Momenti di incertezza, ragioni di speranza.

Israele

Inutile negarlo: gli scorsi giorni hanno fatto registrare momenti di incertezza e di inquie
tudine fra gli iscritti e le persone che si sentono vicine alla Comunità ebraica di Milano.
Le dimissioni di sei consiglieri, fra cui lo stesso presidente della Comunità, e la loro conseguente sostituzione non possono essere di per se stesse considerate un atto ordinario e lasciano intendere lacerazioni profonde all’interno di un Consiglio ormai comunque prossimo alla scadenza.
Le cose hanno poi preso il corso che gli stessi protagonisti hanno voluto imprimere loro.
In queste stesse pagine i lettori di Mosaico potranno verificare la formazione del nuovo Consiglio, la formazione di una nuova, larghissima maggioranza, l’elezione del nuovo presidente e la ricomposizione di una Giunta cui è affidato il delicatissimo compito di condurre nella serenità e nella trasparenza la Comunità al rinnovo degli organismi che dovranno dirigerla nei prossimi anni.

Non è compito di questo organo d’informazione, che costituisce per definizione una voce imparziale e al di sopra delle parti, schierarsi nell’ambito della normale dialettica che movimenta la vita comunitaria.
Il suo compito è quello di registrarla e di cercare, per quanto possibile, una spiegazione a quello che sta accadendo. Il suo compito è quello di favorire il confronto e la conoscenza di tutte le diverse posizioni, di aprire i propri spazi a chiunque desideri intervenire per portare il proprio contributo.
Chiunque voglia utilizzare questo strumento di informazione per diffondere le proprie opinioni nell’ambito di un confronto corretto è quindi invitato a farlo.

E’ invece compito di Mosaico quello di sensibilizzare i dirigenti e gli iscritti di questa comunità, come pure tutti gli ebrei italiani, sull’effetto che può provocare un ricorso poco meditato ai mezzi di informazione di massa.
Non è la prima volta che il pubblico, ebraico e non ebraico, legge sulle pagine dei quotidiani informazioni che corrono il rischio di offrire un quadro distorto della realtà ebraica italiana.
La macchina dell’informazione spesso costituisce uno specchio deformante, tende a spettacolarizzare problemi complessi senza poi saper fornire gli strumenti necessari per interpretare la realtà nelle sue reali proporzioni.
Dalle infami campagne d’opinione a sostegno delle discriminazioni razziali alla continua aggressione dei media nei confronti dello Stato di Israele, gli ebrei sono sempre stati le prime vittime di un utilizzo distorto dei mezzi di informazione. Sarebbe un peccato se oggi dimenticassero questa amara lezione.
Rischierebbe infatti di trasparire l’immagine di una comunità dove la litigiosità irragionevole e gratuita prevale, dove covano risentimenti incontrollati che nessuno si sente effettivamente in grado di giustificare e nemmeno di spiegare.
In breve, il pubblico spesso rischia di non comprendere quello che sta avvenendo, ma finisce comunque per trarne una sensazione negativa.

Gli ebrei italiani sono una piccola minoranza in una società che si va facendo sempre più complessa, articolata e problematica.
Se vogliono farsi capire hanno bisogno di spiegare con chiarezza e pacatezza le proprie ragioni.
Le comunità hanno bisogno di consolidare un sentimento di coesione al proprio interno per combattere la minaccia del disimpegno, ma anche di raccogliere il consenso e la simpatia nell’ambito della società circostante. Di lanciare messaggi costruttivi, positivi, chiari. Di parlare di progetti e di ideali, piuttosto che di enfatizzare beghe destinate a durare lo spazio di un mattino.
Hanno bisogno di dire con chiarezza che il pluralismo, l’estrema diversità delle posizioni che da sempre coltiviamo con fierezza non ci impedisce e non ci può impedire di proseguire uniti verso la realizzazione degli ideali comuni.
Parliamo spesso, e molto giustamente, del dovere della società di tutelare le minoranze. Ma sarebbe troppo poco accontentarsi di questa consapevolezza.
Perché anche le minoranze hanno dei doveri nei confronti della società: primi fra tutti quello di offrire il proprio onesto contributo e quello di costituire un esempio positivo. Quello, in breve, di essere i garanti e il modello della democrazia e della civile convivenza.

