Il kibbutz? Adesso è un grande sogno borghese

di Aldo Baquis

Candidature in aumento. Undicimila appartamenti in costruzione, ciascuno conteso da 10 famiglie. Quello delle giovani coppie che sognano di venire a vivere in kibbutz è un trend in crescita. Perché? Semplice: qualità della vita, solidarietà e ottimi servizi sociali, fuga da stress e cemento, sistema educativo avanzato, aria pulita, prezzo delle case accessibile. Che cosa si può volere di più?

All’inizio del giugno scorso, l’ottantenne Arik Nehamkin, ex Ministro dell’Agricoltura, laburista, scrutava dall’alto di un cavallo le migliaia di escursionisti accorsi nelle campagne di Nahalal (Valle di Jezreel), in occasione di Shavuot (la festa del raccolto e del dono della Torà). Di lì a poco, Arik avrebbe partecipato al tradizionale rodeo, con una ventina di compagni e di compagne molto più giovani di lui, in un turbinio di polvere, nitriti e scalciate equine. Dopo il rodeo, il programma avrebbe incluso un singolare “rondò” di trattori, l’esibizione di cori agresti e ballerini, i voli acrobatici di un aereo per la disinfestazione, la corsa delle balle di fieno (sospinte e fatte rotolare da muscolosi agricoltori); e infine l’esibizione dei macchinari agricoli, da quelli vintage appartenuti ai pionieri degli anni Trenta fino a quelli mastodontici e tecnologici appena arrivati dagli Stati Uniti. E ancora la sfilata trionfale dei bebè nati negli ultimi dodici mesi in quel lembo di terra di Israele.

Guardando tutto ciò, probabilmente Arik Nehamkin si chiedeva la ragione profonda che aveva spinto quella folla, proprio quel giorno, ad assistere, entusiasta, alla tradizionale celebrazione del lavoro nei campi, a Nahalal come in decine di altri villaggi agricoli. Nella valle di Jezreel si festeggiano quest’anno i 100 anni di insediamento agricolo ebraico: un evento a cui anche la Knesset -pur dominata oggi da partiti di destra radicale e confessionali-, ha reso un omaggio commosso.

Nato a Nahalal (un moshav collettivista), Arik Nehamkin era tornato pensieroso ai giorni della infanzia. “Vivevamo in paradiso, a quell’epoca’’, aveva detto. ‘“Ma come ?’’, si erano stupiti i suoi interlocutori, “non avevate niente…’’. “Proprio perché non c’era niente ricordo benissimo l’esperienza di comprare un paio di sandali una volta ogni tre anni, per poi passarli al fratello minore’’. C’era una missione da compiere, c’era un’ideologia e un paese da costruire, c’era -lo ricorda benissimo-, gente felice.

Dall’alto del suo cavallo, -nervoso e imbizzarrito a causa del volume eccessivo della musica sparata da altoparlanti alti più di un uomo-, il vecchio laburista vedeva davanti a sé un centinaio di Suv luccicanti parcheggiati ai margini dei suoi campi: ecco l’Israele borghese, opulenta, consumatrice, che era venuta a toccare con mano le molli zolle di terra di Jezreel per far percepire ai figlioletti strappati ad Internet l’odore del fieno, i colori di un tramonto di fuoco in campagna.

Molto è stato scritto sulla epopea dei kibbutzim e dei moshavim, sulla tragica crisi che -negli anni Ottanta- li aveva visti vicini al tracollo economico. Poi la cancellazione da parte dello Stato (alla fine degli anni Novanta) di debiti per miliardi di shekel, e lo scaglionamento nel corso di un decennio dei debiti residui, li aveva salvati in extremis. Cominciava allora una strada in salita, in cui molti ideali di un tempo vennero percepiti come zavorra, e lasciati dietro le spalle. Furono anni di riorganizzazione economica spietata, in cui i rami secchi vennero tagliati senza complimenti. Poi, nel 2008, l’inversione di tendenza: fu quello l’anno in cui il numero di quanti erano stati accolti come membri di kibbutzim superava quello di quanti li avevano lasciati. Da allora -e oggi più che mai-, le candidature per venire a vivere nei kibbutzim superano di gran lunga le necessità.

