Quando la libertà è partecipazione: la rivoluzione di Pesach

di Rav Giuseppe Laras

Pesach ha impresso una svolta irreversibile alla storia dell’umanità. E ci insegna che per quanto la realtà possa essere corrotta e crudele, potrà essere sempre rovesciata, corretta, redenta. Perché  sperimentare un processo di liberazione vuol dire imparare, innanzitutto, la possibilità del cambiamento.  E la responsabilità verso le generazioni future.
A dispetto di tutti gli antisemitismi, vecchi e nuovi

 

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Egitto, schiavitù, Faraone, liberazione, apertura e chiusura del Mar Rosso: queste sono solo alcune delle parole che ci sovvengono alla mente quando celebriamo Pesach, evento che evochiamo quotidianamente nelle preghiere e ogni Shabbat, oltreché, in particolare, nel mese di Nissàn. A Pesach il Faraone venne sconfitto, i suoi cavalli e i loro cavalieri scaraventati nelle profondità degli abissi marini.
Tuttavia, la Torah ci insegna chiaramente che il Male, sia nella storia umana universale sia nella storia ebraica -particolare e specifica-, non è stato definitivamente sconfitto. Il potere del Faraone naufragò sì nelle acque del mare, ma altri poteri non così dissimili si sarebbero manifestati pericolosamente contro Israele a breve e medio termine: “Amalek, Midiàn, Mo’àv, Emorì”, e così via. L’intervento divino in Egitto non ha divelto né espunto il Male dal mondo e dalla storia di Israele. La salvezza dalla schiavitù, dall’abbrutimento idolatra e dalla sofferenza fisica e spirituale operata da Dio “be-yad chazaqà uvrizroa netuyah”, con mano forte e con braccio disteso, ha instillato negli ebrei (e nostro tramite nella storia umana), una concezione alternativa della vita umana, del suo destino e della sua dignità. Gli eventi che ricordiamo a Pesach hanno trovato ricezione e importanza simbolica e teologica non solo nel cristianesimo, ma anche nell’islàm, per cui Faraone, l’archetipo del tiranno e dell’oppressore pagano, perseguitò i “Banu Israil”, i figli di Israele. Nell’Egitto contemporaneo, tuttavia, i faraoni della storiografia egizia -eredità culturale, orgoglio egiziano di oggi- e il Qur’an, il Corano, che ricalca il racconto biblico, sono inconciliabili, e la polarità si accentuò nel momento in cui i moderni egiziani entrarono in guerra contro gli israeliani. Scrive in proposito lo storico dell’islam Bernard Lewis: “Per il musulmano devoto, i ‘Banu Israil’ dell’esodo così come è narrato nel Qur’an, hanno poco o nulla a che vedere con gli ebrei, chiamati così all’epoca del profeta e nell’epoca contemporanea. Essi erano i seguaci del profeta Mosè, uno dei molti precursori del profeta Maometto; essi facevano parte perciò della sequenza di rivelazioni che costituisce l’Islàm, di cui la missione di Maometto rappresenta il compimento”.

 