Guido Vitale
Milano, 14/11/05

L’avvicendamento:
parlano i protagonisti

Chi ha lasciato

Non è compito agevole spiegare ai lettori del Bollettino le motivazioni di un gesto così sofferto compiuto da parte dei sei consiglieri dimissionari che, per la prima volta nei quasi 30 anni di mia presenza ininterrotta nel Consiglio della Comunità, ha portato ad un reintegro così massiccio con l’ingresso di persone senza esperienza di gestione comunitaria.
Da mesi ormai era di fatto impedita, attraverso il voto di maggioranza, la possibilità di gestire col consenso anziché con la contrapposizione la maggior parte dei temi più qualificanti in discussione.
Si badi bene che l’uso del voto a maggioranza è la massima espressione della democrazia e nessuno dei dimissionari si è mai permesso di metterne in discussione l’uso: ma questo Consiglio era nato da una espressione di voto dell’elettorato che aveva chiaramente indicato un desiderio di gestione condivisa tra le due liste col maggior numero dei candidati e la lista Achdut ve Shalom che, con solo cinque candidati, aveva però ottenuto una netta prevalenza di consenso individuale.
È poi sintomatico che, dopo la defezione di Yasha Reibman dalle nostre fila, due consiglieri come Remi Cohen (vice presidente e assessore alle finanze) ed Eugenio Schek (consigliere addetto al culto) abbiano deciso di appoggiare la linea della presidenza.

È stato un susseguirsi di riunioni molto tese, spesso sfociate in contrasti personali accesi, non solo con il presidente, “despota, prevaricatore e dal carattere impossibile”, ma anche con gli altri, tutte persone pacate e ragionevoli, esasperate dall’arroganza della maggioranza.
Ancora oggi si intrecciano accuse e sospetti sulle motivazioni del nostro gesto, dopo che si sono insediati i nuovi consiglieri, è stato eletto il nuovo presidente, cui noi tutti rivolgiamo un sincero augurio di far raggiungere alla Comunità sempre migliori e più ambiziosi traguardi, ed è stata eletta la nuova Giunta, alla quale non mancheranno le capacità di ricoprire nel migliore dei modi gli impegnativi ruoli lasciati liberi dai dimissionari.
L’accusa più assurda, inaccettabile e offensiva, anche nei riguardi del nuovo rabbino capo, è che esistesse un patto elettorale per una diversa scelta: smentisco con sdegno queste voci calunniose. La mia storia personale, come quella degli altri compagni, è una continua dimostrazione di correttezza e lealtà che non può essere infangata da basse insinuazioni senza prove.
Mai mi sono prestato a patti oscuri per essere eletto (ed è successo per sette mandati consecutivi) ma ho sottoscritto chiari ed espliciti programmi delle liste di cui facevo parte, che ho cercato di realizzare, quando ne ho avuto la possibilità, solo per garantire miglioramenti nella gestione della Comunità, con l’aiuto e l’appoggio di larghe maggioranze.
Così come non ho mai accettato di soggiacere a ricatti: ma questa volta si è cercato di mettermi in questa situazione, condizionando la fiducia alla mia presidenza sino alla scadenza del mandato, alla sottrazione degli incarichi e delle cariche a due altri consiglieri.
Questo fatto ha superato il limite di accettabilità. Per mesi avevo ritenuto opportuno aderire a varie proposte e richieste per non creare, con le dimissioni, una condizione di difficoltà nella gestione, prima di avere risolto alcuni importanti temi: primo fra tutti la nomina del rabbino capo e, subito dopo, l’avvio dei lavori della costruzione della nuova Casa di riposo nei termini ultimativi della licenza edilizia, dopo aver seguito personalmente la pratica per oltre otto anni.
Eravamo tutti e sei consapevoli delle possibili conseguenze del nostro gesto, ma sono venuti a mancare i più elementari e basilari principi per un lavoro serio e condiviso.
Quando ancora era aperto un ristretto spiraglio per una soluzione meno traumatica, la delibera del Consiglio che ci invitava, senza alcuna sincera volontà, a ritirare le dimissioni ed il successivo annuncio nella Newsletter che ci accusava di irresponsabilità, ci hanno fatto capire che in realtà nessuno in Consiglio voleva un nostro ripensamento.

