Israele e le nuove tribù del Medioriente

Israele

di Ilaria Myr

Il mondo arabo è in fiamme. E niente sarà più come prima. Defunti gli stati-nazione, rinascono prepotenti il tribalismo, l’identità di clan. Chi sono gli interlocutori di oggi? I capi tribù, tornati a combattersi ferocemente l’un l’altro. Quale sarà il ruolo di Israele in questo nuovo scenario? Cosa farà la nuova amministrazione Trump? Risponde Maurizio Molinari, direttore de La Stampa e analista geopolitico

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«Se oggi guardassimo la cartina del Medio Oriente che studiavamo a scuola, riconosceremmo molto poco di questa regione. Sei Stati ormai non esistono più, e altri sono seriamente minacciati dai conflitti, che sembrano essere tornati a logiche tribali. Le uniche zone stabili? Gli Stati degli Emirati arabi e Israele, lo Stato della tribù degli ebrei». Così Maurizio Molinari, 57 anni, da un anno direttore del quotidiano La Stampa di Torino, in passato corrispondente per il quotidiano piemontese da Bruxelles, New York, Gerusalemme e Ramallah (l’unico nella stampa italiana a lavorare dalla città palestinese), parla della situazione attuale del Medio Oriente con una chiave di lettura nuova circa gli attuali rimescolamenti degli assetti del mondo arabo: la chiave della rinascita delle identità tribali e dei particolarisimi etnici, la vittoria dell’elemento del clan su quello degli stati nazionali, oggi disintegrati, la rivincita dell’Etnos sul Topos, come direbbero gli antropologi. Molinari è da sempre, per formazione, anche un esperto di relazioni internazionali, un analista della politica americana e del Medioriente. Ecco l’intervista (avvenuta nell’ambito di una serata di Kesher che ha fatto, su questo tema, il tutto-esaurito).
Un nuovo scenario: quale il ruolo degli eterni rivali, Iran e Arabia Saudita, quale spazio per lo Stato Islamico?
Oggi assistiamo alla dissoluzione degli Stati nazionali, nati in seguito agli accordi di Sykes Picot e poi della decolonizzazione. Stati governati per 100 anni in gran parte da elites che guardavano solo ai propri interessi, suscitando molto malcontento nella popolazione e portando a una serie di rivolte e rivoluzioni, che dal 2011 a oggi hanno iniziato ad avere successo.
Il risultato è che adesso la mappa del Medioriente è totalmente cambiata: ben sei Stati (Iraq, Libia, Siria, Yemen, Somalia, Libano) non esistono più, non hanno più un governo o delle forze di sicurezza in grado di imporre la legittimità sul territorio. Ma questo processo di “implosione” oggi minaccia anche gli altri stati più solidi (Algeria, Tunisia) e soprattutto contagia i tre grandi Stati regionali: il primo è l’Egitto, che ormai non riesce più a controllare la penisola del Sinai o alcuni quartieri del Cairo, e che è sempre di più oggetto di aggressione da parte di gruppi jihadisti. C’è poi l’Arabia Saudita, che confina al sud con lo Yemen, in piena guerra civile. E poi la Turchia, le cui zone meridionali vivono un’instabilità endemica, in cui il governo di Erdogan reprime brutalmente le guerre interne.
Il risultato di questa decomposizione degli Stati nazionali non è altro che la riaffermazione delle entità pre-esistenti a essi: le moschee, le milizie e le tribù. In particolare, nel mondo sunnita, che rappresenta l’80% della popolazione di questi Stati, è in atto una resurrezione del potere della tribù, l’entità che da sempre domina sul territorio e controlla le risorse: l’acqua, il cibo, il bestiame. Storicamente la tribù che controllava il pozzo d’acqua era quella più potente nel territorio, ed era costantemente in conflitto con le altre, che miravano a usurparle il dominio. Ed è esattamente questa logica che regola oggi i delicati equilibri in Medio Oriente, come è evidente nel conflitto fra sciiti (che costituiscono il 20% del mondo musulmano) e i sunniti (l’80%). In Iraq, oggi, i primi stanno avendo la meglio sui secondi, che invece vivono un processo di disgregazione che apre le porte a Daesh-Isis, Stato islamico sunnita, contro il nemico sciita. Lo stesso succede in Siria orientale, dove la maggioranza sunnita si sente minacciata dagli alawiti – altra tribù -, che avanzano sulla costa. Questo spiega perché è difficile sconfiggere Daesh-Isis: se lo si schiacciasse con un’offensiva occidentale, esso non sarebbe più un alleato contro i nemici dei sunniti. E così la guerra continua.
Dal canto loro gli sciiti – primo fra tutti l’Iran -, presentano al proprio interno una catena di comando e una struttura gerarchica verticale che dà loro stabilità, cosa che manca invece ai sunniti, che presentano una struttura fatta di clan, quindi orizzontale. Inoltre: ci sono i curdi – altra tribù -, oggi accomunati dalla volontà di creare un’entità comune, ma considerati una minaccia da tutti gli altri soggetti, i quali, uniti contro i curdi, creano alleanze altrimenti impensabili.

