L’Inghilterra e gli ebrei: il paradiso non è più qui

Mondo

di Davide Foa

Dai partiti politici alle università, passando per le piazze: l’antisemitismo, anche mascherato da antisionismo, è in netta crescita in Gran Bretagna, fino a qualche anno fa uno dei Paesi in Europa più sicuri per gli ebrei. Lo dimostrano il caso Labour, in grande crisi per le dichiarazioni di alcuni suoi leader, e i sempre più frequenti attacchi alle persone nelle strade e nelle scuole

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«Se sei ebreo, la Gran Bretagna è uno dei migliori paesi al mondo in cui vivere». La rassicurante affermazione è dell’associazione inglese “Campaign Against Anti-semitism”(CAA). Ma è ancora oggi così? Ahimè, anche in terra britannica si registra ultimamente un aumento del sentimento anti-ebraico, parallelo ad un più generale incremento della xenofobia e del nazionalismo che hanno generato l’esito recente di Brexit. Stando a quanto riportato dalla CAA, il 45% dei britannici crede ad almeno uno dei tanti stereotipi antisemiti, mentre un altrettanto 45% di ebrei non si sente più completamente al sicuro in Gran Bretagna.
Per comprendere e magari anticipare questo crescente allarme, è bene analizzare l’antisemitismo britannico in tutte le sue forme, da quello mascherato e rubricato sotto il nome di “antisionismo” a quello dichiarato e senza veli, fatto di minacce fisiche e verbali, che non a caso sono cresciute del 62% solo nei primi mesi del 2016.
Per citare solo uno dei tanti recenti casi, il 18 maggio 2016 diverse lapidi del cimitero ebraico di Manchester sono state deturpate e vandalizzate con svastiche e scritte antisemite. In quell’occasione era intervenuto anche l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, denunciando pubblicamente l’aumento dell’antisemitismo e invitando le altre comunità religiose a combatterlo.
L’antisemitismo e il Labour
Esiste però un antisemitismo che preferisce non mostrare il proprio volto. Quello della politica, del verbo multiculti e del politically correct, e che sceglie di nascondersi sotto altre forme, di modo che sia più facile agire sotto sembianze presentabili. È questo il caso dell’antisemitismo ormai diffuso all’interno del Partito labourista, un antisemitismo che rende sempre più difficile agli ebrei inglesi di sostenere i partiti di sinistra. Un veleno antisemita tutt’altro che ignoto tra le fila della sinistra britannica, e che oggi sta mettendo a dura prova la stabilità del partito guidato da Jeremy Corbyn. Tanti, troppi per elencarli tutti, i casi di antisemitismo registrati all’interno della sinistra britannica. Il copione è sempre lo stesso: dichiarazioni, smentite (a volte) e sospensioni dal partito.
Celebre il caso della parlamentare quarantaduenne Naseem Naz Shah, finita sotto accusa per un post pubblicato su Facebook nel quale proponeva come soluzione del conflitto israelo-palestinese lo spostamento fisico di Israele direttamente negli Stati Uniti. Lì, negli USA, Israele avrebbe trovato tutta la terra di cui aveva bisogno e avrebbe permesso ai palestinesi “di avere la propria vita e la propria terra indietro”. Il post in questione – pubblicato nel 2014, ma rispuntato solo nell’aprile del 2016 – ha scatenato una serie di polemiche, tanto che lo stesso Corbyn, pressato sia dai conservatori – uno su tutti l’ex premier David Cameron -, che da buona parte dei suoi compagni labouristi, ha deciso di sospendere dal partito l’autrice.
La scelta di Corbyn è stata poi fortemente criticata dal suo vecchio compagno di strada, nonché ex sindaco di Londra, Ken Livingstone. «Una legittima critica ad Israele», così Livingstone ha definito le parole della Shah, individuando poi come responsabile della scelta di Corbyn una non-ben-definita “lobby israeliana”. Il virus aveva colpito di nuovo.
