Esilio, Tempo e Memoria

Eventi

La Giornata della Memoria, concepita per ricordare alla massa dell’opinione pubblica la tragedia della Shoah, pone anche a noi ebrei italiani una sfida straordinaria. Non tanto quella, come alcuni mostrano di credere, di aderire e partecipare con acritico entusiasmo a tutte le numerose manifestazioni che vengono organizzate in questa occasione. Ma piuttosto quella di ragionare su cos’è la memoria secondo la nostra stessa identità e la nostra stessa tradizione.
In questa data carica di potenzialità, ma anche gravida dei rischi veicolati da tutte le ritualistiche laiche, credo sia salutare tornare a studiare questo straordinario testo del Rav Roberto Della Rocca, direttore del Dipartimento Educazione e cultura dell’Unione delle Comunità ebraiche, che ci aiuta a capire cosa può essere e cosa non può essere, per noi, la memoria..

g.v.

La Tradizione ebraica è caratterizzata dall’imperativo categorico zachor, ricorda.

” Noi ebrei – scriveva Martin Buber nel 1938 – siamo una comunità basata sul ricordo. Il comune ricordo ci ha tenuti uniti e ci ha permesso di sopravvivere……..” .

Il verbo zachar, nelle sue varie forme, ricorre nella Bibbia ben 222 volte, e nella maggior parte dei casi ha per soggetto o Israele o Dio. La memoria, infatti, incombe su entrambi.
Il concetto di ricordare trova il suo complemento e completamento in quello di segno opposto: dimenticare. Al popolo ebraico viene ingiunto di ricordare e al tempo stesso viene anche imposto di non dimenticare. La Toràh in particolare nel versetto del Deuteronomio, 32; 7, ci sprona ripetutamente a ricordare e a non dimenticare.
Nelle ultime parole di congedo, Mosè raccomanda al popolo: ” Ricorda i tempi antichi, cercate di comprendere gli anni dei secoli trascorsi ( il corso della storia ), interroga tuo padre e ti racconterà i tuoi anziani e te lo diranno….”.
Ma sbaglierebbe chi intendesse questa affermazione come un mero invito a fondare la nostra esistenza sul passato che ci appartiene. Per quanto glorioso questo possa essere. Mosè viceversa intende insegnare che da una generazione all’altra viene trasmesso un patrimonio la cui portata aumenta sempre di piu’, si accresce costantemente sia per nuovi fatti accaduti, sia per nuovi messaggi ed emozioni.
La letteratura rabbinica interpretando questo verso della Bibbia afferma che la memoria, custodita di generazione in generazione è l’antidoto piu’ potente contro la morte, rappresentando una ferma determinazione, una volontà di non abbandonare nel nulla le tracce di cio’ che è già trascorso e passato ed è ormai sparito dalla storia. Nell’ebraismo, infatti, il passato non è qualcosa di sorpassato, privo di utilità, ma al contrario costituisce un valido aiuto per affrontare la vita. Anche se ci consideriamo esperti e intraprendenti, la Toràh ci induce a renderci conto che possiamo imparare molto dai nostri genitori e che persino i nostri nonni hanno ancora molto da insegnarci.
Per questo nella Toràh ci viene detto che ricordare gli avvenimenti non puo’ bastare; “…binu scenot dor vador….” “…cercate di comprendere gli anni dei secoli trascorsi…”, bisogna riflettere su di essi, ponderarli capirne a fondo il significato.
L’ insegnamento della Toràh, come si vede, è ben differente rispetto alla saggezza di Plutarco, secondo cui ” la storia si ripete “. No, per la cultura ebraica la storia non si ripete. E’ semmai l’uomo che puo’ perpetuare i suoi fallimenti e i suoi successi. Ricordare il passato, ma soprattutto comprenderlo, ci aiuta a mettere a fuoco correttamente gli eventi attuali. Non a caso Rashi’, , forse il piu’ autorevole commentatore della Bibbia, ( 1040-1105 ), nel suo commento a Deuteronomio, 32; 7, interpreta il passaggio “… Binu scenot dor vador…” non tanto come ” gli anni dei secoli trascorsi “, ma piuttosto come ” gli anni delle future generazioni “, nella convinzione che il futuro sarà tanto migliore quanto meno si dimenticheranno le lezioni del passato.
Ma cosa devono ricordare gli ebrei e in che modo?
Nel corso dei secoli, accompagnato dalla memoria e dalla speranza messianica, l’ebreo ha individuato nella Tradizione orale il punto di riferimento della sua storia, lo spazio sacro entro cui collocare la propria dimensione esistenziale.
L’oralità intesa come il momentum, il momento privilegiato per l’innesto in un tempo che è simultaneità, un tempo la cui dimensione particolare si riferisce contemporaneamente al presente, al passato e al futuro; si tratta di una dimensione dove non c’è solo l’attimo che fugge via e che non è piu’ afferrabile, ma anche un tempo che diventa fusione, prolungamento, coesistenza e quindi memoria.

