Esiste una teologia ebraica? Da Hirsh a Heshel, da Rosenzweig a Leibowitz… Ecco una mappatura

di Ugo Volli

leibowitz
Yeshaiahu Leibowitz

Mentre la ‘teologia’ contiene i pensieri dell’uomo su D-o e sulle cose divine, la Torà contiene i pensieri di D-o sull’uomo e le cose umane». In questa frase di Samson Raphael Hirsh c’è tutta la difficoltà di definire una “teologia ebraica”. Ancor più sinteticamente, Martin Buber usava dire che “noi non parliamo di D-o, ma a D-o”. Resta il fatto che la teologia, intesa come discorso sul divino, la sua struttura, la sua vita interiore, è sostanzialmente lontana dalla forma di vita e di pensiero principale dell’ebraismo. Non che speculazioni su questi temi siano mancate, soprattutto nell’ambito della Qabbalà: si pensi alle meditazioni sulle sefirot o emanazioni e sulla numerologia dei nomi divini, alla mistica del “Carro” e dei Palazzi. Ma si tratta di temi che fin dai tempi del Talmud sono stati considerati delicati e perfino pericolosi.

Fuori dall’ambito della mistica, i discorsi ebraici sulla divinità e sui suoi rapporti col mondo si sono sviluppati soprattutto in epoca moderna e per confronto con il cristianesimo. Ma generalmente in ambito ebraico, soprattutto in un ambiente culturalmente portato all’autodifesa come quello dell’ebraismo italiano (ma anche francese e sefardita) anche di queste cose si parla poco. Ne parla oggi un interessante libro di sintesi di Massimo Giuliani, documentato e intelligente studioso di ebraismo, che non a caso si chiama Teologia ebraica – Una mappatura (Morcelliana).

La definizione “mappatura” è esplicitamente usata come un modo di far fronte a questa difficoltà di fondo. Si tratta cioè non di definire una teologia ebraica ma di elencare in maniera ordinata chi nella storia del pensiero ebraico si sia occupato, anche in modi molto contrastanti, di questi temi. Non a caso meno di un quarto del libro è dedicato alle fonti classiche del pensiero ebraico, dal Talmud al chassidismo. Tutto il resto esplora in notevole e crescente dettaglio il dibattito a partire dall’Ottocento, dando ragione del formarsi della “scienza dell’ebraismo” e del movimento riformato, della nuova ortodossia di Hirsh, incidentalmente degli ultimi grandi protagonisti italiani come lo Shadal e Benamozegh e poi del dibattito americano del Novecento, della “teologia della Shoà”, del tentativo di costruire una “teologia femminile” dell’ebraismo, del revival degli studi sulla Qabbalà, dell’“esistenzialismo” francese, fino alla cronaca del dibattito contemporaneo.

Sono richiamati i maestri più noti del Novecento, da Heshel a Leibowitz da Solovetchick a Rosenzweig e Buber, da Levinas fino a Hartman, ma vi è soprattutto il gran numero di intellettuali, filosofi, rabbini che hanno discusso dei fondamenti dell’ebraismo negli ultimi decenni, con una netta prevalenza dell’ambiente nordamericano. Tale ricchezza di voci esclude l’approfondimento di ogni singola posizione (anche per i grandissimi non vi sono più di due o tre pagine) e può produrre un effetto di sconcerto per chi ha presente la gerarchia più comune del pensiero ebraico, basato sulla figura dei decisori halakhici. Oltre al filtro dell’interesse teologico, questa prospettiva poco comune deriva dal voler essere una mappatura trasversale, in cui si analizzano tutte le correnti del mondo ebraico, anche quelle più lontane dalla tradizione “ortodossa”. E’ una scelta precisa, naturalmente, che però rende certamente questo libro interessante e istruttivo anche per chi segua con passione il pensiero ebraico più noto della tradizione.