Le parole con cui Livingstone ha difeso Shah ben spiegano il carattere e la particolarità dell’antisemitismo britannico; si tratta di un fenomeno sotterraneo, difficile da decifrare, che spesso si nasconde sotto altre sembianze, una su tutte l’antisionismo; questo spiega la facilità con cui il verbo antisemita è riuscito ad espandersi soprattutto tra le file della sinistra britannica, evidentemente incapace di distinguere le ragioni della causa palestinese da un odio indiscriminato verso Israele. Siamo di fronte a quello che il giornalista Alan Johnson definisce, su Haaretz ,“un antisionismo antisemita”, ormai prerogativa costante di un certo genere di sinistra e non più della destra così come eravamo abituati a pensarla in passato, con estremismi fatti di teste rasate o svastiche neo-nazi. Questo fenomeno, riprendendo le parole di Johnson, consiste nel “distorcere il reale significato di Israele e del Sionismo finché entrambi non finiscono rinchiusi nelle categorie, trasposizioni, immagini ed idee del classico antisemitismo”. Insomma, nella nuova forma mentis riveduta e corretta alla luce dell’attualità, mutatis mutandis, l’immagine di Israele sembra in tutto e per tutto voler sostituire la vecchia e logora figura caricaturale dell’ebreo made in Europe ante 1945.
Lo stesso leader Corbyn, poi, è al centro delle polemiche per il suo sostegno all’Ong Interpal Fund, organizzazione dalla dubbia fama, inserita nella lista degli “Specially Designated Global Terrorists” dagli Usa perché “facilita il trasporto di decine di milioni di dollari all’anno destinati a Hamas”. Non solo: il presidente del suo consiglio direttivo, Ibrahim Hewitt, è un fondamentalista islamico, e alcuni funzionari di Interpal sono stati ripetutamente fotografati con i leader di Hamas nella Striscia di Gaza. Ma, soprattutto, l’Ong è responsabile della promozione di eventi in cui si inneggia all’assassinio degli ebrei e degli israeliani, come il Palestine Festival for Childhood and Education dello scorso 21 aprile, in cui bambini sotto i 10 anni inscenavano l’uccisione di soldati israeliani, sotto gli occhi compiaciuti degli adulti.
L’antisemitismo nelle università
Ma questo “nuovo antisemitismo” non si arresta sulla soglia dei salotti buoni del gauchismo intelletual-chic, ma trova sempre più di frequente ampi spazi nei templi del sapere e dello studio, ovvero nei luoghi deputati in cui si dovrebbero combattere pregiudizio e ignoranza: le università.
Sono stati diversi i casi di antisemitismo registrati all’interno dei campus universitari britannici, tanto che gli studenti ebrei – come è emerso da un articolo dell’Independent – hanno dichiarato con apprensione di sentirsi “minacciati e vulnerabili”, e di non ricevere il giusto supporto dalle Unions studentesche – il sindacato degli studenti nonchè una sorta di club rappresentativi piuttosto importanti nel mondo universitario britannico-. Il primo allarme è giunto da Oxford e dal suo club labourista. A febbraio, Alex Chalmers, ormai ex-presidente del club, decise di rassegnare le proprie dimissioni constatando che «diversi membri del club hanno alcuni problemi con gli ebrei ed esprimono tendenze intolleranti».
Diversi sono stati, infatti, gli episodi in cui studenti appartenenti al club labourista di Oxford hanno dimostrato sostegno al gruppo terroristico di Hamas; oltre a intonare cori piuttosto sgradevoli come “sì ai missili su Tel Aviv”, questo folto gruppo di studenti è riuscito a inserire l’ateneo di Oxford all’interno della “Apartheid Week” – un ciclo di incontri e letture dalle tematiche intuibili. Risentita, Becky Howe, presidente della Union studentesca di Oxford, ha denunciato che «gli studenti ebrei sono l’unica minoranza non direttamente rappresentata da alcuna delle campagne di emancipazione promosse dal NUS (unione nazionale degli studenti)».
Inoltre, a dimostrazione della spaccatura esistente tra gli studenti in materia di sionismo-antisemitismo, proprio da Oxford sono arrivate le prime lamentele in seguito all’elezione di Malia Bouattia come nuova presidentessa del NUS. La Bouattia, prima donna nonché prima musulmana a ricoprire la carica, è criticata da più fronti per alcune sue dichiarazioni su Israele e gli ebrei. Non a caso, qualche tempo fa, aveva infatti definito la sua università – quella di Birmingham – un “avamposto sionista”. Sempre la Bouattia, in un altra sede, aveva affermato che il boicottaggio contro Israele non era abbastanza; anzi, una tale forma di protesta non-violenta, secondo la Bouattia, avrebbe distolto i palestinesi dalla vera resistenza contro Israele.