Il ricordare quindi non è un semplice rievocare un evento passato, poichè la catena della trasmissione del ricordo non solo custodisce l’evento stesso, ma lo riattiva in forma potenziata, lo restituisce ad una nuova vita nel momento in cui viene rimesso nel circolo della narrazione e della celebrazione. Grazie a questo rapporto sempre rinnovato con il tempo, il popolo ebraico itinerante nello spazio, lontano dalla Terra di Israele e in particolare da Gerusalemme e dal suo Santuario, ha sviluppato una profonda coscienza storica e un forte senso di memoria collettiva creando alcune province della sacralità temporali, che possono essere osservate e celebrate dovunque. E’ proprio l’osservanza di questi “santuari del tempo”, come vengono definiti dal filosofo A.J. Heschel (1907-1972), ha permesso all’ebraismo di preservarsi dall’estinzione e di non essere assorbito completamente dalle culture dominanti.
A differenza delle civiltà impegnate a costruire nello spazio, come quelle egiziane, greche e romane, che esprimevano in magnificenze architettoniche le loro forme di culto e di identificazione, nell’ebraismo è prevalsa nel corso dei secoli, la santificazione del tempo.
Sulla base di tali premesse anche la storia cambia la sua sostanza, cessando di essere come per gli antichi greci, un’oggettiva registrazione dei tempi passati, una data collezione di aneddoti suscettibili di interesse e di ricerca. I saggi ebrei sembrano giocare a proprio piacimento con il tempo, espandendolo e contraendolo come una fisarmonica; la precisa coscienza del tempo e del luogo, la specificità della storia, cede il passo al piu’ sfacciato anacronismo. Le comuni barriere del tempo vengono rimosse, addirittura ignorate e le varie epoche possono intessere un dialogo l’una con l’altra con assoluta disinvoltura.
Il Talmud appare come un’ antologia del subconscio ebraico che guarda sì alla Bibbia come fonte di ispirazione continua, ma con quel suo caratteristico metodo analogico e interrogativo che ricorre ai piu’ strani espedienti interpretativi, a distorsioni, a capovolgimenti di epoche e di episodi sulla base di quel principio ermeneutico, che indica che nella Toràh ” non c’è né un prima , né un dopo”. Non si tratta tanto di una dimensione atemporale, quanto piuttosto di un’indipendenza da un criterio cronologico e deterministico del ragionamento.
Si puo’ cosi’ ben comprendere come, nel vocabolario ebraico, la parola storia non abbia diritto di cittadinanza. Al suo posto troviamo “toledot” letteralmente “genealogie “, o “divrè ajamim”, “cronache, avvenimenti”.
Eventualmente, talvolta la si prende a prestito dalle lingue greca e latina. Ma il significato della parola “historia” (che esso riprende direttamente da tali lingue) è fedele all’approccio di queste due civiltà agli eventi : ricerca, indagine.
Nella Tradizione ebraica la parola chiave per fissare gli eventi è zachor, ricorda che ha un significato molto diverso dalla parola historia.
Ci si trova di fronte a una storia della memoria in cui sono i flashback e le libere associazioni a dominare il campo e dove l’approccio tematico appare sicuramente privilegiato rispetto a quello cronologico. E’ proprio una tale memoria individuale e collettiva, talvolta confusa e sede di connessioni e associazioni di date e di avvenimenti, che vede episodi tragici richiamare alla mente altri episodi tragici, momenti di gioia richiamare alla mente altri momenti di gioia.
La letteratura rabbinica è cosparsa così di simili ancronistiche confusioni. Il ricongiungersi al zecher liziat mitzraim, il ricordo dell’esodo dall’Egitto, è sempre associato al zecher lemaasè bereshit, il ricordo della creazione del mondo, cosi’ come al dono della Toràh e alla permanenza del popolo ebraico nel deserto nelle capanne. A un punto tale che la Toràh rende noi stessi,
che viviamo ai giorni nostri, protagonisti dell’uscita dall’Egitto e del patto del Sinai, tanta è l’intensità di una simile congiunzione con il passato proiettata verso il futuro.
Il tempo non è piu’ colto come un insieme di momenti frammentati e staccati tra loro, per diventare continuità e attualità.

