebrei di origine spagnola: il Ladino o spagnolito. Dopo l’espulsione gli ebrei sefarditi si sono insediati in Turchia, Yugoslavia, Bulgaria e Grecia. La Germania nazista ha annientato quasi tutte le comunità balcaniche e solo quella turca è rimasta intatta. Negli anni Venti del Novecento, la comunità turca contava circa 80.000 ebrei. Oggi, ce ne sono circa 17.000, di cui circa 2000 a Izmir (Smirne), qualche decina sparsi tra Bursa, Ankara e il resto del Paese e la stragrande maggioranza a Istanbul. Una comunità, quest’ultima, oggi abbastanza grande per sostenere e organizzare una ricca vita comunitaria, ma anche piccola se pensiamo in termini assoluti, e difficile da mantenere.

Istanbul è una città dinamica, in continua evoluzione; molti ebrei vivono in case sulle rive del Bosforo e hanno abbandonato il vecchio quartiere genovese di Galata dove tuttavia c’è la Grande Sinagoga di Nevè Shalom, oggi aperta solo per i matrimoni. Negli ultimi vent’anni, il numero di matrimoni misti tra ebrei e musulmani è aumentato, soprattutto a causa del fatto che la Comunità è piccola e non offre quindi un’ampia scelta di partner. La maggior parte degli ebrei vive nei “quartieri bene” della città, ad esempio a Nişantaş, Şişli, Etiler, abitati da musulmani laici e professionisti, dove non si respira in nessun modo un’atmosfera antisemita.
La dicotomia tra discorso pubblico e società civile è oggi il nodo principale per il mondo ebraico che vive sul Bosforo. E il doppio registro del discorso politico, non solo limitato al sentimento anti-israeliano, è forse il più grande problema che gli ebrei turchi si trovano a dover affrontare.
Siamo quindi di fronte al prologo di un altro periodo buio, come ce ne sono stati molti nella storia – e che verrà superato da una comunità radicata da più di 500 anni -, o stiamo per assistere alla scomparsa della presenza ebraica in Turchia? Cosa sta accadendo di diverso agli ebrei rispetto agli altri cittadini turchi? «Gli ebrei oggi vivono le stesse difficoltà dei loro connazionali di altre etnie o fedi religiose, la loro realtà riflette quella del Paese. Molti provano le stesse inquietudini e timori, al di là della loro origine e appartenenza», spiega A. C., 55 anni, di Smirne.
Di fatto, il presidente Recep Tayyip Erdoğan proclama insistentemente di non essere affatto un antisemita. Nell’augurio per la festività di Pesach alla Comunità ebraica, nello scorso aprile, ha sottolineato nuovamente che gli ebrei della Turchia sono da secoli parte integrante del Paese e della sua società. «Essi hanno contribuito notevolmente alla crescita del nostro Paese nell’economia, nel commercio e nella società», ha ripetuto. ll leader turco ha anche descritto gli ebrei turchi come «cittadini uguali a tutti nel nostro Stato, persone con cui viviamo in pace e fiducia». Ma i sondaggi documentano un aumento dell’antisemitismo nell’ultimo decennio, senza capire se sia legato al clima generale o al vento più nazionalista e islamico che sta soffiando ovunque.
Di fatto, le istituzioni ebraiche sono fortemente protette, con un maggiore apparato di sicurezza interna dopo gli attacchi alle due sinagoghe di Istanbul nel 2003, che hanno provocato venti morti. Il cittadino turco “medio” non sempre distingue tra Israele e gli ebrei, e in un paese di 80 milioni di cittadini la maggior parte delle persone non ha mai incontrato un ebreo, lasciando la comunità vulnerabile e vittima di stereotipi, pregiudizi e caratterizzazioni negative. Proprio per questo il mondo ebraico aspetta ancora di capire quale influenza avranno sulla sua vita i cambiamenti politici degli ultimi anni.
«Ho deciso di lasciare Istanbul già qualche anno fa, quando mio figlio doveva iniziare la prima elementare – dice A. Y., un giovane ebreo di Istanbul, che ha fatto l’aliyà tre anni fa -. In Turchia avevo una fabbrica tessile con mio fratello; tutto andava bene, ma nell’ultimo periodo abbiamo notato che gli ispettori per il controllo anti inquinamento arrivavano solo nella nostra fabbrica, quasi una volta al mese. Nelle altre, invece, i controlli avvenivano una volta all’anno e non era difficile convincerli a chiudere un occhio. Con noi erano diventati molto severi. Ogni volta ero molto teso, avevo paura che il loro obiettivo fosse accusarmi di qualcosa e trovare un pretesto per danneggiare la nostra attività. Così, con mio fratello, abbiamo deciso di fare l’aliyà».
Per la Turchia, quest’ultimo è stato un tempestoso periodo politico, culminato nel voto controverso al referendum del 16 aprile 2017, che ha esteso il potere esecutivo, già considerevole, del Presidente Erdoğan. Non a caso, negli ultimi 15 mesi quasi 4.700 ebrei turchi hanno chiesto o ricevuto passaporti da Spagna, Portogallo e Israele. Contando anche i bambini, il numero sale a oltre 6.200. Cifre non trascurabili.
