Il Presidente e la Memoria

Italia

Perché il presidente Napolitano ha voluto parlare di antisionismo proprio nel Giorno della Memoria?

Perché ha voluto legare, con così tanta forza e chiarezza, il ricordo dell’Annientamento (Shoah) del popolo ebraico al destino dello Stato di Israele, alle “ragioni della sua nascita, ieri, e della sua sicurezza oggi”?
Perché il problema esiste: là, in Medio Oriente, qui, nella nostra società e nella nostra politica, già dal ’48.

L’Italia governata dalla Democrazia Cristiana attese diversi anni prima di riconoscere lo Stato ebraico: un po’ per filo-arabismo un po’ per le pressioni del Vaticano… mentre il PCI e il PSI erano entusiasti sostenitori del “cuneo rosso nel Medio Evo arabo”.

Poi le cose cambiarono: l’Italia riconobbe Israele e il PCI, seguendo Mosca, scelse di “tradire” Israele e la questione ebraica, per sostenere i nuovi nazionalismi arabi.

Scelta che fece infuriare anche i leader dei partiti socialisti e comunisti arabi che furono anch’essi traditi da quella scelta. I nuovi nazionalismi arabi, soppressero quei partiti, fino alla persecuzione dei loro leader. Nelle piazze di Baghdad furono impiccati prima i leader comunisti, e poi i capi delle comunità ebraiche.

Sostenne Mosca (e tutta quella parte della sinistra mondiale a lei legata) che quei movimenti erano dal forte tratto sociale: come dire… nazional socialisti.

È da allora che nell’immaginario di molti Israele è diventato un avamposto dell’Imperialismo occidentale.

È da allora che esiste un pregiudizio che non permette una serena valutazione delle politiche dei governi israeliani.

Da allora, molto sottile è stato il confine fra le critiche avvedute, ragionate, a Israele e quelle di stampo manicheo: Israele ha sempre “colpa” anche quando sono formazioni arabe a spararsi fra loro.

Ma il lato più oscuro di questo fenomeno è che oltre alla critica ad Israele spesso è stato chiamato in causa l’intero popolo ebraico.

Anche Janiki Cingoli (25 gen Europa) ha giustamente posto la questione dell’inaccettabilità di chiedere ai cittadini italiani ebrei di prendere posizione, ma poi è scivolato su una buccia di banana: in fondo se gli ebrei esprimono delle critiche ad un ministro può poi il ministro stesso chiamare in causa i suoi detrattori… ma come parte in causa?

Questo è il primo problema:
non la civile dialettica democratica, ma la triste attitudine di non “stare al merito”, fornendo una caricatura degli interlocutori.
Metodo questo piuttosto illiberale e pericoloso.
È assolutamente legittimo avere opinione diverse fra persone che civilmente discutono fra loro.
Non si può invece accettare il vedere mettere all’indice una comunità “naturale”, proponendone un’immagine distorta, solo perché le tesi che i suoi membri esprimono non collimano con le proprie.

E poi, seconda questione, dov’è la differenza di opinioni?
Dice saggiamente Cingoli che le questioni poste da D’Alema sono serie, e oggi si affiancano a lui anche altri amici di un nuovo “Campo della pace ebraico”.

Certo sono serie, ma stupisce il fatto che a queste considerazioni non vengano affiancate altre, assai importanti, direi decisive: per esempio lo scontro storico e “inevitabile” all’interno del mondo arabo fra modernisti fautori del compromesso e i radicali di matrice islamica; oppure la mancanza di interlocutori certi per la pace; o ancora il fatto che Israele sia il pretesto costante dei leader guerrieri di turno.

Scrivono per esempio gli amici di “Campo della pace ebraico” che “il terrorismo islamista si alimenta peraltro dal proseguimento dell’occupazione dei territori palestinesi da parte israeliana che rappresenta la vera fonte di immani disgrazie…” dimenticando che il terrorismo di matrice islamica ha altre origini storiche e geografiche, ed ha colpito paesi non coinvolti nel conflitto mediorientale: Algeria, Indonesia, Filippine, Turchia, Stati Uniti…

Allora perché Israele è sempre sul banco degli imputati? Perché non gli si riserva la stessa “comprensione” riservata ai suoi nemici o interlocutori?
E soprattutto che importanza ha per degli europei stabilire chi ha più torti o più ragioni?
A cosa servono le nostre azioni se non hanno l’unico vero traguardo che è quello di fare incontrare israeliani e palestinesi a metà strada?

È forse tempo per chi voglia dare un contributo alla pace di assumersi la responsabilità di fungere da “ponte” fra le due rive.
Perché, spiega il Presidente, quando si parla di Israele le “ragioni della sua nascita, ieri, e della sua sicurezza oggi” non sono ancora comprese.