Il fatto è che, come scrive Elie Wiesel nel suo libro Celebration Biblique, la storia ebraica si svolge al presente; negando in un certo senso la mitologia, essa viene a influire sulla nostra vita e sul nostro ruolo nella società. “….Giove è un simbolo, ma Isaia è una voce, una coscienza. Zeus è morto senza essere vissuto, ma Mosè resta vivo……La lotta di Giacobbe è la nostra stessa lotta e parlare di Mosè significa seguirlo in Egitto e fuori dall’Egitto….Tutti i personaggi biblici si esprimono attraverso ognuno di noi perchè essi sono dei degli esseri viventi e non dei simboli, persone e non dei….Tutte le storie riferite dalla Bibbia ci riguardano, non dobbiamo fare altro che rileggerle per constatare la loro attualità sorpendente…..Nella storia ebraica tutti gli avvenimenti sono collegati, è raccontandoli al presente, alla luce di certe esperienze di vita e di morte, che si possono comprendere…..Le storie che noi raccontiamo non iniziano con la nostra; si inseriscono nella memoria, che è la tradizione vivente del popolo ebraico….Le storie che noi raccontiamo sono quelle che noi stiamo vivendo………..”.

Un esempio emblematico di come questa impostazione sia alla base della Tradizione ebraica mostra che la memoria ebraica è attraversata da una profonda ferita. La data del 9 del mese di Av, Tishàh Beav, ricorda la piu’ grave delle sventure di Israele, segnando la fine dell’antico Stato ebraico e l’inizio dell’esilio. Si usano nel detto giorno parecchi segni di grave lutto, dal digiuno alla lettura di elegie ispirate alla rovina del Tempio di Gerusalemme e all’esilio del popolo ebraico. Dal punto di vista della storia è ben noto che le distruzioni del Tempio siano state due. La prima avvenuta ad opera del generale Nevuzardan agli ordini di Nabucodonosor il babilonese avvenuta il 7 del mese di Av del 586 a.e.v. ( Libro dei Re, 25; 8-9 ) e la seconda ad opera di Tito il 10 del mese di Av del 70 dell’era volgare ( Talmud babilonese, Taanit 29 a ). A quale delle due catastrofi intendono effettivamente riferirsi i saggi? Alla Tradizione sembra talmente poco significativo questo interrogativo che mira alla chiarezza cronologica, che ci viene tramandato un messaggio apparentemente impreciso. Queste due sventure avrebbero avuto luogo lo stesso giorno, il 9 del mese di Av, data che segnerà piu’ tardi altre tragedie nazionali ebraiche, come l’espulsione degli ebrei dalla Spagna. La continua attribuzione retrospettiva di calamità nazionali al 9 del mese di Av rimane del resto un esempio significativo di tale impostazione. Tishàh Beav, il 9 di av, è divenuto così il simbolo di ogni disgrazia personale e collettiva, venendo a rappresentare il giorno del tormento per il popolo ebraico. Invero nella Mishnàh ( Taanit 4; 4 ) si legge: ” Cinque grandi disgrazie colpirono i nostri padri nel 17° giorno del mese di Tamuz e cinque nel 9° giorno del mese di Av…….. Il 9 di Av fu deciso inoltre che i nostri padri non entrassero nella Terra di Israele; il Tempio fu distrutto la prima e la seconda volta; a Betar capitolo’ l’ultimo tentativo di rivolta contro i romani e Gerusalemme fu rasa al suolo ( 135 e.v. )……”.
Non sorprende quindi, dato il peso di tali tradizioni, di trovare la medesima tendenza associativa in età successive. Cosi’ la cacciata degli ebrei dalla Spagna del 1492 fu collocata egualmente al 9 del mese di Av; a quanto pare l’esegeta Itzchak Abravanel ( 1437-1508 ) è stato il primo a decidere in questo senso ( commento a Geremia, 2; 24 ). Ora possiamo tentare di comprendere meglio perchè i Maestri hanno voluto associare e concentrare emblematicamente nel 9 del mese di Av gli eventi piu’ infausti della storia ebraica come la fallita missione degli esploratori, la distruzione dei due Templi di Gerusalemme e la cacciata degli ebrei dalla Spagna. Da queste considerazioni, dobbiamo dedurre che il rapporto fra tradizione ebraica e storia corre il rischio di restare oscuro ove non si colga il senso del Tishàh Beav e la sua dimensione fortemente significativa nell’organizzazione della stessa vita ebraica. L’ ebraismo appare come il solo grande culto che considera una rovina come il piu’ sacro dei luoghi. Questo è un elemento essenziale nella struttura del pensiero ebraico.
In contrasto con le altre grandi culture dell’antichità legate alle costruzioni in pietra e quindi inesorabilmente sprofondate in una dimensione puramente archeologica, il paradosso del “Hurban” ( “distruzione” ) sembra aver consentito la straordinaria sopravvivenza del popolo ebraico.
