Risorgimento e Sionismo

Risorgimento e Sionismo. Shlomo Avineri alla Fondazione Corriere della Sera

Mondo

di Daniela Cohen

Risorgimento e Sionismo
Risorgimento e Sionismo

“La rivoluzione francese ha mostrato che gli ebrei erano una minoranza: con l’Illuminismo, la gente non si pensava più come ‘cristiana’ o ‘protestante’ o altro, ma come francese, tedesca, polacca, britannica e così via. Così gli ebrei diventarono gli stranieri perché non avevano una terra. L’identità si spostava su un Paese. Il nazionalismo trasformò gli ebrei in stranieri, poiché non avevano una lingua comune, cultura e tradizioni legate a un territorio”.

Parola di Shlomo Avineri ospite d’onore  della Fondazione del Corriere della Sera che,  in collaborazione con l’Associazione Italia-Israele di Milano ha organizzato un incontro alla Sala Buzzati di via Balzan il 26 gennaio, invitando a discutere alcuni intellettuali che hanno esposto le proprie idee e conoscenze a proposito di un tema d’attualità: “Risorgimento italiano e Sionismo”.

La serata è stata aperta dal presidente della Fondazione, Piergaetano Marchetti, che ha subito iniziato, terminati i saluti di rito, a ricordare quanto importante sia stato il contributo ebraico al Risorgimento italiano. “La Shoah è una ferita che il popolo italiano sente tutt’ora” ha detto Marchetti e ha aggiunto: “Gli ebrei divennero cittadini italiani quando i napoletani ebbero coscienza di essere italiani”. L’affermazione può apparire un paradosso ma evidentemente ha un senso storico.

Difatti arriva subito la spiegazione: “Vogliamo incrociare il Giorno della Memoria, di cui non a caso oggi è la vigilia, alla nascita dell’Italia. Anche la nascita del sionismo dimostra come la componente ebraica abbia partecipato fin da allora a tale progetto”.  Altri argomenti hanno sostenuto tale tesi e infine Marchetti ha ricordato che nei corridoi del Corriere della Sera è stata organizzata una mostra che espone documenti autentici sulle Leggi Razziali. Dal momento che molte scolaresche fanno visite in redazione, l’itinerario prevederà anche un giro per questa mostra, che espone il materiale storico della raccolta del collezionista Gianfranco Moscati.

Marchetti ha poi dato la parola a Massimiliano Finazzer Flory, assessore alla Cultura del Comune di Milano, che ha dichiarato: “La memoria è una forza creativa che si proietta nel futuro e non nel passato, selezionandone i brani più significativi”.

Ha poi ricordato un dettaglio fondamentale della conquista della libertà raggiunta durante il Risorgimento: “L’unità non nasce dalla maggioranza di uno Stato” ha sottolineato Flory, “ma dalle minoranze che insorgono e che infine si uniscono nella vittoria”.

Poco dopo è toccato a Piero Ostellino, presidente sia della Fondazione del Corriere della Sera sia dell’Associazione Italia-Israele. Si è dichiarato orgoglioso dell’incontro a cui, va detto per la cronaca, si è presentata talmente tanta gente da lasciare un nutrito numero di persone in piedi, appoggiata ai muri, dopo aver riempito per intero tutte le poltrone della Sala Buzzati.

Il giornalista ha ricordato la figura di Theodor Herzl, “il Mazzini’ del Sionismo”, così definito  già nel 1920 dal Corriere della Sera. “Quando spunta l’antisemitismo” ha detto Ostellino, “sta per mancare la libertà di tutti, anche per i non ebrei. È sempre stato così!” Bisogna quindi battersi tutti assieme contro l’antisemitismo. “La difesa di una minoranza come il popolo ebraico serve a conservare le proprie libertà” ha osservato, dopo aver dimostrato il concetto in termini storici e sociali.

Arriva il momento di dare la parola all’ospite più prestigioso, Shlomo Avineri, pluripremiato per il suo contributo di osservatore e analista in affari mediorientali e amico personale del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Avineri, oltre ad essere giornalista del quotidiano israeliano Haaretz, è direttore generale degli affari esteri del proprio Paese ed è professore di scienze politiche all’Università di Gerusalemme. Esperto del pensiero di Marx, Engels e delle teorie politiche di Moses Hess e Theodor Herzl, oltre ad aver scritto numerosi libri e articoli su affari internazionali e sul Medio Oriente, ha iniziato anni or sono un dialogo fra Israele e la sinistra italiana; da qui l’amicizia con Napolitano, allora esponente del partito comunista. Nato in Polonia nel 1933, a soli sei anni è stato portato dalla famiglia in Palestina, un territorio che a quei tempi era soltanto deserto. Parlando con un tono tranquillo e lasciando trasparire un carattere spesso ironico, ha detto: “Specie alla vigilia del 27 gennaio, ricordiamo le difficoltà della memoria. Il sionismo è universalismo”.