Forte senso di solidarietà

A maggio il kibbutz Kerem Shalom, che si trova ai bordi della scorbutica frontiera con l’Egitto e a un passo da Gaza, che di frequente si trova sotto la minaccia di razzi Qassam e di mortai, ha pubblicato un’inserzione con cui informava che avrebbe preso in considerazione nuove candidature. E il telefono della segreteria non ha smesso di suonare. Accanto a questo fenomeno emerge quello della harhava, l’allargamento del kibbutz o del moshav: allargamento “esterno”, se avviene mediante la costruzione di nuove villette su quelli che erano campi e terreni del villaggio; o “interno”, se si trasforma un vecchio edificio del kibbutz in una casa per i nuovi arrivati. Operazione delicata perché le case, si sa, sono molto più che semplici muri e talvolta agli architetti può accadere di dover ristrutturare l’ex “Bet Yeladim-Casa dei bambini”, dove generazioni di pargoli venivano fatti crescere assieme, fuori dai nuclei familiari. Dunque un edificio carico di valori e di emozioni. La privatizzazione dei 270 kibbutzim ha messo da parte la visione comunitaria egualitaria che era alla sua base, mentre ha mantenuto in vita la base sociale di alta qualità che li distingueva. Ora che gli aspetti ideologici si sono molto annacquati, un numero crescente di israeliani vede nell’“ibrido” del nuovo kibbutz un posto in cui volentieri si trasferirebbero: o come membri a pieni diritti, o come vicini, residenti negli ameni “allargamenti esterni”, dove non si ha altro obbligo verso il kibbutz che pagare una quota mensile per i servizi. Mille appartamenti per nuove famiglie sono adesso in costruzione nei kibbutzim di Israele, e altri 10 mila sono in attesa delle ultime autorizzazioni. Ciascuno di questi appartamenti viene conteso da almeno dieci famiglie. E la popolazione dei kibbutzim è in continua espansione. Diversi kibbutzim chiedono, a chi vuole essere membro con pieni diritti, di acquistare “azioni” dell’insediamento per un valore di decine di migliaia di shekel (1 euro, 5 shekel) e di pagare il terreno su cui costruiranno la loro casa fino a 130 mila shekel. Perché ti aprano il cancello, devi essere economicamente affermato. Il kibbutz di oggi resta a mezza strada fra il socialismo e il capitalismo. La gestione dei vari settori si è molto specializzata e le decisioni vengono prese solo da chi è attivo al loro interno. La mitica “Assemblea generale” dei “haverim” non ha più voce in capitolo. Dunque ciascuna azienda viene gestita a sé e durante l’anno rimborsa al kibbutz l’uso del terreno, dell’acqua, della corrente elettrica. Ma a fine anno, i guadagni vanno al kibbutz, che pensa ad utilizzarli per provvedere alle necessità di tutti i membri. È vero che il dirigente dell’azienda del kibbutz percepisce uno stipendio maggiore di quello di un dipendente. Ma ciascun kibbutz stabilisce il divario accettabile, che è di gran lunga inferiore a quello del mercato israeliano. Inoltre la collettività del kibbutz provvede ai disoccupati, agli infortunati, agli anziani, ai malati. Il senso profondo di solidarietà non è scomparso.

Un equilibrio perfetto

Israele ci ha visto giusto, quando ha aiutato i kibbutzim ad uscire dal baratro dei debiti. Se fossero andati a picco -come sarebbe accaduto a ciascuno dei suoi singoli membri, se fosse stato un normale cittadino-, i servizi sociali avrebbero dovuto accollarsi l’onere di provvedere a 130 mila nuovi disoccupati. Oggi i debiti sono stati saldati e molte aziende di kibbutzim trainano l’economia. Qualità di vita, servizi sociali, sistema educativo avanzato, aria pulita, un prezzo delle case accessibile a larghi strati di borghesia, un equilibrio perfetto fra lo stress del lavoro in città e il tempo libero trascorso con la famiglia: questi gli elementi che fanno del kibbutz de-ideologizzato e del moshav il luogo ideale dove molte giovani coppie in Israele vorrebbero crescere i loro figli. A Nahalal, al termine delle festa di Shavuot, si sono viste molte decine di bambini lanciarsi a testa bassa nello slargo dove si era svolta l’esibizione e scavare con foga nel fieno: dove gli anziani del posto avevano nascosto cumuli di caramelle. Una scena magica, uno scorcio in più del “mito del kibbutz” (o moshav), per yuppie pentiti o giovani borghesi in fuga dal cemento e dal caos urbani.