Proprio questa soprannaturale e paradossale capacità di sopravvivenza ha suscitato innumerevoli interrogativi. La caduta di quello che poteva equivalere al concetto del nostro “Santuario” ha determinato la scomparsa di tutte quelle culture coinvolte in un processo storico apparentemente ineluttabile. Se l’ebraismo ha potuto sfuggire a questa sorte, è perché un edificio invisibile si è sostituito a quello di pietra, come se l’edificio di pietra non fosse stato altro che l’immagine manifesta e la dimensione tangibile di un Tempio spirituale che non puo’ essere né misurato né distrutto sulla base dei criteri conosciuti dall’uomo.
La prima metamorfosi in questo senso si puo’ riscontrare nel periodo che segui’ il primo esilio, quello in Babilonia, sotto l’impulso energico di Ezrà ( 4° sec. a.e.v. ), un Maestro che seppe trarre dalla catastrofe babilonese una lezione decisiva; nonostante l’esilio la nazione ebraica poteva essere ricostruita riconducendo il popolo a rivivere gli insegnamenti della Toràh. Nell’accettare l’entità semi-statale offerta da Ciro, semplice prottetorato persiano, Ezrà non ristabilisce tanto la monarchia, ma istituisce delle strutture molto flessibili articolate intorno alla “Keneset Ha-ghedolàh”, la “Grande Assemblea dei Saggi”. Anche se Ezrà ricostruisce il Tempio, questo sarà molto piu’ modesto del primo, quello costruito dal Re Salomone. Forse questo avvenne per mancanza di fondi e di mezzi, ma probabilmente anche per diminuirne gradualmente lo speciale ruolo religioso. Ezrà, la guida di questo ritorno, conserva il culto precedente dei sacrifici animali ma vi affianca un secondo rito, la lettura settimanale e lo studio della Toràh dando inizio così a un’arte nuova ed essenziale per l’ebraismo, quella del Midrash e dello studio. Nessuno piu’ di Ezrà si è impegnato nell’edificazione del Tempio invisibile. E’ proprio in questo contesto di distruzione e di grande sconvolgimento che si sviluppa e si delinea quindi il passaggio dal Bet Ha-Miqdash, il Santuario, al Bet Ha- Midrash, la Casa di Studio. Il Midrash, inteso nella sua accezione piu’ ampia, diviene quindi lo studio ebraico per eccellenza, rappresentando quello sforzo ripetuto generazione dopo generazione per la realizzazione del Tempio invisibile, una sorta di Tempio semovente, capace di seguire gli ebrei ovunque. Un tentativo di attutire e contenere attraverso una Tradizione orale la ferita inguaribile della distruzione del Tempio. Il compito di trasformare il ricordo in memoria viva e trasmetterlo alle generazioni future è assegnato dall’ebraismo alla Tradizione orale che, anzichè essere isolata e decontestualizzata in un monumento, è inserita nella continuità di un sistema culturale.
“Non esistono libri migliori dei figli istruiti nella Toràh” (Talmud Babilonese, Bavà Batrà 116 a ). Il testo scritto, infatti, non è dotato di parola né forza di azione, non è realmente vivo, mentre la vita dei figli continua quella dei genitori. I Maestri interpretano il verso della Toràh: “Ze sefer toledot adam….”, “Questo è il libro della posterità di Adamo…” (Genesi, 5: 1 ), affermando che il vero libro di cui si parla sono i figli dell’uomo, perchè essi portano nel cuore la Toràh trasmettendola cosi’ ai loro discendenti. Nella Tradizione ebraica anche la scrittura non è fissità, non è rigido dogma; è invece convivenza e confronto delle contraddizioni, ed è punto di partenza e stimolo per una ricerca di nuovi significati: Per questo impegno costante e quotidiano la Tradizione orale continua a essere definita Toràh shebeal pèh (Toràh che è sulla bocca), nonostante i Maestri l’abbiano messa per iscritto diversi secoli fà. Come evitare che l’oblio prenda il sopravvento nella prospettiva storica, come è accaduto per le Crociate, per l’Inquisizione, per i progroms? La storia istituzionalizza il ricordo, ma quasi sempre come il monumento, sottrae la memoria alla sua appartenenza individuale per consegnarla alla collettività universale. La commemorazione del passato, i monumenti ai caduti, i musei, sono tutte forme di memoria collettiva istituzionalizzata e, di fatto, sottratta alla coscienza individuale. La memoria ebraica, viceversa, nell’insegnamento specifico della Haggadàh di Pesach ( Narrazione dell’Esodo dall’Egitto) per esempio, attualizza l’evento dell’Esodo attraverso la consegna del ricordo dal testo all’individuo, che pero’ agisce in quanto componente della comunità. Questo significa inevitabilmente scegliere la strada del raccontare che nel pensiero ebraico vuol dire, tra l’altro, avvicinarsi anche all’idea di tempo, di redenzione e di libertà . Si è liberi solo se si ricorda e la dimensione del racconto che è radicata nella memoria diventa in tal senso condizione fondante della propria identità.