La sala è rimasta appesa alle sue parole. “Noi ancora oggi non sappiamo come convivere tra laici e religiosi, un fatto che ci rende simili all’Italia. Il sionismo nasce duemila anni fa, quando Tito da Roma venne a distruggere il Tempio ebraico di Gerusalemme. Mai, né nel seguente cristianesimo né nell’islamismo, è esistito un richiamo ad altri popoli nell’andare  a vivere a Gerusalemme, mentre per gli ebrei sì.



È scritto nella nostra Bibbia. Per diciotto secoli si è tramandata l’idea che si doveva tornare là. È un’idea concreta, ma è una preghiera non un’azione”. Avineri si dilunga con leggerezza per ricordare brani importanti di storia, spesso dimenticata. Fin dall’Ottocento si è deciso di trasferire in Palestina ogni famiglia ebraica che volesse agire come pioniera verso un nuovo mondo.

“A quei tempi gli ebrei erano meno religiosi di oggi, eppure questa fu la loro risposta all’antisemitismo, che colpiva ovunque in Europa, specie quelli che lasciavano i pogrom russi. Eppure” ricorda lo studioso, “quando ben tre milioni di ebrei lasciarono l’Unione Sovietica, negli anni Novanta del secolo scorso, la maggior parte andò negli Stati Uniti, in Svezia, Gran Bretagna, Francia e così via. Solo l’1% andò in Israele”.



“Come mai  si cominciò a pensare attivamente al Sionismo?”.  Shlomo Avineri fa la domanda e offre la risposta: “La rivoluzione francese ha mostrato che gli ebrei erano una minoranza: con l’Illuminismo, la gente non si pensava più come ‘cristiana’ o ‘protestante’ o altro, ma come francese, tedesca, polacca, britannica e così via. Così gli ebrei diventarono gli stranieri perché non avevano una terra”.

Avineri continua la sua appassionante analisi: “L’identità si spostava su un Paese. Il nazionalismo trasformò gli ebrei in stranieri, poiché non avevano una lingua comune, cultura e tradizioni legate a un territorio”. Questi i motivi alla base del desiderio che portò un popolo abituato alla Diaspora a ripristinare l’uso dimenticato dell’ebraico, non più solo come linguaggio di preghiera ma per l’uso comune delle famiglie; quindi cominciò a cercarsi una Terra. “Nel 1862” ricorda Avineri, “Marx scrisse L’ultimo nazionalismo, in cui si sostiene che l’Italia risorgimentale non è l’ultimo problema dell’Ottocento: lo sono gli ebrei”. Qui l’esperto di politica internazionale afferma sornione: “ Mosè, quello di tanto tempo fa, era un socialdemocratico: aveva predisposto una legislatura socialista, con sei giorni di lavoro e uno di riposo già millenni or sono. La terra non doveva appartenere a nessuno oltre i 49 anni, poi tornava alla comunità. Una parte di ogni guadagno doveva andare ai poveri e ai bisognosi. Tutto scritto nella Bibbia, ma lui lo insegnava. Vivere come popolo ebraico significa divulgare un messaggio universale di emancipazione. Ma chi lo farà? La Francia aveva una missione, un tempo: proteggere il nascente Stato d’Israele dalla Turchia e dall’Egitto. Ricordiamoci che a quei tempi nessuno parlava di indipendenza araba. L’Impero Ottomano era il pericolo”.

La nazionalità è l’individualità di un paese, scriveva da Parigi nel 1843 Marx parlando del Risorgimento italiano”, cita Avineri. “Dopo la rivoluzione” conclude il professore, “nel 1848 un rabbino scrisse: ‘Come mai tanti insorgono per il loro Paese mentre noi, da Gerusalemme… cosa facciamo?’. La critica era tagliente. Nel 1904 Herzl incontrò il Re Vittorio Emanuele e il Papa: con il secondo l’incontro fu catastrofico, ma col monarca andò assai meglio. Parlarono del futuro degli ebrei in Eritrea. Herzl era un giornalista e parlò degli ebrei etiopi e in Eritrea, dove l’Italia si trovava con proprie guarnigioni. Il Re disse di essere stato in Palestina per questioni riguardanti il canale di Suez e affermò: ‘Quando avrete mezzo milione di ebrei sul posto, avrete una nazione’. Questo è quanto disse il Re al principio del secolo e nel 1948 si contavano proprio mezzo milione di persone. Impressionante? Il diciannovesimo secolo è legato all’ebraismo e allo sviluppo di ogni Paese dell’epoca e la relazione è molto forte”.