Victor Magiar (testo apparso su Europa)

Vivo personalmente il giorno della Memoria come un giorno difficile.
Essere figli di un sopravvissuto ad Auschwitz, non permette di dimenticare, non avrei bisogno di date io; per noi, in famiglia, la memoria è religione laica quotidiana. La mia memoria della shoah è intima, non condivisibile; la memoria pubblica è invece, ovviamente, un’altra cosa, necessaria e fondamentale. I suoi caratteri vanno condivisi, la battaglia contro i suoi nemici pure.

Anche se io volessi, anche se torcessi il viso dal ricordo, una parte di me, pur guardando avanti, come l’ angelo di Klee descritto da Walter Benjamin rimarrebbe per sempre voltata all’indietro, ricercando i volti che non ho conosciuto.
Per questo contemporaneamente vivo il Giorno della Memoria, come un fondamentale momento del nuovo calendario civile della mia patria, ma anche come luogo rischioso dove la cerimonia o la retorica possono farmi sentire estraneo. Estraneo a me che di quel 27 Gennaio 1945 sono in via indiretta figlio.

Per questo vivo male la polemica che un gruppo di autorevoli storici italiani ha scatenato contro l’ipotesi di decreto legge del Ministro Mastella, reo secondo la comunità scientifica, di avere pensato alla punibilità del reato di negazione della Shoah. L’ho percepita inizialmente come un pericoloso via libera all’oblio.

Le cose non sono poi andate così, certamente anche per merito della sollevazione degli storici, che, mi si permetta la critica professionale, pur senza aver letto materialmente il testo, ha colto di quel provvedimento il rischio illiberale.

Il problema sollevato è reale, ma anche reale è il pericolo: il negazionismo, l’antisemitismo, l’antisionismo, il pregiudizio e la discriminazione razziale, etnica, religiosa o sessuale esistono, e proliferano soprattutto nel non-luogo culturale per eccellenza, e cioè Internet, dove senza filtro, e senza storici che possano li per li contraddirne gli assunti, si diffondono insulti, menzogne, incitazione alla discriminazione e apologia di crimini contro l’umanità. In aggiunta, sempre più, la nostra cultura accoglie al proprio interno, ed è bene che così sia, altre culture extra europee, molto poco al corrente dei caratteri storici del progetto sterminazionista del secolo scorso.

Lo scandalo sul rischio di punire il reato d’opinione è comprensibile, ma io mi chiedo, dopo che il decreto ha eliminato questa parte, non è che l’opinione diventata oggi maggioritaria, e cioè che le idee, per orribili che esse siano, non possono essere punite, ipotechi già il dibattito che svolgeremo in parlamento sulla conversione in legge del decreto, e questo ci porterà ad annullare de facto tutto il provvedimento? Quale ragionamento potrebbe infatti adesso sostenere la punibilità dell’apologia di nazismo o di fascismo o di razzismo, non siamo forse anche qui nel campo delle idee e delle opinioni, pur aberranti; quale sostenibilità avrebbe ora il reato di diffusione di idee discriminatorie, come per esempio i protocolli dei Savi di Sion?

Con le nuove modifiche alla legge basterebbe infatti semplicemente “diffondere”, pur senza fare “propaganda”, idee antisemite o sulla superiorità e l’odio razziale per essere perseguiti. Dubito che i firmatari di quell’appello potranno difendere anche solo questa versione, perché la loro contraddizione, con un prinicipio liberale che non conosce limiti nel campo della espressione di idee, sarebbe profonda.

Il comportamento e le idee del leader Ahmadinejad, sollevano da mesi lo sdegno e la reazione dell’intera comunità internazionale, sia per i suoi proclami contro l’esistenza di Israele sia per il sostegno incisivo che ha dato alla propaganda negazionista. Certo, il problema più reale in quel caso è la sua arma atomica, ma sperando che non si arrivi a tanto, quel tipo di affermazioni proferite in Italia dovrebbero essere considerate lecite? O bisognerebbe vedere scoppiare la bomba per percepire come reale l’esistenza di un reato.

Convengo anch’io, che punire un’idea confligga clamorosamente con l’idea di libertà svolta al suo massimo grado e che combattere il messaggio che ci è tramandato dalle aberrazioni della concezione etica dello stato nazionale novecentesco non possa che essere fatto osservando il massimo di liberalità.
Ma percepisco anche il rischio che una posizione troppo illuministica ed elitaria sui rischi delle forme di diffusione della propaganda razzista e discriminatoria, si risolva in un mancato approfondimento dei nuovi pericoli culturali.

Per questo lancio un appello affinché quanto prima in Parlamento ci si possa confrontare con una rappresentanza della comunità degli storici che hanno manifestato il loro pensiero in questi giorni, per giungere insieme a valutare un testo di legge che non punendo la semplice opinione non abbandoni neanche il rischio della discriminazione alla pura punibilità del fatto compiuto.
Lo dobbiamo fare per costruire per costruire una memoria pubblica comune per questo paese, sempre comunque dilaniato, non più rivolta solo all’indietro ma in avanti, per costruire su basi solide un pezzo dei nuovi diritti di cittadinanza che combatta la discriminazione e difenda le idee.

on. Emanuele Fiano (testo apparso su Il Riformista)