Il dilemma africano di Gerusalemme

Israele

di Aldo Baquis

Prologo. Odessa, 1892. La rivista ebraica Pardes pubblica un testo utopico: Viaggio nella terra d’Israele nell’anno Taf-Taf (2040), nel Terzo millennio. L’autore descrive uno Stato ebraico moderno, sviluppato fra il Mediterraneo e il Giordano; tecnologicamente avanzato anche se basato molto sull’agricoltura. Dispone di un porto, “Ashdot”, con un milione di abitanti, da dove è possibile imbarcarsi su navi elettriche, oppure su “torri volanti”, simili a Zeppelin. Prevale in questo Stato una cultura ebraica improntata alla tolleranza. C’è proprietà privata, ma non c’è lotta di classe: perché, come vuole la Torà, ad ogni giubileo si provvede alla ridistribuzione della ricchezza. Così, alla conclusione del XIX secolo, sognava l’erudito Elhannan Leib Lewinsky.

Tel Aviv, febbraio 2014, Piazza Lewinsky. Sette del mattino. Alla Stazione centrale degli autobus di Tel Aviv c’è già un via vai di persone, di autobus, di camioncini. In questi rioni proletari, le ultime tracce dell’ethos sionista permangono nei cartelli stradali: Via del Ritorno a Sion, Via dei Battaglioni del Lavoro… Un tempo, queste palazzine in stile Bauhaus portavano con sé il sapore di un avanguardismo architettonico europeo. Oggi, quasi tutte sono fatiscenti, ridicolizzate dagli sfarzosi grattacieli ben visibili a pochi chilometri di distanza, nel centro degli affari di Tel Aviv.

Ogni due passanti, uno proviene dell’Africa: per lo più da Sudan o Eritrea. Nel Giardino Lewinsky – dedicato proprio all’erudito utopista di Odessa di cui parlavamo nel prologo -,  dopo una notte all’addiaccio, sdraiati su cartoni, stesi in gruppo sotto strati di coperte, alla vista dei primi raggi del sole, decine di migranti cominciano a stendersi le membra. Qualcuno prepara una colazione di fortuna. Su una palma sventola la bandiera dell’Eritrea. Nelle ultime settimane i 50-60 mila africani in Israele, da singoli migranti impegnati a restare a galla, si sono trasformati in un movimento organizzato. Al grido di “Siamo profughi, non criminali”, hanno organizzato manifestazioni di massa di fronte ad ambasciate, nella Piazza Rabin di Tel Aviv, alla Knesset. Adesso le agitazioni proseguono con un picchetto ad oltranza nella Piazza Lewinsky, contro la decisione del governo di allestire per loro un Centro di accoglienza forzata, a Holot, nel Neghev. «Sarà di fatto una prigione», denunciano. Sono decisi a lottare. In anni passati, quando intrapresero il grande balzo dall’Africa verso Israele, passando per Sudan ed Egitto, la prima parola del nuovo Paese che avrebbero imparato era appunto ‘Lewinsky’. Perché una volta entrati in Israele dal Sinai, i militari li avrebbero caricati su autobus diretti alla Stazione centrale di Tel Aviv. A due passi da lì, Piazza Lewinsky era – o almeno doveva essere -, il capolinea della loro odissea.

Gerusalemme, gennaio 2014, Ufficio Stampa Governativo. Di fronte a un gruppo di cronisti stranieri, il funzionario governativo israeliano illustra con pazienza i termini del “dilemma” dei migranti africani: Israele, spiega, si trova in condizioni particolari, perché è l’unico Paese occidentale raggiungibile via terra dall’Africa e perché non ha Paesi confinanti con cui assorbirli. I migranti, aggiunge, non possono essere considerati in blocco come profughi: sia perché hanno attraversato diversi confini prima di raggiungere Israele, sia perché la loro composizione sociologica (per lo più uomini, di età compresa fra i 20 e 40 anni), lascia intendere che sono giunti non tanto perché perseguitati ma perché in cerca di lavoro. Dopo aver vagliato migliaia di richieste di asilo, solo due sono state finora riconosciute tali da garantire lo status di “profugo politico”.

Israele si sente comunque vincolato dalla Convenzione sui Profughi del 1951. Dunque non sarà espulso chi rischia la vita se fosse forzato a tornare nel Paese di origine: ad esempio il Sudan, che si considera in stato di guerra con Israele, o l’Eritrea, dove vige un regime talvolta bollato come dispotico. Eppure Israele non vuole certo che essi mettano radici: perché, se lo facessero, esiste il timore che dal continente africano giungerebbe allora una grande ondata migratoria che altererebbe per sempre il carattere del Paese.