Nel 2015 le richieste di passaporti stranieri da parte degli ebrei sono aumentate, specie dopo l’approvazione di una legge in Portogallo che rende più facile richiedere un passaporto, per chi dimostra origini sefardite. Certo più facile rispetto alle procedure della Spagna. Tra il marzo e il dicembre 2016, circa il 13 per cento della Comunità ebraica ha chiesto passaporti stranieri. Nello stesso periodo, la Spagna ha approvato le richieste di 2.400 ebrei turchi la cui domanda era in sospeso.
Senza contare poi che i dati dell’Agenzia Ebraica dimostrano che il numero di ebrei che decidono di trasferirsi in Israele è in netta crescita: più di 220 nel 2016 e 74 tra gennaio e marzo 2017, quasi il triplo rispetto al trimestre dello scorso anno. Nonostante tutto, però, la vita della comunità continua nella sua pacata normalità: le numerose sinagoghe di Istanbul sono attive, così come l’unica scuola ebraica della città, mentre a Smirne le sinagoghe sono 16, di cui nove antichissime (e restaurate con soldi pubblici), ma non tutte aperte ogni shabbat.
Anche Virna Gumusgerdan, managing editor presso Salom, il giornale della comunità ebraica, ha richiesto il passaporto spagnolo: «La possibilità di presentare la domanda per ottenere il passaporto spagnolo si è aperta quasi dieci anni fa. Ho fatto domanda otto anni fa e l’ho ricevuto l’anno scorso. Il motivo della richiesta è stato semplicemente quello di avere un passaporto europeo con cui fosse più facile viaggiare, invece di dover sempre chiedere il visto: ma per ora non sto pensando affatto di andare a vivere in Spagna. Credo che la maggior parte dei candidati al passaporto non abbia davvero voglia di trasferirsi, ma desideri solo un passaporto più agile. Rispetto a solo qualche anno fa, oggi è diventato meno facile ricevere il documento spagnolo, bisogna fare un esame di cultura e storia spagnola e anche di lingua. Per questo, adesso molti ebrei optano per il passaporto portoghese. Ad esempio, mia nipote ha fatto domanda per ottenere il passaporto spagnolo con me, e all’epoca aveva 12 anni. Quando la sua richiesta è stata accettata ne aveva già compiuti 18 e avrebbe dovuto rifare la procedura come maggiorenne. Stufa di aspettare, ora ha chiesto il passaporto portoghese».
Di fatto, un esodo vero e proprio dalla Turchia sembra ancora un’ipotesi remota. «Penso che siano pochi, tra i 100 e i 150, gli ebrei che lasciano la Turchia ogni anno. C’è un aumento del 25-30 per cento rispetto all’anno scorso… Ma devo dire che i numeri non sono precisi e non sono ufficiali. La politica non influisce sulla nostra vita quotidiana o comunque la influenza quanto qualsiasi altro cittadino. Di solito l’antisemitismo non ci tocca mai personalmente, ne veniamo a conoscenza attraverso i media, con casi specifici». «Qui si vive bene, non c’è motivo di preoccupazione seria, le nostre paure sono quelle condivise con qualsiasi cittadino europeo oggi», sottolinea C.V., imprenditore. Serpeggia tuttavia, più che in passato, la paura di attacchi ai centri ebraici. «L’anno scorso è stato arrestato un terrorista che stava progettando un attentato alle istituzioni ebraiche. La cosa ha causato un’enorme ansia. Penso che alcuni genitori abbiano deciso di non mandare più i loro figli alla scuola ebraica per questo motivo».
M. H. e E. G., genitori di due ragazzi in età da Bar e Bat Mitzvà, non avevano mai preso in considerazione l’idea di lasciare Istanbul: «Qui abitano i nostri genitori, qui siamo cresciuti, abbiamo un buon lavoro e fino alla scorsa estate, dopo il tentato colpo di Stato, non abbiamo mai pensato di andarcene. – racconta M. H.- Solo negli ultimi mesi abbiamo capito che la crisi economica c’è. Ora abbiamo un passaporto portoghese e abbiamo fatto richiesta per ottenere un permesso di lavoro in Canada». Anche l’incerta situazione economica porta molti ebrei a decidere di lasciare il Paese. Alcuni settori come il turismo, l’agricoltura e le esportazioni sono in crisi; altri invece, come le costruzioni, l’immobiliare e l’edilizia in genere, stanno rifiorendo.
Attaccatissimi alla Turchia e innamorati della bellezza del loro Paese, gli ebrei preferirebbero non dover mai partire né dover mettere in valigia antiche tradizioni o delizie del palato (fasulia, tomat con aroz, kofte, umam bayildi). La maggior parte di loro oggi, per scaramanzia, pensa a preparare una eventuale via di fuga. Ma di certo aspetterà fino all’ultimo secondo pur di non intraprenderla.