Lasciamo con due sentimenti contrastanti: da una parte l’amarezza per il trattamento subito; dall’altra la consapevolezza di aver compiuto il nostro dovere di eletti e di aver ricoperto gli incarichi ricevuti con professionalità, dedizione e, soprattutto, “onestà”, sostanziale ed intellettuale, per il solo bene della Comunità.
Ai nostri “sostituti” va l’augurio di saper portare avanti un compito difficile ed impegnativo nel migliore dei modi e di saper ottenere risultati ancora migliori per la Comunità e tutti gli iscritti.
Roberto Jarach


Chi è rimasto

Prendiamo atto con dispiacere delle dimissioni dei consiglieri Cohen, Hasbani, Jarach, Ortona, Schek e Zippel. Il Consiglio è il primario organo rappresentativo della Comunità ed è all’interno di tale ambito che risulta infatti opportuno mantenere, nel rispetto delle legittime differenze di opinioni, il confronto sulla diversità di indirizzo delle attività comunitarie.
I diciannove consiglieri eletti appartenevano, inizialmente, otto alla lista Chai (“laica”), sei alla lista Per Israele (“tradizionalista”) e cinque alla lista Achdut ve Shalom (“centro”). Quest’ultima lista, guidata dal presidente uscente Roberto Jarach, si era proposta alle elezioni come ‘ago’ della bilancia di fronte a un potenziale conflitto fra “laici” e “religiosi”.
Dopo le elezioni, Roberto Jarach è stato eletto alla presidenza a capo di una Giunta di “unità” composta da due membri per lista, più lui stesso come presidente sopra le parti. Le elezioni avevano indicato questa strada unitaria e il Consiglio ha deciso di appoggiarlo senza riserve. Roberto Jarach era infatti visto dalla grande maggioranza dei consiglieri come il presidente più adatto e in grado di rappresentare l’istituzione al meglio.

La Giunta, in una prima fase, ha lavorato con discreti risultati e in relativa armonia. Questo deve essere riconosciuto. Ma la situazione è cambiata quando dalla gestione ordinaria si è dovuto affrontare problemi più importanti: primo fra tutti il progressivo allontanamento di tanti correligionari dalla vita ebraica e dalla Comunità stessa.
Il primo contrasto è emerso quando una significativa maggioranza del Consiglio ha voluto sostenere una iniziativa denominata Kesher, un progetto in materia di educazione, di sviluppo della tradizione e cultura ebraica con lo scopo di rivolgersi soprattutto a persone lontane dalla vita comunitaria e dall’ebraismo. Un progetto quindi di “avvicinamento dei lontani” nel quale la maggioranza del Consiglio ha voluto investire.
A questa pregevole iniziativa che sta dando positivi risultati, una parte dei consiglieri dimissionari ha posto continue difficoltà per ragioni a noi tuttora sconosciute.
Dal momento in cui il Progetto Kesher è stato presentato, il Consiglio si è trovato diviso in due fronti, i consiglieri ora dimissionari da una parte e gli altri, “laici” e “tradizionalisti”, a supporto del progetto stesso dall’altra. Il progetto di avvicinamento dei lontani infatti sta alla base degli obiettivi sia del gruppo “laico” che di quello “religioso” e, in quanto tale, ha promosso una loro fattiva collaborazione.

La situazione di conflittualità all’interno del Consiglio si è nettamente accentuata quando rav Laras ha annunciato la sua decisione di concludere a fine giugno 2005 la sua attività di rabbino capo di Milano. Noi riteniamo che il motivo più importante che ha portato rav Laras a prendere questa decisione sia stata la situazione di abbandono nel quale l’ufficio rabbinico è stato lasciato negli ultimi anni. In verità, un progetto per il rafforzamento dell’ufficio rabbinico stesso era stato elaborato dal consulente Guido Borella in collaborazione con rav Laras, ed era stato presentato al presidente Jarach. Tuttavia, questo progetto non è mai stato portato in Consiglio. È quindi comprensibile che rav Laras si sia sentito abbandonato dopo trent’anni di apprezzato magistero.