Indipendentemente da ciò, se non fosse accaduto quanto noi ebrei, oggi come ieri, celebriamo a Pesach (o se -Hass-ve-shalom!- noi dovessimo dimenticarcene e ridimensionarlo), gli esseri umani si sarebbero in vario modo rassegnati al Male e ai più o meno invasivi e distruttivi rapporti di potere e di subordinazione esistenti, ritenendoli immutabili, inevitabili, giusti e addirittura preferibili rispetto alla libertà, alla sua durissima scuola e ai suoi rischi. “Pesach” ci insegna che il reale può sì essere corrotto e crudele ma che tuttavia esso può essere corretto, rovesciato e redento. Il Signore Dio ha insegnato agli ebrei tutto questo: non ci ha unicamente liberati. Con la rammemorazione continua della “yetziàt mitzraim” (l’uscita dall’Egitto) noi ci inseriamo in questa logica: uniamo reale e ideale; colleghiamo, riattivandoli, grandiosi e prodigiosi fatti passati al nostro presente e al nostro futuro; pervicacemente e concretamente affermiamo che, per la vita religiosa ebraica, liberazione significa investimento sul futuro delle prossime generazioni ebraiche.
Se Pesach ha impresso una svolta irreversibile nella storia dell’umanità, nessuno nega che ampie porzioni dell’umanità, inclusi gli ebrei, abbiamo spesso vissuto nell’indigenza e nell’oppressione, nella malattia e nell’ignoranza, subendo l’esercizio altrui del potere piuttosto che l’amministrazione di equità e giustizia, in contesti di indifferenza e ostilità. Gli ebrei, in particolare, sono colpiti con l’amarissima e mortifera piaga dell’antisemitismo, che ci accompagnerà di generazione in generazione e che oggi sta montando in vari ambienti tra loro diversi ed escludentesi, in maniera subdola, rapida e inquietante.  Noi dobbiamo costantemente preparaci a fronteggiare l’antisemitismo, a comprenderne i meccanismi e, ove possibile, a disattivarli. L’antisemitismo non è morto con le armate di Faraone. E purtuttavia in quell’occasione unica, fondante e archetipica, la “débacle” dell’Egitto di Faraone (“Mitzràim”), coincise con la fine delle angustie e delle ristrettezze (“Metzàrim”): dall’esilio diasporico si è giunti, tramite il Sinài, in “Eretz Israel”.
Quello che Dio ha operato a Pesach si deve declinare in ciò che i nostri padri e le nostre madri fecero a Purìm e a Chanucchà. La sopravvivenza di Israele e della testimonianza di Dio in questo mondo offerta da Israele (attem ‘Edài, “voi siete i Miei testimoni”) è dunque responsabilità e volere sia di Dio sia, dopo il Sinai, anche di Israele stesso. L’azione umana -l’azione ebraica- è dunque fondamentale nell’ottica dell’Alleanza contratta millenni or sono tra Dio e il nostro Popolo, al di là del mare, sulle alture del Sinài: questo testimoniano Purìm e Channucchà.
Traendolo fuori dall’Egitto, a quel sopravvissuto resto di Israele l’azione divina ha instillato inevitabilmente alcuni caratteri indelebili, ancorché talvolta latenti. Pur in mezzo a sofferenze secolari, celebrando Pesach, ogni ebreo ha affermato e continua ad affermare l’esistenza di un Dio unico, onnipotente, provvidente e buono, che non corrisponde in alcun modo all’ipotesi razionale-accademica circa l’esistenza di un Dio unico forse, ma filosofico e astratto, per forza disinteressato rispetto alle vicende e alle sorti degli uomini: questa affermazione radicale dell’ebraismo sconvolge e sempre sconvolgerà il mondo (e anche taluni ebrei), pur restando per esso una calamita quasi irresistibile. Essere sopravvissuti, nonostante tutto e tutti, come Popolo Ebraico, è inoltre uno smacco a qualsiasi forma di potere e di globalismo, sia pure quello irenista-sincretista-buonista, e rievoca esattamente quanto accaduto, pur a carissimo prezzo, a Pesach. Noi siamo sempre un “resto” di qualcosa che è andato perduto, noi tutti siamo sopravvissuti. L’ebraismo e gli ebrei resteranno quindi sempre una contraddizione palese o latente, nonostante il nostro piccolo numero. E dunque, sia per un motivo sia per l’altro, tristemente, l’antisemitismo di generazione in generazione ci aspetterà acquattato dietro la porta, come fece ‘Amalek, subito dopo Faraone e peggio di lui. Ma, di generazione in generazione, il Santo e Benedetto ci salverà dalle loro mani. Noi affermiamo anche questo a Pesach, fedeli a Dio e a noi stessi, esigenti con Lui e con noi. Il che significa che Dio ha vari modi per intervenire nella Storia, celati e manifesti. Quelli manifesti sono, come è noto, riassunti ed evocati dai quattro verbi che aprono la parashà di Vaerà nell’Esodo: “vi farò uscire”, “vi libererò”, “vi redimerò” e “vi prenderò”. L’ultima espressione verbale indica una presa diretta, un afferrare deciso e quasi “in extremis”, anche se chi è afferrato è forse titubante e reticente. E questo infonde, nonostante tutto, molta speranza e nuove certezze.
Mo’adim le-simchah! Pesach Kasher ve-Sameach!