A ulteriore illustrazione del tema della memoria e del tempo, mi sembra di poter riprendere un racconto chassidico nato all’interno di quel movimento mistico e popolare sorto nel Settecento tra Polonia e Podolia.

Quando il Baal Shem Tov – il fondatore del chassidismo – doveva assolvere un qualche compito difficile, qualcosa di segreto per il bene delle creature, andava allora in un posto nei boschi, accendeva un fuoco e diceva preghiere assorto nella meditazione: e tutto si realizzava secondo il suo proposito.
Quando una generazione dopo, il Magghid di Mesritz si ritrovava di fronte allo stesso compito, riandava in quel posto nel bosco e diceva: ” non possiamo piu’ fare il fuoco ma possiamo dire le preghiere..” – e tutto andava secondo il suo desiderio. Ancora una generazione dopo, Rabbi Moshè Leib di Sassow doveva assolvere lo stesso compito, anche egli andava nel bosco e diceva: ” non possiamo piu’ accendere il fuoco, e non conosciamo piu’ le segrete meditazioni che vivificano la preghiera; ma conosciamo il posto nel bosco dove tutto cio’ accadeva e questo deve bastare”. E infatti cio’ era sufficiente. Ma quando di nuovo, un’altra generazione dopo, Rabbi Israel di Rizin doveva anche egli affrontare lo stesso compito, se ne stava seduto in una sedia nel suo castello, e diceva:” Non possiamo fare il fuoco, non possiamo dire le preghiere e non conosciamo piu’ il luogo nel bosco: ma di tutto questo possiamo raccontare la storia”. E cosi’ il suo racconto da solo aveva la stessa efficacia delle azioni degli altri.