Come rivelato pochi mesi fa da Tab Magazine, periodico gestito dagli studenti di Cambridge, nel 2015 le uscite della Bouattia erano già finite sotto un’indagine del NUS, che in un comunicato ufficiale aveva dichiarato: «non è irragionevole pensare che il contenuto del suo discorso sia antisemita». Dalla Shah alla Bouattia, l’“antisemitismo antisionista” si mostra, oggi più che mai, capace di insinuarsi prepotentemente nei luoghi del sapere, mettendo a dura prova chi quel sapere vuole difendere da stereotipi e intolleranze.
L’antisemitismo senza maschere
A questo pericolo, si aggiunge poi il tradizionale sentimento d’odio anti-ebraico, quello fatto di aggressioni fisiche o esternazioni verbali, quello che non si nasconde sotto nessuna maschera. Riprendendo i dati della CAA, il 2015 è stato l’anno con il maggior numero di attacchi contro gli ebrei in Gran Bretagna. Sono cresciuti infatti del 26% i crimini a sfondo antisemita. Tra questi, gli atti violenti – le vere e proprie aggressioni fisiche – sono cresciuti del 50% rispetto al 2014.
Sfortunatamente l’aumento di attacchi antisemiti non va di pari passo con l’azione repressiva delle forze dell’ordine britanniche che, secondo la CAA, hanno punito il 7,2% in meno dei casi rispetto alle cifre dell’anno precedente.
Ciò che più preoccupa è dunque l’incapacità di riconoscere l’antisemitismo in tutte le sue varie forme e sfaccettature.
La stessa CAA lamenta una mancanza di competenza e di preparazione da parte di chi dovrebbe individuare il problema e arginarlo il più possibile, siano essi poliziotti o giudici di tribunali.
Quando nel 2014 scoppiò la grande ondata di antisemitismo – seguente l’intervento israeliano a Gaza – la politica britannica, su tutti il Primo Ministro David Cameron, assicurò sostegno incondizionato alla comunità ebraica insieme alla promessa di combattere con tutte le forze le spinte antisemite. “La promessa repressione non si è materializzata”, si legge laconicamente sul sito della CAA.
Boicottaggio? No grazie
Eppure, a fronte di un antisionismo e un antisemitismo sempre più diffusi, sul terreno del boicottaggio di Israele la Gran Bretagna ha un atteggiamento
più conciliante nei confronti dello Stato ebraico. In febbraio, ad esempio,
il governo Cameron aveva inserito nuove regole che impediscono alle organizzazioni pubbliche britanniche di boicottare fornitori israeliani. Alla base di questa decisione la convinzione che sia necessario vietare il pubblico boicottaggio dei prodotti israeliani, poiché questo mette in pericolo “ la sicurezza internazionale” della Gran Bretagna.
Non solo. Secondo un recente sondaggio del BICOM (Britain Israel Communications and Research Centre) il 51% dei cittadini inglesi sarebbe contrario al boicottaggio dei prodotti israeliani, l’8% in più rispetto all’anno scorso.
Inoltre, il 56% degli inglesi sarebbe convinto che i boicottaggi danneggiano sia gli israeliani che i palestinesi (+9% rispetto all’ottobre 2015).
Il sondaggio continua sostenendo che per il 48% degli inglesi l’odio verso Israele e l’antisemitismo siano collegati, mentre il 20% afferma che non sia così. In più, il 57% vede Israele come il maggiore alleato del Regno Unito in Medio Oriente, il 5% in più rispetto all’anno precedente. Un’altra sorpresa emersa è che il 43% degli inglesi, e il 3% in più rispetto all’anno scorso, ritiene valida la Dichiarazione Balfour del 1917, con la quale il governo britannico approvò la creazione di un focolare ebraico nell’allora Mandato della Palestina; il 18% invece ritiene la dichiarazione illegittima.
«Queste sono scoperte molto significative – dichiara James Sorene, direttore del BICOM – dato che incoraggiano molto il lavoro di informazione, ricerca e campagne a cui ci siamo dedicati nell’ultimo anno per spiegare quando l’odio per Israele diventa odio per gli ebrei e sostenere la causa contro i boicottaggi di Israele».
Gli ebrei e la Brexit
Un discorso a parte merita la Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, decisa con un referendum popolare il 23 giugno. Un evento, questo, che all’inizio era solo un fantasma, ma che si è alla fine materializzato delineando scenari ancora non ben definiti. Da un sondaggio condotto a maggio dal The Jewish Chronicle, però, era emerso come gli ebrei britannici fossero in gran parte contrari all’uscita della Gran Bretagna dalla UE – 49% contro un 34% favorevole alla Brexit e un 17% di indecisi -.
Di fronte alla prospettiva di una chiusura dei confini, la maggior parte degli ebrei si è quindi schierata a favore della libertà di movimento, un bene storicamente troppo importante per essere lasciato in secondo piano (un punto, questo, molto caro agli ebrei francesi che oggi, sentendosi minacciati in Francia, scelgono la Gran Bretagna come nuova casa). La vittoria del “leave” al referendum ha dunque mostrato chiaramente la volontà di fermare l’immigrazione. Non a caso, all’indomani del voto, sono aumentati drasticamente gli episodi di violenza xenofoba per opera di gruppi di estrema destra che, con minacce verbali e fisiche, hanno preso di mira nuovi e vecchi immigrati, senza distinzioni di sorta. Nel mirino sono finite soprattutto le comunità provenienti dall’est Europa- polacchi specialmente – che da anni, se non decenni, vivono in Gran Bretagna. «C’è grande tensione nell’aria. Nessuno sa cosa succederà dopo», ha commentato un trentenne israeliano che da qualche tempo vive a Londra con la sua famiglia. Occhi aperti dunque: dall’odio per lo straniero all’antisemitismo, il passo è decisamente breve.