Cataluccio: la memoria, un ingannevole teatro, fatto di ombre e fantasmi

di Fiona Diwan

26Tra Polonia, Ucraina, Russia, vagabondaggi tra storia e letteratura di un innamorato della yiddishkeit.

IMG_0590È con un passo da flaneur che Francesco M. Cataluccio si aggira per un’Europa ebraica di ombre e fantasmi. Cataluccio va in cerca di domande più che di risposte. Ha vagabondato per anni nelle pianure della Polonia e dell’Ucraina, chiedendo in giro se qualcuno conservasse ricordi e memorie, sulle tracce di nebulose costellazioni di uno shtetlach svanito. Ha battuto paesini e villaggi di Podolia, Volinia e Galizia, Slesia e Pomerania, alla ricerca dei luoghi che partorirono la leggenda dei lamedwovnik, i 36 Giusti su cui, per la yiddishkeit chassidica, si reggerebbe l’equilibrio del mondo, una leggenda di cui aveva sentito parlare da bambino, a Firenze, dalla nonna polacca del suo compagno di banco. Ha ripercorso la storia della fulgida dinastia chassidica del Rebbe di Chernobyl, intrecciandola con le tristi vicissitudini dell’esplosione della centrale nucleare nel 1982. È andato alle radici della simbiosi ebraico-polacca (in Polonia, prima della guerra, c’erano circa 3 milioni e 500 mila ebrei, una presenza immane), per capire che, senza quel lascito, la Polonia contemporanea oggi forse non esisterebbe.
Scrittore e saggista, fiorentino, classe 1955, ex direttore editoriale Bollati Boringhieri e Bruno Mondadori, oggi responsabile cultura dei Frigoriferi Milanesi, Francesco M. Cataluccio è studioso eclettico della filosofia, della Polonia e del mondo ebraico dell’Est Europa (suo maestro è stato l’insuperabile Angelo Maria Ripellino), sofisticato autore di una narrativa dell’anima, capace di intrecciare viaggio, reportage, memorie private e passeggiate letterarie, il tutto spolverato da una poderosa erudizione. Da Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio), viaggio appassionato nel cuore slavo ed ebraico d’Europa, a Chernobyl (Sellerio), un diario-reportage dedicato alla sciagurata città, zeppo anch’esso di memorie ebraiche; dal volume L’Ambaradam delle quisquiglie, a La memoria degli Uffizi (anch’essi Sellerio), fino all’ultimo saggio, Immaturità, la malattia del nostro tempo (Einaudi), dedicato al mito dell’adolescenza, da Peter Pan a Harry Potter.
In Cataluccio la memoria individuale si dilata per includere memorie abissali fatte di luoghi come Chernobyl, Katyn, Ponary e la foresta di Paneriai, Babi Yar, Terezin… Nei suoi libri si rincorrono nomi aguzzi, tipicamente polacchi, o più liquidi, tipicamente ebraici: Baumann e Szczypiorski, Czapski e Schulz, Baczko e Pomian, filosofi, scrittori, sociologi, artisti, poeti, tutti figli di una temperie culturale che fu l’esito felice di quella simbiosi culturale che il nazismo cancellerà. «Senza ebrei, la cultura polacca non esisterebbe. La loro presenza risale al 1500. In un mondo contadino, serio e punitivo come quello polacco, l’ironia e l’autoironia ebraica deflagrarono come un fuoco colorato e vivificante. In seguito, dall’Illuminismo in poi, l’intellighenzia ebraica seppe veicolare tali e tanti valori di modernità da riuscire a fecondare la nascente cultura polacca, arte, teatro, letteratura… Si creò una specie di simbiosi, anche se conflittuale e ambivalente.
Eppure, fino a qualche decennio fa, il mondo polacco ha cercato di negare e sminuire il ruolo degli ebrei nella costruzione della Polonia moderna. Ancor più con gli anni del comunismo, dopo il 1956, quando scattò un’equazione automatica tra ebrei e comunisti, tra ebrei e invasori russi: e così, per le masse contadine polacche, quegli stessi ebrei che prima avevano ucciso Gesù, ora erano ritornati per portar via loro la casa e la terra. Solo alcuni pensatori e poeti polacchi, come profeti muti, sono stati in grado di puntare un dito severo contro i propri connazionali. Nei loro testi, il tema centrale è l’Indifferenza, quella di chi si girò dall’altra parte davanti all’ecatombe ebraica. È stata la caduta del Muro di Berlino a innescare un irreversibile processo di maturazione».
Rispetto alla Shoah, c’è quindi stato nel mondo slavo e in Polonia, un processo di rielaborazione di quella tragedia e il riconoscimento della sua specificità ebraica?
«Tutto sommato, credo che oggi la Polonia abbia davvero fatto i conti col proprio passato e ammesso le proprie responsabilità verso gli ebrei, cosa a mio avviso non ancora avvenuta né per l’Italia né per la Francia di Vichy. La verità è che dietro ai tedeschi – che fecero da paravento -, dietro all’alibi dei cattivoni, si sono nascosti tutti, italiani, russi, francesi, ucraini…; Norimberga ha salvato tutti scaricando ogni nefandezza sui nazisti. Per la Polonia oggi non è più così, l’antisemitismo è un tabù, e su Auschwitz sono state scritte montagne di libri, ed è stato costruito, nel 2013, il MHZ, il Museo di Storia Ebraica, proprio sulla spianata dove una volta c’era il ghetto di Varsavia e dove le autorità polacche non hanno più voluto far costruire nulla, per onorare la memoria di quella tragedia e della resistenza del ghetto. Ciononostante, fare i conti con la Shoah non è semplice per i polacchi; le scuole non portano gli studenti a visitare Auschwitz-Birkenau, le visite ai campi non fanno parte di un progetto educativo condiviso, quei luoghi non sono oggetto di memoria ma parte del passato e nessun polacco avverte la necessità di andarci. Oggi in Polonia vivono 2500 ebrei».
