Da Israele a Trieste

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La Comunità ebraica di Trieste ha ospitato, dal 15 agosto, 33 ragazzi, di età dai 13 ai 17 anni, provenienti da Haifa, Naharya e Kiryat-Shmona, le tre città nel nord di Israele più colpite dai missili lanciati da Hezbollah. Nell’iniziativa, organizzata dalla New Jerusalem Foundation, erano coinvolti altri 70 giovani, ospitati a Roma.
Il presidente della Comunità, Andrea Mariani ha subito dato l’adesione al progetto, contando sulla buona volontà di una quindicina di volontari che hanno seguito il gruppo.
Un vero e proprio shock, per questi ragazzi, prima rinchiusi, per un mese, con le famiglie in rifugi anti-missile, e poi subito spediti in vacanza insieme ad altri, sconosciuti. “Ci siamo divertiti molto e abbiamo conosciuto nuovi amici” dice Idan .
Quante emozioni, dalla paura della morte, della distruzione, alla gioia della tregua. Racconta Sharon: “Un missile è arrivato a pochi metri da casa mia. E’ una cosa che non riesco ancora a descrivere”. Ma che emozioni, anche per i triestini della Comunità: la guerra da lontano, vissuta con apprensione, con rabbia, che improvvisamente diventa protagonista.
Non si è parlato di politica, in questi giorni. Ma in Israele, a casa, non si parla d’altro, e al telefono i genitori, inframezzavano notizie del Macabi Haifa impegnato in Champions League, a bollettini di guerra. Si discute, ci si arrabbia, ed è questo, suggerisce Miriam, insegnante di Kiryat Shmona, che fa di Israele l’unica democrazia del Medio Oriente.
Poi racconta come è arrivata a Trieste: “Mi hanno telefonato, chiedendomi se potessi accompagnare i ragazzi. Cosa potevo fare?” Come se la sua famiglia non facesse abbastanza per il Paese, haaretz (la terra, come dicono in ebraico): “Due dei miei tre figli sono nell’esercito” dice senza nascondere la commozione. Non li vede da più di un mese. Ed è tra le madri fortunate, “perché potrò abbracciarli”.
Adolescenti come altri, che quasi non sembrano far caso alla situazione che li circonda. Quando qualcuno è arrivato a fotografarli, “Quasi nessuno si è reso conto” – dice uno di loro, Or – di perché noi fossimo ‘interessanti’ per il giornale”. Come un normale gruppo di turisti. Disarmante semplicità, beata gioventù. Semplicemente ragazzi, tanto abituati al quotidiano rischio, attentati e via dicendo, da riuscire a dimenticarsene. Mai pensato di andare via da Israele? La domanda suona talmente inaudita, che fa quasi ridere Nofar: “Non esiste”.
Ragazzi, con iPod e magliette alla moda, abbastanza più “americani” dei nostrani teenager, ma con molto in comune. Per loro la Comunità ha organizzato quotidiane escursioni: a Miramare, in città, alla sinagoga, al mare e in Carso, a Venezia, in Slovenia, alla Risiera di San Sabba. E proprio all’interno dell’unico campo di sterminio sul suolo italiano, è stato il momento del ricordo, del riconciliarsi con una Storia triste. Memoria che molti israeliani non sempre sentono come propria. Molti hanno pianto, sotto la pioggia, circondati dal grigio della Risiera: “Ci siamo resi conto che questa è anche la nostra storia”.
E ora, contenti di tornare? “Certo, non vedo l’ora di tornare a casa. Mentre sono stato chiuso nel rifugio con la mia famiglia, il tempo non passava mai.” C’è anche l’ironia: “Sai cosa vuol dire stare tutto il giorno con i propri genitori, senza i tuoi amici?”
Shani ride e ti guarda fisso negli occhi. Vuole capire: cos’hai da chiedere, sul suo paese? Ha 17 anni. Non puoi ignorare che tra 12 mesi inizierà i due anni da militare che spettano ad ogni ragazza. Racconta che si è divertita, qua in vacanza. Di notte, però, ha avuto paura dei tuoni di questo nuvoloso agosto. Dice che le sembravano missili. “Katiuscia-Katiuscia” scandisce, sempre ridendo. Come i veri ‘sabra’(gli israeliani autoctoni). Duri fuori e dolci dentro.

Presidente Andrea Mariani, come è stata affrontata quest’emergenza?

Principalmente attraverso le strutture comunitarie, che sono già attive e rodate sia nella gestione dell’accoglienza, sia nel rapportarsi con ospiti giovani.

A Roma l’iniziativa è stata sposata dal Comune, qua come sono andate le cose?
Inzialmente, visto il periodo, è stato difficile contattare le istituzioni, ma poi tutto è andato bene. Dobbiamo ringraziare la Provincia di Trieste, in particolare l’assessore Guglielmini, la Presidenza del Consiglio regionale, Bruno Zvech, Cristiano Degano, e la Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin.

Si è trovato a prendere una scelta importante. Le hanno chiesto l’adesione e ha subito accettato. Ha scritto una lettera alla Comunità: la risposta della gente?

La risposta è stata immediata e positiva. Questa situazione ha toccato la sensibilità profonda della Comunità, ha creato un forte senso d’unità d’intenti, considerato il momento che vive Israele.

Com’è andata con i ragazzi?

Molto bene. Il problema era che questi ragazzi passavano da una situazione familiare e di alterazione psicologica dovuta al pericolo, a quella di gruppo, di condivisione e soprattutto ad un clima da vacanza. Creata un’atmosfera di relax, è andato tutto bene.

Che momento è stato per la Comunità?

È stata un’esperienza importante per tutti, in molti ci hanno aiutato. Si è andato a ricostruire il rapporto storico tra la Comunità di Trieste e Israele, come, quando dal 1921 in poi la città si era caricata del ruolo di porta verso Israele, la famosa “Porta di Sion”.

Dopo l’abbandono di rav Umberto Piperno, la Comunità è senza rabbino: quando la nomina?

Attualmente siamo in una fase di transizione. A breve ci sono le elezioni del consiglio che, una volta insediato, nominerà (a dicembre) una persona che rappresenti bene la progettualità del nuovo consiglio.

Sta per concludersi la sua presidenza, può tracciare un bilancio?

Non essendo triestino, condurre la Comunità non è stato facile, ma ho imparato molto soprattutto dalla diversità nella composizione della Comunità. Ho capito che spesso la gente ha bisogno del pragmatismo. La priorità, comunque, è quella della vita religiosa e culturale.