Liquidi, appannati, bagnati, forse fluidi… Gli ebrei a rapporto

Opinioni

di Anna Lesnevskaya

L’ebraismo americano (e un po’ anche europeo) a confronto con l’identità fluida. Tra accoglienza e regole, inclusività e paletti rigidi, ecco i must per le Comunità ebraiche (secondo il Report 2016 del JPPI), su come rafforzare le leadership future del mondo ebraico

 

Ebraismo fluido

tiamo assistendo ad un processo di riscrittura delle regole d’appartenenza comunitaria e bisogna prenderne atto, altrimenti le Comunità ebraiche si ridurranno velocemente». È questo l’avvertimento dell’ultimo Special Report del Jewish People Policy Institute (JPPI), un think tank di pianificazione delle policies che fa parte dell’ONG omonima indipendente, con sede a Gerusalemme, fondata dall’Agenzia Ebraica, con la missione di “garantire il benessere del popolo ebraico e della civiltà ebraica”. Il rapporto, reso pubblico di recente e intitolato Esplorando lo spettro ebraico nel tempo dell’identità fluida, è il frutto di un lavoro coordinato da due Senior Fellow del JPPI, l’israeliano Shmuel Rosner e l’americano John Ruskay. Il rapporto si è basato sul “Dialogo ebraico strutturale mondiale” (Structured Jewish World Dialogue), ovvero 49 seminari-incontri che hanno coinvolto le Comunità ebraiche in giro per il mondo tra marzo e aprile del 2016. Quindici tra questi seminari si sono svolti negli Stati Uniti, sei in Israele, quattro in Australia, tre in Brasile, due in Gran Bretagna e uno in Svizzera. è il terzo anno consecutivo che il JPPI organizza il “Dialogo strutturale” su temi caldi e d’attualità per l’ebraismo mondiale. Il Dialogo del 2016 fa parte del Progetto sul pluralismo e la democrazia in Israele e nella Diaspora del JPPI, finanziato dalla William Davidson Foundation, fondazione familiare privata con sede nello Stato di Michigan, negli Usa. “Il Dialogo si sta avvicinando a un punto cruciale: ovvero a un affondo concettuale e strategico, una conversazione più profonda che tenga conto dei risultati e che porti a un dibattito serrato nelle alte sfere e nella leadership diasporica e israeliana. Il tema? Come portare avanti il nostro comune destino ebraico”, scrive nella premessa del rapporto il presidente del JPPI, Avinoam Bar-Yosef, rivolgendosi ai leader dello Stato di Israele, alle comunità che hanno partecipato al Dialogo e alle organizzazioni ebraiche nel mondo.
Dal Dialogo del 2016 condotto dal JPPI è emerso che al tempo dell’identità fluida attenersi ai criteri irrevocabili dell’ebraicità può risultare difficile, “inattraente e non pratico”, recita il Report. Ma che è tuttavia altrettanto necessario salvaguardare alcuni paletti per evitare l’effetto contrario: l’assenza di standard e punti di riferimento che non potrebbero che portare ad un’inevitabile implosione della collettività. Una riflessione attuale come non mai, specie se pensiamo, ad esempio, alla Francia, Paese che ospita la comunità ebraica più grande d’Europa, circa il 75% degli ebrei. Un ebraismo che si sta allontanando dal giudaismo istituzionale e halachico, i quali fanno fatica a riconoscere come ebrei, come accade con il Concistoire, i figli nati dai matrimoni misti (da madre non ebrea o convertita dai Reform o liberali). Una fluidità dell’identità ebraica che in molti casi si riversa in Israele e che pone nuovi quesiti, specie in merito alla domanda “ma chi è davvero ebreo?”. D’altra parte, sempre parlando della Francia, oppure dell’Ucraina e dei Paesi dell’Est, i numeri delle Aliyot in Israele rimangono molto alti (nonostante la flessione avvenuta nel 2016), rispettivamente 5.239 e 7.104 persone. Ci si pone quindi la domanda: può Israele continuare ad accogliere tutti secondo i criteri vigenti?
Uno dei presupposti dal quale era partito il Dialogo del 2016 condotto dal JPPI è che “le nozioni che definivano i contorni della collettività ebraica – e che una volta erano più chiare – si basavano su una serie di definizioni molte delle quali oggi sembrano valere meno”, recita il Rapporto, la qual cosa farebbe emergere una constatazione: “non esiste una definizione unanime dell’ebraicità e di quello che porta a essere ebrei”. Se da generazioni e per la Halachà, spiega il Rapporto, si considerava ebreo solo l’individuo nato da madre ebrea oppure sottopostosi alla conversione secondo regole e procedura standard, ciò non riflette più la situazione attuale.
Con la progressiva secolarizzazione e in base ai processi in corso nelle società occidentali, – come l’indebolimento del senso di affinità ai gruppi religiosi o comunitari -, l’ebraismo ha vissuto un’importante evoluzione interna, quella che ha depotenziato la componente religiosa dell’identità ebraica. L’integrazione con le società occidentali ha portato poi ad un numero crescente di matrimoni misti. E, alla fine, la nascita dello Stato di Israele ha investito il concetto di ebraicità di nuove accezioni esperienziali, pratiche e giuridiche. Quasi come dei biologi che esplorano un habitat mai studiato, gli autori del rapporto hanno quindi cercato di proporre una classificazione delle nuove “specie” nate dalla realtà mutata dell’ebraismo contemporaneo, in particolare quello nord americano.