 

In questo complesso quadro, le uniche aree stabili sono gli Emirati del golfo – Qatar, Dubai, Kuwait ed Emirati Arabi – non a caso mono-tribali, visto che la popolazione appartiene a una sola tribù, gli Al Saban. E infine c’è Israele, ovvero, lo Stato della “tribù” degli ebrei. Chi, in questo quadro, potrebbe prendere il controllo del timone? Nel mondo sunnita il personaggio chiave è il vicepremier e sceicco degli Emirati, Mohammed bin Rashid al-Maktoum, detto Scheik Mohammed o anche Big Mo: un uomo estremamente ricco – a lui si deve la creazione di Dubai – e illuminato, ma anche crudelissimo, spietato e sanguinario, che non esita a dichiarare “I will kill them all” riferendosi agli sciiti, nemici giurati. È lui che ha piegato il Qatar quando sosteneva i Fratelli musulmani, minacciandolo di espulsione dal Consiglio di Cooperazione del Golfo. A lui è molto legato uno dei contendenti al trono dell’Arabia Saudita, Paese in cui la guerra di successione sta indebolendo il fronte sunnita.
In tutto ciò, come si muove Israele? E cosa può comportare questa “stagione delle tribù” nei rapporti con i palestinesi?
Fino a oggi la politica del governo israeliano è stata quella di sostenere i governi sunniti in difficoltà: questo ha portato a nuovi rapporti più o meno espliciti con diversi Stati dell’area – il Qatar, il Bahrein, il Kuwait, gli Emirati, l’Oman, l’Arabia Saudita – in ambito politico ed economico. Inoltre, all’indebolimento della presenza americana in Medio Oriente è coinciso il rafforzamento della Russia, che punta ad avere come alleati i Paesi scontenti degli Stati Uniti. Se nel prossimo  gennaio il coro dell’Armata rossa ha in programma 100 concerti in Israele è perché lo Stato ebraico – considerato uno Stato russofono in virtù dei suoi oltre 2 milioni di cittadini russi – è diventato per la Russia un elemento strategico.
Di fronte a una minaccia concreta di attacchi, Israele agisce su tre piani: prima di tutto lavora sul piano della difesa fisica, attraverso la costruzione di recinzioni ai confini. Poi mette in atto un minuzioso lavoro di intelligence su quello che avviene nella fascia di territorio a ridosso del confine, entro i 10 km: ciò significa, ad esempio, conoscere i personaggi influenti oltreconfine e avere dei contatti diretti con loro. «Li chiamiamo al telefono», mi disse un giorno un ufficiale israeliano quando gli chiesi come dissuadevano i nemici, ai confini, da azioni aggressive «Telefoniamo e diciamo: non farlo, lascia stare, non ti conviene. Loro restano interdetti e si fermano». E infine, ultimo elemento della cosiddetta “strategia del castello” – come l’aveva definita Yaakov Amidror, ex consigliere per la sicurezza nazionale di Benjamin Netanyahu ed ex generale dell’Intelligence militare – l’eliminazione fisica dell’avversario, per prevenire minacce dirette.
Per quanto riguarda i palestinesi, essi stessi sono divisi in tribù e questo spiega perché non siano ancora arrivati a sviluppare un’entità nazionale. Allo stesso tempo, però, la loro volontà di avere uno Stato è in netta contraddizione con i principi del Califfato Islamico, che invece è contro ogni forma nazionale. Per questo Daesh-Isis ha difficoltà a penetrare all’interno della società palestinese, mentre sta facendo breccia fra gli arabi israeliani, beduini del Negev o contadini della Galilea, che hanno invece un’identità più debole e fragile.

Come si arriverà, se si arriverà, a una pace fra Israele e i palestinesi?
Sul tavolo delle trattative politiche c’è l’iniziativa della Lega araba, che per la riappacificazione con tutti i Paesi arabi chiede a Israele il ritiro dai territori conquistati nel 1967, e che ha ottenuto un primo accordo verbale di Netanyahu in cambio di alcune correzioni. Ma il terreno su cui si giocherà il dialogo fra Israele e palestinesi è il futuro di Gerusalemme: ora che la Spianata delle Moschee non è più sotto la giurisdizione giordana nè di alcun Stato, c’è spazio, per l’Arabia Saudita, per inserirsi come leader in questo scenario. Sul fronte civile, invece, come disse il Presidente israeliano Rivlin in un’intervista che gli feci qualche settimana fa, la coesistenza può avvenire solo nella cornice di una confederazione, in cui le diverse entità convivono con le proprie specificità. Nei due anni in cui, come corrispondente, sono stato a Ramallah, i palestinesi che incontravo non mi dicevano “voglio uccidere tutti gli israeliani”, ma “vorrei i confini aperti per andare in spiaggia a Tel Aviv”.
Quali gli effetti dell’elezione di Donald J. Trump a Presidente degli Usa sullo scenario mediorientale?
È un grave errore considerare Trump come un ritorno alla politica di George W. Bush, perché è una figura totalmente nuova nella politica americana: il suo carisma e leadership è prevalente sull’organizzazione politica, è lui il leader scelto dalla “tribù bianca” Usa. L’interrogativo ora è se Trump riuscirà a far tornare l’America in Medio Oriente o se potrà trovare un’intesa con Putin. Non è un caso che la prima reazione del governo israeliano alla sua nomina sia stato l’augurio che Stati Uniti e Russia si uniscano contro il terrorismo in Medio Oriente.
Da quando lei è al timone de La Stampa sono molti gli articoli su Israele. Frutto di una sua scelta di fare “hasbarà ? Quale la reazione dei giornalisti?
Non sono intervenuto in alcun modo: ai miei giornalisti ho spiegato che il mio ruolo di direttore è stimolare la creatività di ognuno, elemento fondamentale in un lavoro giornalistico. Una sola cosa ho chiesto: le ideologie stanno fuori da qui. Sì alle diverse opinioni, ma mai cedere all’ideologia. Il risultato è il giornale che trovate in edicola.