Nei suoi libri, la prosa di Cataluccio è un fluire musicale e “largo”, dove i versi di Wislawa Szymborska inseguono le visioni erotiche di Bruno Schulz e la memoria delle armate a cavallo di Isaak Babel viene disarcionata dall’epos di Vassilij Grossman e dalle vite senza destino di cui narra lo scrittore di Berdicev. Quaggiù, nelle vaste lande del cuore d’Europa, nulla sopravvive al tritacarne della storia e Cataluccio ci accompagna nel grande mattatoio che per secoli fu quest’area.
Una memoria fuggitiva, una memoria che sa anche farsi leggera e avventurosa. Amante delle passeggiate letterarie, Cataluccio è un cultore dell’arte della divagazione dove tutto si mescola in una scrittura capace di toccarti il cuore: impressioni personali, grande Storia, emozioni, letteratura, aneddoti, frammenti, ricordi e una tenerezza tragica con cui maneggiare le numerose apocalissi di cui narra. «Sono sempre stato colpito dal processo con cui in ciascuno di noi si costruisce il teatro della memoria e la messa in scena dei ricordi. Ma la memoria è spesso traditrice. Le cose non rivivono mai come sono avvenute: la memoria ricrea, è come un potente faro da palcoscenico, un “occhio di bue” che mette in ombra tutto il resto, ciò che resta fuori dal fascio di luce. Un meccanismo ingannevole ma molto creativo».
«Nel centro Europa, la Seconda Guerra Mondiale ha “picchiato” in modo così profondo che mi ha sempre restituito un senso di irrealtà; è impossibile confrontarsi con quegli immani numeri di morte, quell’ecatombe ebraica, polacca, ucraina, la cancellazione di una intera koinè, senza inorridire. È stata la polverizzazione di un intero universo, prima con Stalin e poi con Hitler. Pochi ricordano che il 90 per cento delle biblioteche polacche sono state bruciate dai nazisti, i quali fecero fuori anche l’università di Cracovia, un disegno di cancellazione parallela che seguiva una precisa scaletta: prima gli ebrei, poi i polacchi, poi i baltici, poi i russi… tutti Paesi che dovevano diventare terra di schiavi per il Reich. Finita la guerra, i regimi che sono venuti dopo, hanno scelto una memoria parziale e falsa, una memoria costruita su un grande buco nero e sull’antisemitismo. Gli ebrei che tornavano dai campi alla ricerca delle loro case erano un problema, un disturbo nella creazione di un mondo nuovo che certo non voleva ricordare il passato. E dopo il 1956, con l’avvento del comunismo, la situazione, per gli ebrei, peggiorò ancora di più».
Ma come si parla di Shoah nella Polonia contemporanea?
«Innanzitutto va detto che di scrittori-testimoni come Primo Levi, la Polonia ne ha avuti tanti, ad esempio Tadeusz Borowski che raccontò Auschwitz da dentro: faceva parte dei Sonderkommando, era addetto ai forni, vedeva le cose dai margini dell’inferno, era nella zona grigia e, come Primo Levi, non resse al senso di colpa di essere sopravvissuto e alla fine delle sue illusioni, scegliendo di uccidersi, nel 1952. Oggi, nei licei, la storia nazionale viene studiata come una grande mattanza di polacchi; e la Shoah rientra nel grande fiume di sangue dentro cui è annegata l’intera nazione polacca. Per loro, la barbarie, il sopruso e l’assassinio erano da secoli esperienze quotidiane, essere invasi, affamati e razziati, una secolare e triste consuetudine. Per questo la Shoah, nella sua enormità, ha avuto bisogno di molto tempo per essere compresa appieno e metabolizzata, anche a partire dalle proprie colpe e connivenze».
C’è chi dice, oggi, che l’antisemitismo dell’Est Europa non è paragonabile a nulla di quanto è avvenuto a occidente. È feroce, antico, inveterato e, ad esempio, l’Italia non ha mai conosciuto niente di simile. Sei d’accordo?
«Per quanto riguarda il passato certamente sì, almeno fino agli Anni 60-70. Oggi non più. Senza contare che la Polonia oggi è molto vicina a Israele, mentre qui a Occidente l’antisionismo-antisemitismo si taglia col coltello».
Come evitare il pericolo che il Giorno della Memoria diventi pura celebrazione, un rito istituzionale, vuoto e museificato? Come si fa a rendere vicino il lontano?
«Innanzitutto separando la cultura ebraica dalla Shoah. Lo splendore e la ricchezza del patrimonio culturale ebraico hanno una storia a sé, non ascrivibile all’enormità della Shoah. Prima di arrivare a parlare di Shoah si dovrebbe contestualizzare il mondo ebraico, il suo universo variegato e complesso, yiddish e sefardita, parlare di Israele e far capire che la sua nascita non è stata la zattera di salvataggio degli ebrei della diaspora e neppure una risposta alla Shoah, quanto piuttosto a millenni di storia e anche, ovviamente, di persecuzioni. Guai a trasmettere lo stereotipo dell’ebreo vittima o pecora sacrificale, sarebbe una vittoria postuma dei massacratori. Solo così potremo sperare di rendere vicino il lontano e di spiegare qualcosa di sensato alle generazioni di oggi. Ahimè c’è da dire che il livello medio degli insegnanti su questo tema è piuttosto scarso. Serve conoscere e saper raccontare, far scattare l’empatia».