La prima di queste categorie è quella degli Jews of no religion, “ebrei senza religione”, i quali vivrebbero la propria ebraicità in modo irriflessivo, come un fatto acquisito e dato per scontato, come per il proprio colore di occhi o pelle, come, insomma, una cosa data, ma che non li definisce più di tanto. Non si riconoscono nel giudaismo come religione ma mantengono una forte identificazione con la tradizione ebraica e alcuni suoi aspetti (il rapporto non precisa di quali aspetti si tratta). Che ci piaccia o no, questa categoria rappresenterebbe un terzo di tutti i giovani ebrei negli Stati Uniti e “pone delle sfide straordinarie per il mondo ebraico”, fa notare il rapporto. C’è poi un secondo gruppo, definito Self-declared Jews, “ebrei auto-dichiarantisi tali”, ovvero coloro che pur identificandosi con l’ebraismo non sono considerati tali dalla Halachà. Si tratta soprattutto di persone che hanno nonni o coniugi ebrei. Terza categorizzazione è invece quella dei Partial Jews, “ebrei parziali” ovvero coloro i quali, sposati con un coniuge non ebreo o cresciuti in una famiglia mista, presentano un’identità multipla. Infine, ci sono i Behavioural Jews, “gli ebrei comportamentali” che non si considerano per forza ebrei, ma che vivendo in mezzo a ebrei si comportano come tali: li si incontra soprattutto in Israele, specie tra quelli che hanno beneficiato della Legge del Ritorno.
“Anche se rimane significativo, oggi il criterio biologico è stato gradualmente eroso a causa del numero sempre maggiore di ebrei con un parente non ebreo, persone divenute membri di famiglia ebraica che non vedono necessità di convertirsi; o ancora c’è il fatto che l’auto-identificazione sia percepita come componente critica del legame con l’ebraicità”, sintetizza il rapporto. Sembrerebbe quindi prevalere un principio secondo cui l’ebraicità non è più identificabile con il fatto di fondare “una famiglia ebraica nel senso biologico” e neppure con l’identificazione con un gruppo unito dalla fede religiosa. Prevale piuttosto l’identificazione con un concetto più esteso, quello di “nazione”, con una “cultura”, insomma una “civiltà”, si dice nel rapporto.
Emerge tuttavia una specie di contraddizione: se, da una parte, nel definire l’ebraicità il campione dei partecipanti ha messo avanti il Senso di nazione e la Cultura, piuttosto che la Religione e il principio di ascendenza-discendenza, la genalogia insomma, d’altro lato, rispondendo invece alla domanda “Chi può essere considerato ebreo?”, hanno dato più importanza all’aspetto religioso e biologico. Questa apparente contraddizione si dissolve quando veniamo alle principali conclusioni del Report.
Al di là della vocazione minoritaria ed esclusiva dell’ebraismo (che quindi non presenta una vocazione maggioritaria e inclusiva come cristianesimo e islam), la prima conclusione a cui giungono i leader comunitari interpellati è il fatto di dover essere aperti e accoglienti verso tutti coloro che vogliono avvicinarsi, ebrei lontani, assimilati, dispersi o atei che siano. Questo si traduce in una delle indicazioni-raccomandazioni del JPPI al governo israeliano, alle federazioni ebraiche e ai filantropi, ossia di “continuare a investire quattrini per incoraggiare più ebrei possibile ad intensificare la loro partecipazione all’ebraismo e per creare un ambiente accogliente”, pieno di calore ed empatico. I leader comunitari, secondo il JPPI, dovrebbero quindi, in quest’ottica, diventare “ambasciatori e promotori di una comunità accogliente”.
Tuttavia, il dialogo lanciato dal JPPI è giunto a una seconda conclusione importante: ovvero che i leader comunitari dovrebbero essere selezionati secondo i criteri più rigidi dell’ebraicità, ben più rigidi rispetto a quelli che regolano la semplice partecipazione comunitaria da parte della gente. “Le norme sono necessarie per preservare il popolo ebraico in quanto collettività, e salvarlo dalla disintegrazione in un insieme frammentato e sparso di gruppi e individui”. Una frammentazione che potrebbe portare all’implosione. Da qui una delle raccomandazioni rivolte alle Comunità ed emerse dall’analisi del rapporto JPPI: salvaguardare, nella scelta del proprio leader, il fatto che abbia voluto per se stesso un modello di famiglia ebraica non mista. Fatto salvo il principio dell’accettazione dei membri sposati con non ebrei all’interno della compagine comunitaria. Accoglienti e inclusivi quindi, pur mantenendo, quando necessario, norme comunitarie selettive, e questo per ragioni simboliche e pratiche.
Curiosamente, il rapporto mette in luce anche un’altra tendenza. Nonostante la “liquefazione” dell’identità ebraica, non c’è una volontà diffusa di rendere più inclusiva la Legge del Ritorno che permette l’acquisizione della cittadinanza israeliana. Anzi, i partecipanti ai seminari che hanno generato il Rapporto sono piuttosto favorevoli a renderla più esclusiva e a restringerla a chi ha un parente stretto ebreo (e non un nonno, come ora) o a chi si è convertito secondo la procedura accettata. Opinione, questa, che conterà se solo si dovesse mai presentare la necessità di modificare la Legge del Ritorno a fronte di un’immigrazione crescente o a pressioni politiche in Israele contro i vigenti criteri attuali, conclude il rapporto che, sebbene interessante, ci sembra particolarmente orientato all’analisi della realtà americana più che europea.