Quando si è poi giunti in prossimità della nomina del nuovo rabbino capo, proposto all’unanimità da una commissione guidata da rav Laras, il presidente Jarach ha sferrato un pesante e ingiustificato attacco nella forma di una dichiarazione di voto contro la maggioranza dei consiglieri. In tale situazione, valendosi di talune deleghe (la presidenza, la vicepresidenza, l’assessorato alle Finanze e due dei tre consiglieri delegati al culto) ha sollevato continue difficoltà che di fatto hanno impedito l’attuazione di soluzioni necessariamente rapide per rimediare alla grave situazione dell’ufficio rabbinico.
Malgrado ciò, la maggioranza del Consiglio ha lavorato fino all’ultimo per convincere il presidente a terminare insieme il mandato in modo costruttivo portando a compimento il rafforzamento dell’ufficio rabbinico, continuando a sostenere le attività di avvicinamento dei lontani.
A questo scopo è stato chiesto al presidente Jarach, anche ufficialmente, di ritirare il suo attacco alla maggioranza espresso in forma scritta e allegata al verbale di Consiglio del 5 luglio 2005. Rifiutatosi il presidente di ritirare tali infondate accuse, dopo quattro mesi di tentativi i consiglieri rappresentanti la maggioranza si sono trovati nella situazione di dover rispondere (verbale di Consiglio del 8 novembre 2005).
A questo punto, per poter prendere delle decisioni importanti per il futuro della Comunità, è stata chiesta dalla maggioranza una riunione di Consiglio per definire un nuovo assetto di Giunta e di Consiglio rispettoso dei nuovi equilibri con l’assegnazione di nuove deleghe per garantire la giusta rappresentanza delle diverse posizioni. Il presidente Jarach invece, che pur appoggiato da una minoranza di soli sei consiglieri su diciannove, disponeva della presidenza, la vice-presidenza, due assessorati e due consiglieri sui tre delegati al culto, ha ritenuto inammissibile questa richiesta.
Purtroppo il presidente Jarach e i gli altri cinque consiglieri non si sono nemmeno presentati a questa riunione facendo recapitare la loro lettera di dimissioni. Questo atto, secondo noi, dimostra la volontà di avere una posizione di predominio all’interno del Consiglio stesso pur essendo largamente in minoranza, anche a costo di rinunciare alla propria rappresentanza in Consiglio e di sottrarsi al confronto istituzionale nell’unica sede opportuna.

È poi deplorevole che il presidente uscente Jarach abbia riportato questo conflitto sulle pagine della stampa, coprendo il reale dissenso della maggioranza nei suoi confronti con l’evocare il pericolo di un conflitto attualmente inesistente tra “laici” e “religiosi”. Il fatto invece è che in questo Consiglio, persone elette in liste diverse sono riuscite a collaborare e a individuare insieme obiettivi e priorità nel rispetto delle diversità, che ciascun consigliere rappresenta e nella comunanza di una visione comunitaria condivisa in grado di includere vicini e lontani, giovani e meno giovani. In tale contesto il presidente Jarach che si era costruito un’immagine come elemento di coesione, ha visto venir meno il proprio ruolo al di sopra delle parti, alimentando lui stesso situazioni conflittuali.

Abbiamo la certezza che la nostra Comunità sia molto più unita di quanto si voglia far sembrare. Vogliamo ora lavorare, nel periodo di mandato che ci rimane, per completare il nostro programma e superare gli atteggiamenti di immobilismo rappresentati dal gruppo dimissionario. Il nostro auspicio è che le polemiche finiscano qui e il Consiglio possa dedicarsi a un lavoro costruttivo al servizio della Comunità.
Leone Soued

Gli interventi di Roberto Jarach e Leone Soued sono pubblicati sul Bollettino della Comunità ebraica di Milano,
n° 12, Dicembre 2005, con un commento
introduttivo alla vicenda.