Un tale racconto ci dice che narrare puo’ equivalere a vivere nel senso forte, non ad immaginare di vivere ciò che si narra: il raccontare attualizza un’esperienza che a volte direttamente non si è più in grado di fare perchè è passata o perchè si sono perse alcune capacità necessarie. “Il racconto ha la stessa efficacia dell’azione”. Questa mi sembra una sorta di chiave per comprendere il valore del raccontare nell’ebraismo. La narrazione dell’uscita degli ebrei dall’Egitto, per esempio, è nell’insieme un avvenimento pedagogico, una scena di trasmissione di valori e di esperienze alle nuove generazioni. I genitori stimolati dalle domande curiose dei figli, cominciano a raccontare, a volte passando attraverso commenti rabbinici e a volte perchè no? – con riflessioni personali. La narrazione si dipana e cosi’ il figlio impara a conoscere la storia passata del popolo ebraico. Ma lo scopo della Haggadà non è culturale, o per lo meno non solo culturale: è esistenziale , di esperienza. Si deve giungere ad affermare in conclusione che “..in ogni generazione dobbiamo sentirci, come se noi stessi fossimo usciti dall’ Egitto…”, il testo non dice dalla terra d’Egitto ma dall’Egitto, a significare che ognuno di generazione in generazione deve liberarsi dal proprio Egitto e dalla concezione materialistica di cui quell’Egitto era il simbolo. L’uscita dall’Egitto di ieri, di oggi e di domani diventa cosi’ la base, il punto di riferimento su cui misurare tutta la nostra esistenza e la nostra idea di libertà. Anche qui come nel racconto chassidico, è la narrazione che porta alla attualizzazione, al vivere e fare esperienza dell’uscita dall’Egitto e della libertà. E questo avviene grazie al raccontare dei genitori ai figli. Il passato diviene presente e in qualche modo si proietta nel futuro. Attraverso il racconto, l’ebreo rivive il passato di liberazione e anticipa il futuro di redenzione, tutto questo è il risultato della disposizione a raccontare e ad attualizzare la memoria. Sembra dunque che in questo senso essere liberi e sentirsi liberi significhi anche poter giocare, in senso forte, con il tempo. Dopo venti secoli il lutto per la distruzione del Tempio è per chi ne conosce le regole straordinariamente presente nell’anima ebraica, nei giorni di dolore come di gioia. Viene significativamente rievocato nel giorno del matrimonio sotto la chuppàh, il baldacchino nuziale, con la frantumazione di un calice. Le parole del Salmo 127: ” ….se ti dimentichero’ o Gerusalemme, si paralizzi la mia mano destra…” furono un riferimento per i Maestri che imposero alla comunità di Israele l’obbligo della conservazione della memoria storica. Il matrimonio, in particolare, segno dell’inizio di un progetto nuovo e di una tappa della continuità biologica, deve arricchirsi di significati culturali con la funzione di trasmettere la memoria e l’identità.
Proprio nel grande momento della gioia e della commozione personale e familiare, non deve essere dimenticata l’identità collettiva e il senso di cio’ che manca alla comunità perchè la felicità sia completa. Il bicchiere spezzato viene cosi’ a ricordare simbolicamente che il popolo ebraico non puo’ essere compiutamente nella gioia, perchè un’antica frattura storica, che ne ha segnato il destino per tanti secoli, non è stata ancora sanata.

Ma dall’esempio del bicchiere si puo’ ricavare un altro grande insegnamento: soltanto quando la comunità ha collegato gli eventi dolorosi o gioiosi dell’esperienza ebraica al mondo delle mitzwot, e cioè all’osservanza dei momenti normativi, è riuscita a mantenerne la memoria: si pensi alla ricorrenza di Chanukkàh, festa dell’inaugurazione del Tempio, con l’accensione dei lumi, e a quella di Purim, festa delle sorti, con la lettura del Rotolo di Ester. Certo la capacità di rievocare il passato va mantenuta viva. Ma da solo il ricordo rischia di divenire la tomba del passato. Per l’ebraismo ricordare e agire devono sempre andare di pari passo. Parafrasando il ” Lechàh Dodi’ ( Vieni, o mio caro, incontro alla sposa, accogliamo lo Shabbat…) “, l’inno che segna l’ingresso dello Shabbbat, il sabato ebraico, ” shamor vezachor bedibbur echad…”, ” osserva e ricorda è come se fossero un’unica espressione…”; osserva e ricorda sono infatti due diversi resoconti delle due Tavole del Patto ( Esodo, 20 e Deuteronomio, 5 ) ma il comandamento è uno solo.
All’imperativo zachor, ricorda, deve sempre accompagnarsi, o meglio precedere l’invito shamor, osserva, letteralmente, mantieni !
Soltanto attraverso le azioni si puo’ garantire una sana e corretta trasmissione della memoria.
Ancora una volta la Tradizione ebraica vede quindi nelle azioni e nei significati che ne derivano gli strumenti piu’ idonei per contrapporsi ad ogni tentativo di lacerazione e disgregazione .
Ecco perchè la rottura di un calice, puo’ divenire un momento necessario di quel nuovo inizio e in quell’ unità simboleggiata dalla chuppàh, il baldacchino nuziale.
Walter Benjamin, nell’ultima delle sue ” Tesi di filosofia della storia “, osserva: “…è noto che agli ebrei era vietato investigare il futuro. La Toràh e la preghiera li istruiscono invece nella memoria. Cio’ li libera dal fascino del futuro, a cui soggiacciono quelli che cercano informazioni presso gli indovini. Ma non per questo il futuro divento’ per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto. Poichè ogni secondo, in esso, era la piccola porta da cui poteva entrare il Messia….” ( Walter Benjamin, Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1982 (IV), p.86 ).
Una piccola porta da cui entra il Messia, uno spiraglio da cui viene la salvezza per il popolo ebraico. Gli attimi futuri, pero’ si possono trasformare in spiragli di speranza solo se noi siamo istruiti nella memoria, se noi sappiamo e ricordiamo chi siamo. Non sempre, pero’, riusciamo ad avvertire gli stimoli di chi ci puo’ aiutare; non sempre siamo disposti ad aprire la nostra porta.