La conclusione del discorso di Shlomo Avineri è stata accompagnata da un forte applauso e dall’elogio personale di Piero Ostellino per l’interesse e la chiarezza di quanto esposto, simile ad una piccola lezione magistrale. Risulta difficile per gli ultimi due relatori prendere la parola, ma inizia David Meghnagi, docente all’Università Roma 3, con una battuta di spirito: “Cosa sarebbe accaduto se Marx, nipote di rabbini, si fosse chiamato davvero Mosè e non Carl…?” e strappa una risata alla platea. Prosegue tornando all’argomento del Risorgimento e ricorda: “il Nabucco, opera insigne di Giuseppe Verdi, si basa sulla sofferenza ebraica, soggetta al dominio babilonese. È una composizione profondamente universalista e ha profonde similitudini con l’inno ebraico, l’HaTikva. Avrebbe potuto essere l’inno d’Italia, come alcuni sostengono oggi, forse senza capire per quale ragione…”.

“Ci sono parole malate che vanno curate” – David Meghnagi

Meghnagi approfondisce l’argomento dal punto di vista ottocentesco: “Marx e Hess si confrontarono con Engels e una sinistra che non aveva diritto all’emancipazione; Marx scrive che ‘essendo tutti capitalisti, sono tutti ebrei’. Oggi tale frase appare offensiva, ma era un modo per prendere le distanze da Engels che parlava di ‘eutanasia ebraica’. Ci sono parole malate che vanno curate” dice Meghnagi senza mezzi termini. “Mentre in Europa i nazionalismi sono ostili agli ebrei, il Risorgimento italiano è diverso”, prosegue. “Benedetto Musolino ebbe un ruolo centrale nel Risorgimento, più di Mazzini” afferma Meghnagi. “Garibaldi gli affida di creare la testa di ponte tra Sicilia e Calabria per lo sbarco. La nazione italiana è molto antica, molto più antica della nascita dello Stato d’Italia”. Qui il simbolico confronto con Israele è evidente a tutti i presenti. “E Musolino scrive nel 1851 un libro sullo Stato Ebraico, Gerusalemme e il popolo ebraico dalla Francia, esule, da dove ipotizza che l’ebraico sarebbe stata la lingua ufficiale di un nuovo Stato, come poi è avvenuto”.

L’argomento stupisce e incuriosisce. David Meghnagi prosegue: “Ma come poteva un calabrese che non aveva mai conosciuto Herzl esprimere simili concetti? Ma non basta: Musolino cerca di avere contatti coi Rothschild, va in Gran Bretagna e cerca pure contatti col Sultano per favorire l’importazione di ebrei in Palestina, facendoli accettare dall’Impero Ottomano”. Il relatore spiega che “l’idea è di fare una grande ferrovia che unisca oriente e occidente, per impedire alla Russia di arrivare al Mediterraneo. Non ottiene nulla, ma il crollo dell’Impero Ottomano cambia le cose. L’emancipazione del giudaismo coinvolge il resto d’Europa, come già accaduto in altri tempi. Musolino, prima ancora di Herzl, teorizza lo Stato Ebraico. La risposta potrebbe essere nella consuetudine delle lettere: la gente si scriveva. E vogliamo ricordare che da tutta Europa venne una gioventù a combattere qui per la libertà d’Italia e fra loro tanti ebrei che ora si ritrovano al Gianicolo”. Ma pare che cresca la voglia di costruire e gira da tempo la voce di comprare terre in Galilea tra cui, riferisce, “a Tzfat un centinaio di cabalisti si installano sul territorio di Tiberiade e hanno la capacità di declinare la cultura ebraica”.

E infine un monito: “Mai studiare l’ebraismo isolandolo dal Paese in cui si trova”. Come nel Risorgimento, nel 1907 c’è un sindaco ebreo a Roma; abbiamo ministri, docenti universitari, militari anche di alto rango e tutti quei tantissimi ebrei caduti nella Prima Guerra Mondiale. Per questi lutti, il tradimento che segue è enorme. Nel ’38 sono stati cacciati non solo il 10% dei docenti e i loro alunni. Si è distrutta l’Italia stessa e la sua intima struttura. Perché”, conclude Megnhnagi, “quando collassa l’istruzione, tutto crolla. Ecco cosa bisognerebbe ricordare oggi”. Dopo simili considerazioni, un meritato e lungo applauso, l’ultima parola spetta ad Alceo Riosa, docente all’Università degli Studi di Milano. “In che misura la partecipazione ebraica al Risorgimento ha contribuito alla nascita del sionismo? La visione del popolo ebraico e l’andata in Palestina di Hess somigliano all’epopea mazziniana”. Eppure, continua Riosa, “la Francia, culla dell’emancipazione, è anti-tedesca e anche antisemita”.