Damasco first

Mondo

Questo articolo, comparso sul quotidiano Jerusalem Post, è di Uri Savir, che è stato capo dei negoziatori israeliani al processo di pace bilaterale con la Siria tra la fine del 1995 e l’inizio del 1996.

“A Wye Plantation il processo si stava muovendo nella giusta direzione anche se dovemmo affrontare una molteplicità di difficili questioni che insorsero fra i nostri due paesi. Ma al vicolo cieco si arrivò quando si riaccese il terrorismo palestinese, che portò alla vittoria elettorale della destra in Israele.

A quel tempo ritenevo che il processo palestinese dovesse spianare la strada per altri percorsi bilaterali regionali; infatti in quei brevi momenti nella storia – secoli fa – eravamo riusciti a definire e ad attuare gli accordi provvisori, detti Oslo II. Io iniziai persino dialoghi ufficiali permanenti con Mahmoud Abbas a Taba.

Oggi, il contesto e la realtà in cui viviamo sono cambiati: l’Autorità Palestinese è impersonata dalla giustapposizione di Hamas e Fatah, e la guerra col Libano ci ha mostrato la necessità di adattarci a nuove realtà.

Quindi la posizione che ho adottato è: ‘Siria innanzitutto’.

Credo infatti che sia per Israele assolutamente indispensabile entrare e spezzare quel triangolo vizioso costituito da Iran, Siria e Hamas che ha creato un impenetrabile canale di comunicazione. Questo sarà il nostro scudo difensivo contro future guerre balistiche.

Il presidente siriano Bashar Assad ha pubblicamente annunciato – più volte – che la Siria è pronta a prendere parte a negoziati di pace con Israele: ho anche ricevuto messaggi indiretti da funzionari siriani sulla disponibilità del loro presidente al dialogo con Israele.

Durante i colloqui di dieci anni fa vennero compiuti importanti progressi sulla definizione del concetto di pace, che i siriani vedevano come “normali relazioni di pace”: essi erano pronti a piene relazioni diplomatiche e consolari nonché a scambi commerciali e turistici. Ero fermamente convinto allora, come lo sono adesso, che le future relazioni con la Siria sarebbero caratterizzate da un calore e positività quali non si manifestano con l’Egitto.

Cosa più significativa all’epoca, la Siria, nonostante la sua percezione di madre del nazionalismo arabo, era pronta a guidare una pace globale e regionale nel Medio Oriente parallelamente all’accordo di pace israelo-siriano relativo alla sicurezza delle future relazioni: ne ebbi conferma dalla famiglia reale saudita.

Un accordo bilaterale sulla sicurezza stabiliva in via di principio, ma non nel dettaglio, che un attacco a sorpresa da entrambe le parti avrebbe portato a una situazione smilitarizzata con conseguente effettivo controllo internazionale. Naturalmente la Siria chiedeva anche il pieno ritiro israeliano dalle alture del Golan, a cui noi acconsentimmo, sempre che fossero soddisfatte tutte le richieste di Israele.

Non venne stabilita una futura precisa linea di confine, ma ci trovammo d’accordo sul fatto che si costruisse un ponte fra le nazioni e che si proponesse e si realizzasse un periodo di transizione per iniziative congiunte, soprattutto in relazione alla questione dell’acqua.

Io credo che quei colloqui dell’inverno 1995/96 potrebbero costituire la base per futuri negoziati. Ma prima la Siria deve interrompere il sostegno e l’ospitalità dati alle organizzazioni terroristiche, ossia Hamas e Hezbollah: terrorismo e colloqui di pace non possono marciare di pari passo.

Molte voci contrarie al nostro interno si sono di recente levate a proposito della questione Siria, che è vista come impotente e insieme confusa, per non parlare del suo atteggiamento estremista verso Israele. E poi la priorità sembra essere il problema palestinese.

A questo rispondo che la relativa debolezza regionale della Siria non è un danno ma un vantaggio. E per quanto riguarda la questione palestinese, i progressi nei negoziati con Damasco possono solo accelerare il processo decisionale interno palestinese, necessario per noi per andare avanti verso la soluzione ‘due stati’.

Sotto l’aspetto strategico e della sicurezza, la seconda guerra col Libano ci ha insegnato che viviamo in una nuova era di guerriglia, di terrorismo, di sviluppo di armi non convenzionali. Quindi la nostra politica di difesa strategica deve essere una politica di pace dinamica di cui la nostra leadership assuma l’iniziativa. Credo anche che la Siria abbia tutto l’interesse alla pace con Israele, sia per il suo sviluppo e sia per togliersi di dosso quella reputazione di stato paria che ha agli occhi della maggior parte della comunità internazionale.

La Siria è uno stato laico retto da una minoranza Alawita e quindi i governi israeliano e siriano hanno interessi pragmatici comuni. Agli occhi di Israele possono sembrare duri da accettare negoziati che avranno come probabile prezzo la rinuncia al Golan. Ma sia il nostro governo sia i cittadini devono capire che oggigiorno il valore del territorio non è più così alto. Deve essere il governo a portare il paese alla giusta conclusione e non l’opinione pubblica a guidare il governo.

Il tempo di agire è arrivato. Le nostre mosse le dobbiamo coordinare con l’amministrazione americana sulla base di una conferenza internazionale nella regione come proposto dalla Road Map.

Uri Savir è presidente del Centro Peres per la Pace.