C’è un racconto, nel libro di Elie Wiesel, “Contro la malinconia”, che rende efficacemente tale idea: ” Quella notte Rabbi Meir di Peremyzljany era solo con Rebbe Ariè suo amico. Il maestro meditava, Rebbe Ariè recitava i Salmi. Fuori scendeva la neve, le strade parevano solchi. Il villaggio dormiva sotto il cielo che riluceva. A mezzanotte Rabbi Meir sospiro’ e secondo la Tradizione, si sedette per terra a piangere sulla distruzione del Tempio e a lamentare l’esilio di Dio da un’eternità all’altra. Nella stanza c’era freddo, ma Rabbi Meir non lo sentiva; il suo pensiero l’aveva tratto altrove. Nel silenzio del suo cuore mormorava: ” Fai presto Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe; la tua pazienza non è piu’ una virtu’; noi tuoi figli siamo allo stremo. Guardaci siamo estenuati, piegati dalla fatica, fiaccati. Fai qualcosa, Signore. Se non per noi, fallo per amore del Tuo Nome……..”. All’improvviso Rabbi Meir si irrigidi’: bussavano alla porta, Rebbe Ariè impallidi’ :” chi è amico o nemico? un emissario del diavolo o la sua vittima?” “Apri!” ordino’ Rabbi Meir – “ma non sappiamo chi è!” “Apri ti dico!” – “ma Rabbi se è un ubriaco che vuol farci del male?” – “Apri, forse è qualcuno che ha bisogno di aiuto. Un marito in ambasce, un padre disperato, un prigioniero in fuga, chi aspetti ad aprire?” Rebbe Ariè apri’ e si trovo’ di fronte un soldato che in jddish chiese il permesso di entrare. “Ho fame” disse. Rabbi Meir si precipito’ in cucina e torno’ con pane e latte che poso’ sulla tavola. Il soldato mangio’ in silenzio, “dimmi” fece Rabbi Meir “sembri affamato, in caserma non ti danno da mangiare?” – “Oh si”-“ma allora? ” – ” Semplicemente il loro cibo non fa per me. Io sono ebreo capite? Mi hanno arruolato di forza quando ero ancora bambino. Non avevo avuto il tempo di imparare cosa un ebreo deve o non deve fare. So soltanto che un ebreo deve mangiare kasher. Percio’ dovunque passi il mio reggimento cerco una casa di ebrei per mangiare kasher, per ricordarmi che sono ebreo”. Rabbi Meir turbato si avvicino’ alla finestra e contemplo’ la neve che pian piano seppelliva il villaggio. Taceva poi sospiro’ e disse:” Ariè amico mio, ascolta, un giorno verrà il Messia, è sicuro, ma verrà grazie a chi? grazie a Meir? No! grazie a te forse? Nemmeno! Verrà grazie a questo soldato che bussa alle nostre porte per ricordarci chi siamo! ” .

Anche secondo questa pagina scelta da Wiesel, la pratica delle mitzwot, l’osservanza della scansione normativa della nostra vita, rimane il segno tangibile della volontà di rimanere collegati alla memoria storica attraverso l’azione.

” Dimenticare è alla base dell’esilio come la memoria lo è della liberazione ” diceva il Maestro chassidico Nachman di Breslav ( 1772-1810 ).

Rav Roberto Della Rocca

direttore del Dipartimento Educazione e cultura
dell’Unione delle comunità ebraiche italiane