Che fare? Dopo una legge anti-asilo  che è stata trovata incostituzionale (settembre 2013) dalla Corte Suprema di Gerusalemme, la Knesset ne ha approvata un’altra (dicembre 2013), concepita per convincere i migranti che il loro futuro non è in Israele. Non possono lavorare, né spedire fondi all’estero. Da febbraio, gradualmente, i primi 1700 saranno ospitati nel Centro di accoglienza di Holot, nel Neghev, dove riceveranno vitto e alloggio. I cancelli sono aperti, ma occorre presentarsi ai guardiani tre volte al giorno. Chi cerca di esimersi, rischia il carcere. A meno che, spiega il funzionario, non accetti la opzione del “Terzo Paese”: ossia un Paese africano disposto ad accoglierli (avendo ricevuto da Israele ingenti aiuti, la cui natura non viene precisata). Nel 2013, tremila migranti hanno fatto ritorno “spontaneamente’’ in Africa. Altri 700 hanno seguito il loro esempio a gennaio, ricevendo da Israele un bonus di 3.500 dollari per adulto. «Alla lunga, i migranti devono comprendere che quella è l’unica via di uscita», conclude il funzionario.

Tel Aviv, febbraio 2014, Ambasciata di Eritrea. Tesfamariam Tekeste Debbas è un diplomatico dalla voce suadente. Avendo partecipato alla lotta per l’indipendenza dell’Eritrea, vede somiglianze fra il suo Paese ed Israele. La sua è una piccola Nazione, circondata da Paesi ostili, che l’hanno obbligata a vivere un lungo periodo di emergenza e di mobilitazione. Il programma del Servizio Nazionale può essere visto come una imposizione, ma è necessario alla sopravvivenza. E la marcia verso la democrazia è ragionevolmente cauta perché forze esterne (ad esempio i Fratelli Musulmani), vorrebbero scardinare le etnie del suo Paese, innescare conflitti fra cristiani e musulmani. Le Ong occidentali, lamenta, certe cose proprio non le vogliono capire.

Quando, nel 2006, l’immigrazione di eritrei in Israele era un fenomeno limitato, poteva essere gestito. Ma allora, lamenta, egli non venne ascoltato dal governo di Gerusalemme. Adesso gli eritrei in Israele sono 35 mila: non sono profughi, ammette, cercano solo una emancipazione economica. Adesso però non è più possibile rimpatriarli in massa: il suo Paese non ha le strutture necessarie. Che fare? Innanzi tutto, rispettare i loro diritti umani, non umiliarli. L’ipotesi del “Terzo Paese”? Ne ha sentito parlare. Qualcuno indicava l’Uganda come possibile stazione di arrivo. Ma i dirigenti ugandesi, a quanto gli risulta, negano di aver mai promesso di accogliere migranti africani provenienti da Israele. È vero che migranti che tornassero in Eritrea rischierebbero il carcere, perché “disertori”? O anche la morte? L’ambasciatore sgrana gli occhi, incredulo che enormità del genere possano essere prese in seria considerazione.

Tel Aviv, febbraio 2014, rione Florentin. «Io in Eritrea non ci torno in nessun caso», dice Aron. «Chi scappa dall’Eritrea è considerato, in patria, un criminale. Rischia anche la pena di morte». Laureato in geografia, 28 anni, con un passato movimentato nel suo Paese. Costretto dal regime ad insegnare per un anno in una zona di confine, Aron ha conosciuto il carcere. È riuscito a scappare dopo una colluttazione con una guardia, ha marciato per 150 chilometri per raggiungere il Sudan. In Egitto è stato attaccato da energumeni razzisti. Ha attraversato il Sinai e spera (sperava) di aver trovato quiete in Israele. Invece adesso «ci cacciano per strada come bestie selvagge». Anche Aron rischia di essere caricato su un autobus e condotto nel Centro di accoglienza di Holot. Là lo attenderebbe un anno di ozio forzato. E poi? Un altro anno ancora, finché non decidesse insomma di lasciare “spontaneamente” Israele.

Nel frattempo, in Piazza Lewinsky la collera monta. Le proteste sono sempre più radicali. Sporadicamente, migranti sono stati coinvolti in violenze: negli uffici dell’immigrazione a Rishon le-Zion e nella sala-pranzo di Holot. Nel carcere di Saharonim, i dirigenti della protesta hanno osservato uno sciopero della fame di 18 giorni.

Ma nelle strade vicine a Lewinski, fra i sempre più rari “nativi” israeliani rimasti, c’è un senso crescente di frustrazione. Nei loro condomini, la percentuale dei migranti è salita rapidamente. Avidi padroni di casa stipano gli appartamenti con dieci, venti africani. Sovraffollamento, rumore, sporcizia dilagano. E anche un senso di impotenza. «Gruppi di africani mi intimidiscono per strada, mi dicono di ‘Tornare in Russia’. Quegli sfrontati mi chiedono perfino quanto prenderei all’ora per prestazioni sessuali», lamenta Esty, una sessantenne con i capelli a spazzola e una treccina. È nata a Tel Aviv, ama la città, ma non ci si ritrova più. Il sabato, quando i negozi sono chiusi, è l’unica israeliana in strada. Non si avventura più da sola: “come una bambina di 10 anni”, vuole allora essere accompagnata. «Un giorno, mi dicono gli africani, anch’io me ne dovrò andare, questo quartiere sarà tutto loro…». In questi rioni gli israeliani si stanno organizzando in vigilantes e in comitati di azione. L’atmosfera è carica di elettricità velenosa: anche una scintilla rischia di innescare una brutta reazione a catena. Se visitasse oggi la piazza a lui dedicata, l’utopista Elhannan Leib Lewinsky, proverebbe una dolorosa fitta al cuore.