Sembra che il mio vicino di casa sia ebreo

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Anzi, ormai è una certezza. Non me ne sono reso conto da solo. E non me ne ha avvertito lui, nei rapidi incontri mattutini, quando ci si saluta appena e ci si incrocia assonnati prima di metterci in strada per i nostri rispettivi itinerari di lavoro. Me lo ha fatto presente l’allarmata padrona dell’abitazione che occupa in quanto affittuario. Fermandomi un giorno per discutere di alcuni problemi riguardanti le riparazioni necessarie ad alcune parti comuni, questa egregia signora ha trovato il modo di osservare che probabilmente il mio vicino non si sarebbe fatto carico delle spese di sua spettanza, date le sue origini ebraiche. Mi sono limitato a farle presente che capisco bene i suoi timori.
Anzi, mi sono sforzato di confermare i suoi sospetti: in definitiva a pagare il conto sarebbe stata solo lei. Putroppo per lei il problema che ai suoi occhi presenta il mio vicino è infatti tale e quale al mio. Lei è rimasta sbalordita, ma non sono sicuro mi abbia preso sul serio. Forse avrà pensato che scherzassi, o che volessi cercare di svicolare per interrompere un discorso poco gradevole.
Sta di fatto che da quel giorno vedo il mio vicino con occhi diversi. Ho cominciato ad osservare i suoi movimenti più attentamente. Certo, di Shabbat mi sembra di tanto in tanto si metta al volante. Certo, probabilmente non trascorrere tutte le sue serate a studiare Thorà. Ma qualche mese fa l’ho scorto con aria smarrita in fondo in fondo in mezzo alla folla che riempie il tempio la sera di Kippur. Appena un atto di presenza.
Forse il mio vicino è un ebreo di Kippur, uno di quelli che si ricordano di pregare una sola volta l’anno. Ma ho deciso che questo non importa e che il sottoscritto non ha proprio alcun titolo per giudicarlo.
I dettagli si sono sommati ad altri dettagli, a frammenti di ricordi che erano rimasti nascosti nelle pieghe della vita. Allora mi è tornato in mente che nella bella stagione, quando di sabato è bello mangiare all’aperto, il mio vicino di tanto in tanto passando sorride. E di Sukkoth guarda con aria amichevole la capanna che metto assieme oltre alla staccionata che ci divide.
Questi piccoli frammenti mi sono sembrate tante occasioni mancate, tanti momenti di cecità che hanno finito per oscurare la mia vita. E mi sono vergognato di non averlo invitato a sedersi a tavola con noi, almeno per una volta.
L’altra mattina l’ho visto ancora. Ora che attraversiamo la stagione di Pesach viene spesso da chiedersi come si farà ad affrontare il comandamento più difficile di tutti, quello della Pasqua ebraica. Raramente riusciamo a cavarcela con poco, ma nel caso di Pesach, a ben guardare, la cosa di fa davvero difficile. Non siamo sollecitati, infatti, a commemorare il grande fatto storico della liberazione del popolo ebraico dala schiavitù dell’Egitto, ma siamo chiamati a rivivere in prima persona questo processo di liberazione, a liberarci ognuno del nostro Egitto, ognuno delle nostre schiavitù.
Al mio vicino forse basterebbe liberarsi della padrona di casa. Per quanto mi riguarda vorrei liberarmi dell’indifferenza che talvolta vince il mio sguardo e non mi fa meravigliare della profonda umanità degli altri.
Fra i miei buoni propositi per questo importante giro di boa nel ciclo dell’anno ebraico c’è anche quello di trovare ogni giorno il coraggio di guardare avanti e di tentare strade nuove, anche le più difficili.
Lo stesso coraggio dimostrato dall’ebreo che per primo mise un piede nelle acque del mar Rosso quando non c’era altra via di fuga. Non poteva saperlo, che le acque si sarebbero aperte, eppure gli è sembrato il caso di provarci lo stesso. Grazie a lui e all’aiuto che gli è stato concesso stiamo ancora qui a raccontarcela.
La stessa modestia di chi cerca ogni giorno di lavorare sul serio in silenzio, senza salire sul piedistallo per lanciare proclami roboanti e scomuniche utili solo a scimmiottare i divi d’accatto che la cultura dominante ci propone ad ogni angolo.
Quando passa il mio vicino, se ne ho l’occasione, adesso mi metto alla finestra. Di lui so quasi nulla. Ma l’altro giorno, quando rientrava, ho visto benissimo cosa portava sotto il braccio come un prezioso trofeo: una scatola di pane azzimo. Non mi sembra il tipo da fare scrupolose pulizie di Pesach, non credo sia nemmeno in grado di organizzare un Seder in piena regola. Forse il suo Pesach sta tutto racchiuso lì, in quella scatola di cartone. Per molti noi è solo un prodotto alimentare che al termine dell’ottavo giorno senza pane lievitato ha rischiato di venirci a noia. Per lui, penso quando sento qualche suo movimento oltre il muro che separa la sua abitazione dalla mia, in quella scatola c’è probabilmente davvero il sapore della libertà.
Non so se ne avrò il coraggio, perché ci conosciamo appena, ma domani, se lo incontrerò, vorrei dirgli: buon Pesach, caro vicino. Sono molto fiero di stare qui accanto a te. E, se non ti dispiace, farei volentieri con te un pezzo di strada comune, nel nostro cammino verso la libertà.

Guido Vitale (direttore@mosaico-cem.it)