Otto anni di solitudine

Israele

di Luciano Assin

La scomparsa di Ariel Sharon ha riportato Israele indietro di oltre sessant’anni. Arik era forse l’ultimo, insieme a Peres, dei grandi personaggi politici israeliani ad aver accompagnato da sempre la storia dello Stato ebraico. Ma a differenza di Peres, il carattere di Sharon si era forgiato e sviluppato sul campo di battaglia. La storia di Arik è costellata di episodi drammatici e controversi, tutti caratterizzati da un comportamento spiccio e sbrigativo, privo di fronzoli e per certi versi brutale.

Sharon ha costruito il suo mito soprattutto grazie alla sua carriera militare, membro della mitica unita’ 101 dell’esercito negli anni 50, arrivò fino al grado di generale del fronte meridionale, ma non fu nominato Capo di Stato Maggiore per il suo carattere insubordinato. Smessi i panni militari pochi mesi prima dello scoppiare della guerra del Kippur fu richiamato come riservista al comando di un corpo d’armata che attraversò il canale di Suez, ribaltando definitivamente il corso del conflitto.

Il percorso politico di Arik è stato senz’altro molto piu’ drammatico e controverso. Due episodi spiccano su tutti: la strage di Sabra e Shatila ed il disimpegno israeliano dagli insediamenti della striscia di Gaza. Per molti commentatori sono la prova di un graduale ma radicale cambiamento fedeli al motto che “si nasce incendiari ma si muore pompieri”. Personalmente non sono d’accordo con queste analisi un po troppo semplicistiche. Nelle sue ultime dichiarazioni politiche l’agenda politica di Sharon era praticamente identica a quella attuale di Nathanyahu: nessun ulteriore ritiro dagli insediamenti esistenti e la necessità di mantenere un controllo militare su tutto il territorio, in particolar modo nella vallata del Giordano.

Sharon rispecchiava in definitiva la politica del Mapai, il partito Laburista di allora, dove i fatti erano più importanti delle parole ed i confini vengono stabiliti sul campo, allargando il numero e il raggio degli insediamenti. Ma a differenza della leadership degli anni 50 e 60 la visione politica di Sharon non mutò nel tempo. La sua esperienza di vita lo aveva portato alla conclusione che con gli arabi si puo forse coesistere ma non ci si può fidare più di tanto, ne tanto meno firmare un accordo di pace.

In politica, forse ancor di piu’ che nella vita militare il suo comportamento fu spregiudicato e cinico: la guerra del Libano, la fallita alleanza con Bashir Gemayel, gli innumerevoli insediamenti costruiti con e senza il benestare del governo, il suo contributo nell’assorbimento di un milione di russi quando era Ministro dell’Edilizia, la “passeggiata” nella spianata delle moschee che dette inizio alla seconda intifada, la presa del potere del Likud, la scissione e la fondazione di un nuovo partito “kadima”. Sono tutte sfaccettature di un uomo che contro tutte le previsioni riuscì a risorgere dalle ceneri della commissione d’inchiesta governativa che lo accusò in parte della strage di Sabra e Shatila per poi diventare due volte primo Ministro arrivando a livelli di popolarità Ben Gurionisti.

La morte di Sharon e’ giunta dopo un’agonia di oltre otto anni, una specie di limbo che ha contribuito a sminuirne il mito. Ad attutirne la memoria ed in sostanza a renderlo forse un pò più umano di quanto  sarebbe stato il suo ricordo nel caso di una morte improvvisa.

Verso Sharon ci può forse essere rispetto: era un uomo coraggioso capace di prendere decisioni difficili e impopolari, ma non certo nostalgia, già allora c’era chi cercò di combattere molte delle sue scelte facilmente prevedibili come infauste e dolorose, ma lo spirito combattente che lo ha accompagnato durante tutta la sua vita era più forte di qualsiasi logica politica equilibrata.

Luciano Assin