La visione economica dell’ebraismo come soluzione alla crisi

Economia

di Gabriele Grego

Gheula Canarutto
Gheula Canarutto

Incontro con Gheula Canarutto, ex-bocconiana, saggista e autrice del volume “Responsabilità sociale ed etica ebraica”

Meritocrazia, etica del lavoro, individualismo, liberismo: qual è la visione economica dell’ebraismo? E come può aiutarci a comprendere e affrontare la crisi economica che ancora morde? Il mondo non si è ancora ripreso dalla crisi del 2008 e quasi tutti i Paesi soffrono una situazione economica che va dal mediocre al disastroso. La crisi si fa particolarmente sentire in Italia, che non cresce a ritmi adeguati ormai da un ventennio. In questo contesto difficile molti criticano il sistema capitalistico e il libero mercato, auspicandosi un ritorno al socialismo e quindi a una presenza dominante dello Stato nell’economia, particolarmente allo scopo di ridurre una percepita disuguaglianza di reddito tra pochi fortunati e il resto della popolazione. Movimenti quali “Occupy Wall Street” oppure autori quali Thomas Piketti e il suo Capital, sono solo alcuni dei fenomeni che testimoniano questo stato d’animo. Anche in Israele, con la sua economia moderna e in forte crescita, esistono tendenze simili, sfociate, per esempio, nelle manifestazioni per la “Giustizia Sociale” a Tel Aviv nel 2011. Ne parliamo con Gheula Canarutto, ex bocconiana ed ex docente nella prestigiosa università economica milanese.
Qual è la concezione ebraica di un sistema economico appropriato alla Halachà?
Secondo l’ebraismo l’uomo è sempre al centro di tutto; al di sopra di tutto c’è sempre il benessere dell’individuo. Si potrebbe dedurre che questo porti a un eccesso di regolamentazione, per esempio la limitazione della concorrenza, invece l’idea è quella di “regolare la libertà” e che quindi il mercato si regoli da sé finché non entri in gioco il diritto altrui. Non esiste religione più aperta e liberista dell’ebraismo.
Quali sono i ruoli di Stato e libera impresa in un Paese ebraico ideale?
In linea di massima l’intervento di una struttura centrale (per esempio uno Stato o una comunità) avviene per salvaguardare i beni e i servizi fondamentali. Sono legittimi interventi sul mercato, ad esempio cercando di controllare domanda e offerta di un bene essenziale, per evitare eccessi speculativi allo scopo di tutelare individui che ne risentirebbero. In Israele per esempio, i prezzi dei prodotti essenziali, come il pane, sono calmierati, mentre per i beni di lusso vige il libero mercato. Poi ci sono tutta una serie di leggi volte a promuovere la concorrenza, che per l’ebraismo è qualcosa di positivo. Infatti, tranne che per i beni di prima necessità, sul mercato non si interviene, se non per impedire concorrenza “sleale”, come quando un negozio apre intenzionalmente davanti a quello di un rivale per sottrarne la clientela.
Questo principio vale solo nei casi in cui è in pericolo il sostentamento essenziale di una persona o anche quando si parla di imprese di notevoli dimensioni?
Nell’ebraismo non esiste mai la regola generale, ma si applica un ragionamento caso per caso. In questo, si decide in base a una analisi di costo/beneficio, considerando i vantaggi della concorrenza per il pubblico (prezzi più bassi) con gli interessi della singola società. Il ruolo della moderna normativa anti-trust è molto simile.
La tutela dei più deboli (il welfare) è responsabilità dello Stato (attraverso tassazione e ridistribuzione) oppure spetta invece all’iniziativa privata tramite zedakà?
Si tratta di un connubio tra pubblico e privato: entrambi sono obbligati a contribuire. Tuttavia, l’intervento dell’individuo resta fondamentale per correggere i disequilibri del mondo: la Torà nasce anche perché ciascuno si senta responsabile per il proprio prossimo.
E i sistemi di tipo socialista dove lo Stato si assume tutta la responsabilità del welfare e della distribuzione?
Un sistema che cercasse di sostituirsi all’individuo liberandolo “dall’onere” della zedakà sarebbe anti-ebraico. Storicamente, i cittadini dovevano contribuire con il 10% dei propri guadagni (la decima) e questo minimo era obbligatorio. Poi molti, di propria spontanea volontà, aumentavano il contributo attraverso la zedakà.
Come viene visto nell’ebraismo il lavoro e il benessere economico?
Su questo l’ebraismo è molto chiaro: D-o non pretende che l’uomo si separi dalla materialità ma che, attraverso le leggi della Torà, la elevi. Il lavoro deve essere qualcosa di nobilitante. In questo siamo molto vicini all’etica del lavoro dei protestanti che, al contrario dei cattolici, non hanno mai dato una connotazione negativa al materialismo e al denaro. I grandi maestri della Torà, Rashi o Rabi Yehuda HaNasi, erano dei businessmen di successo, lavoravano sodo ed erano ricchi, fornendo così un esempio ai loro seguaci.